mercoledì 29 aprile 2015

Asia: investimenti ed egemonie

Messe a fuoco

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Si manifesta un'avversione statunitense per gli investimenti, promossi dalla Cina, nello sviluppo delle infrastrutture in Asia. Crisi e preferenze finanziarie. Storie dell'Estremo Oriente ed egemonismi. Cina e Pakistan. Surplus esportativi e multilateralismo.

Un articolo di Joseph Stiglitz, opportunamente segnalatomi da Paolo, dal significativo titolo “Il multilateralismo aiuta lo sviluppo”1, induce ad alcune considerazioni per comprendere la logica finanziaria e il nesso tra egemonismo Usa e Paesi emergenti in Asia. Prendendo in esame storia e fatti recenti, nonché altri “contributi” all'analisi, si può ottenere un quadro delle tendenze in atto.

Un apparente paradosso
Stiglitz ritiene “paradossale” l'avversione degli Stati Uniti alla Asian infrastructure investiment bank (Aiib)2nata su proposta cinese per le finalità implicite nel nome. Poi, non essendo un ingenuo, ammette che l'atteggiamento appartiene alla logica egemonica, contraria ad un possibile mondo multipolare. Anni fa, gli Usa contrastarono un analogo tentativo giapponese.
Gli Usa sono di principio per la libertà economica sino a quando torna loro comodo e non ritengono di essere “minacciati” nel loro ruolo, ragione che sopravanza ogni dichiarazione di principio. L'ipocrisia è un tratto costante dei signori di Washington.
A parte l'eccessivo ottimismo3 del premio Nobel 2001 sul rispetto dei criteri ambientali e sociali di simili iniziative per il solo fatto di essere pluripartecipate, l'Aiib è una buona iniziativa che spinge verso un mondo multipolare. Noto che vi hanno aderito i Paesi europei già nel novero del G7 e non l'Unione.
Nel prosieguo, l'articolo punta il dito sul supposto “eccesso globale di risparmio” (Ben Bernanke), sostenendo criticamente:
«Il problema non è il surplus di risparmio o la mancanza di buone opportunità di investimento, ma un sistema finanziario che eccelle nella manipolazione dei mercati e nella speculazione ma che ha fallito nel suo compito fondamentale: coordinare il risparmio e l'investimento a livello globale.»
Per dirla con Amato e Fantacci4: la finanza non rispetta i suoi fini e ad essi andrebbe ricondotta.
E se la sua intima natura fosse proprio quella di ricondursi sempre a se stessa, di autoalimentarsi a dispetto e detrimento della cosiddetta “economia reale”?
D'altro canto, come interpretare le prolungate enormi iniezioni di liquidità della Fed, a cui recentemente si è accodata la Bce5, le quali invece di “sollevare tutte le barche”, contribuiscono piuttosto a corroborare borse, assets finanziari e speculazione?
Basic instincts finanziari
Bisogna ammettere che gli investimenti finanziari sono molto più remunerativi di quelli nelle produzioni di beni e servizi, ai quali si sovrappongono con una tecnica paragonabile a quella adottata per estrarre metano tramite fratturazione idraulica sotterranea.6 (La sequenza è analoga: perforazione; potente iniezione di liquidi nel sottosuolo; fratturazione delle rocce; estrazione del gas “liberato”).
Tra i due tipi di investimento corre, secondo stime internazionali, una differenza di ben 10 punti percentuali di profittabilità.
Questa è la ragione vera per cui gli impieghi del “surplus di risparmio” non si dirigono verso la cosiddetta “economia reale” o, quando accade, seguono strette logiche finanziarie e producono effetti nel tempo piuttosto distruttivi. Come il fracking lo produce per l'ambiente. Basti ricordare a quali processi ristrutturativi vengono sottoposte le aziende su cui mette le mani la finanza.
Di converso, il decremento degli investimenti nella base economica deprime a sua volta i consumi interni, per mancanza della correlata occupazione e dei connessi salari spendibili, e il cane si morde la coda. Un fenomeno particolarmente evidente in Eurozona.
Del fenomeno da anni ampiamente conosciuto, si è resa conto persino la Banca dei regolamenti internazionali di Basilea, la quale, per bocca del suo capo ufficio studi, arriva alla sintesi: «la crescita del settore finanziario coincide, nei paesi sviluppati, con una diminuzione del tasso di crescita dell'economia reale.» Meglio tardi che mai...
A tale proposito appaiono assai interessanti le osservazioni del professor De Cecco, apparse in un recente articolo [vedi riquadro dedicato].
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Troppa finanza divora l'economia

«La finanziarizzazione eccessiva è ora deprecata anche da coloro che avevano, in passato, creduto nello sviluppo virtuoso delle strutture finanziarie» (…)
«A causa delle liberalizzazioni delle attività finanziarie, effettuate per attrarre capitali sufficienti a riequilibrare i conti esteri messi in crisi dall'aumento dei prezzi del petrolio, l'oligopolio finanziario internazionale che si è formato ha potuto fissare i prezzi dei suoi servizi e sottrarre, per la maggiore redditività che riesce così a esprimere, sia risorse finanziarie a chi, come molte attività industriali, riesce a remunerarle meno, sia risorse umane di maggior valore, perché riesce a pagarle meglio. Nei settori non finanziari, i manager pagati meglio non sono più quelli addetti alla ricerca o alla organizzazione della produzione, ma quelli che fanno da interfaccia alle istituzioni finanziarie e cercano di ottenere condizioni più favorevoli per le risorse che devono investire. O quelli che all'interno delle imprese, “fanno finanza”, ad esempio nelle divisioni delle medesime che si dedicano ad attività di ricerca ed allocazione di risorse finanziarie tramite i mercati » (…)
« (...) uno studio di Steven Cecchetti, [ndr: capo dell'ufficio studi della Banca dei regolamenti internazionali di Basilea] (…) sostiene che la crescita del settore finanziario coincide, nei paesi sviluppati, con una diminuzione del tasso di crescita dell'economia reale. Il motivo, secondo lo studio citato, è che il settore finanziario, per espandersi velocemente, e anche per diminuire i rischi, concede crediti ai settori più patrimonializzati dell'economia reale. Ad esse risulta più facile l'uso del patrimonio come collaterale dei presiti. Tali settori sono caratterizzati da bassa crescita della produttività e da elevata capitalizzazione. Cecchetti ha in mente innanzitutto il settore dell'edilizia (...)» (…)
«Comunque la si voglia guardare, la crisi attuale ha riportato in auge le opinioni di coloro che vedono l'economia reale assediata e spesso espugnata da una classe di capitalisti finanziari che prevale su quella degli imprenditori industriali e commerciali.
Vengono quindi alla mente le grandi visioni dello sviluppo capitalistico internazionale, come quelle di Fernand Braudel o del suo ammiratore e discepolo Giovanni Arrighi. La dinamica degli spostamenti dei centri del potere economico internazionale (…) Negli ultimi anni sarebbe addirittura responsabile del trasferimento dell'egemonia verso Oriente (…).» (…)
«Ma è una innovazione [finanziaria] che ha come scopo una sottrazione sempre maggiore del potere finanziario al controllo degli Stati per la maggiore fluidità delle risorse finanziarie, cioè della loro capacità di muoversi tra Stati diversi.» (…)

Estratti dall'omonimo articolo di Marcello De Cecco
La Repubblica Affari & Finanza (30/03/2015).
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Finanza troppa?
Si potrebbe ritenere tale se, come gli storici moralisti a cui accenna Braudel [vedi riquadro dedicato], rappresentassimo la propensione finanziaria come una sorta di esagerazione (troppa!) e non come una evoluzione e, al contempo, una scelta obbligata. Agli albori degli anni Ottanta, quando Thatcher e Reagan decisero di liberalizzare le attività finanziarie, in relazione alla delocalizzazione delle produzioni verso i Paesi che potevano offrire più ampi margini di profitti, il mondo capitalistico atlantico-occidentale tentava una via d'uscita dalla propria crisi sistemica di accumulazione.
I contesti e specialmente i tempi di svolgimento definiscono crisi diverse tra loro. Distinguerli è dirimente, almeno nell'analisi.
Il crack del 2007-2008 ha mostrato l'incepparsi per via endogena della finanziarizzazione, ossia del meccanismo messo in atto quasi trent'anni prima. Pur in quadro di sostanziale stagnazione a cui molti sembrano rassegnati, tutto lascia supporre che tale meccanismo sia in via di sostanziale ripristino, con poche marginali correzioni, riassestando nel tempo breve il potere delle relative oligarchie (ed esponendosi a nuovi repentini crolli).
Non altrettanto può essere detto della crisi sistemica di più lunga durata, giacché essa investe problemi strutturali.
Da un lato si inaspriscono le tre grandi contraddizioni, in ordine: 1) la crisi di accumulazione nell'economia produttiva reale; 2) la crisi energetico-ambientale; 3) la crisi delle società contadine.7 Temi qui introdotti in altri articoli, in particolare sulla relazione tra espulsione dalle campagne e flussi migratori.
Dall'altro si rafforza la tendenza complessiva, di medio periodo, al trasferimento del centro (per usare il linguaggio di Braudel ripreso da Da Cecco) del sistema da Ovest a Est, in Asia. Un passaggio, questo ultimo, che implica sia una rigenerazione, sia forti mutamenti soprattutto negli assetti egemonici planetari.
Nella visione dello storico francese della lunga durata, la finanziarizzazione di un determinato sistema-mondo coincide con la sua fase calante. Nel caso in esame, in quanto “segnale d'autunno” di un'area con un centro, non significa necessariamente inizio della fine del capitalismo in quanto sistema, ma il trasferimento del suo baricentro.
Allorché, tra le due guerre mondiali ed in particolare dopo di esse, il centro si trasferì dal Regno Unito-Londra agli Stati Uniti-New York, si trattò di una dislocazione con un forte carattere di continuità, quasi ereditario. Rilevante l'appartenenza ad una storia e ad una cultura comuni.
Non altrettanto si potrebbe asserire di quello in corso tra le due sponde del Pacifico, destinazione Cina-Shanghai.
Pertanto, occorre ben comprendere il contesto storico ed il ruolo degli Stati.
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Segnale d'autunno
«Questa spinta finanziaria rappresenta l'aberrazione di cui parlano gli storici moralisti? Non è un'evoluzione normale? Già nella seconda metà del secolo XVI, altro periodo di sovrabbondanza di capitali, Genova aveva percorso la stessa strada: i “nobili vecchi”, prestatori accreditati del re Cattolico, avevano finito con l'allontanarsi dal commercio attivo. Il tutto viene presentato come se, nel ripetere tale esperienza, Amsterdam avesse lasciato il certo per l'incerto, il mai lodato abbastanza “commercio di deposito” per la china delle rendite speculative, dando buon gioco a Londra e addirittura finanziando l'ascesa della rivale. È vero, ma c'è da chiedersi se avesse alternative, o se le avesse la ricca Italia della fine del Cinquecento; se a quest'ultima si fosse prospettata la possibilità, o un'ombra di possibilità, di arrestare l'ascesa del Nord. Ciò non toglie che l'evoluzione complessiva di tale ordine sembri annunciare, con lo stadio di rigoglio finanziario, una sorta di maturità; è il segnale dell'autunno.»

Fernand Braudel, Civiltà materiale, economia e capitalismo (secoli XV-XVIII), Vol. 3°, I tempi del mondo, Einaudi, 1982 (1979), pagg. 234-35.
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Cinquecento anni
I cinesi non ritengono la storia e la geografia materie secondarie.
«Nel momento in cui Vasco da Gama entrò nell'Oceano Indiano nel 1498, il principio per cui i mari erano zona di commercio pacifico fu immediatamente eliminato. Le flottiglie portoghesi iniziarono a bombardare e saccheggiare ogni porto che arrivava loro a tiro, prendendo poi il controllo di punti strategici (…).»8
Su un mondo assai più sviluppato, ricco e popolato, eppure militarmente impreparato, un piccolo Stato europeo prevalse con la forza dei cannoni delle proprie navi militar-mercantili. Successivamente, con l'arrivo degli olandesi e ancor più dell'Inghilterra, vennero imposte una rapina allargata e un sottosviluppo plurisecolare, inibendo una crescita industriale già bene avviata (e misconosciuta) da cui solo ora i Paesi dell'area stanno emergendo.
L'Europa era “mostruoso attrezzo” (sempre Braudel), basato sulla simbiosi tra mercanti, banchieri e politica, tra affari e apparato militare degli Stati. Con le sue galee, ad un tempo mercantili e militari, del sistema fu antesignana la Repubblica di Venezia, il suo arsenale, l'affermarsi del suo proto-colonialismo nel Mediterraneo.
L'Europa espresse un eccezionale carico di aggressività concentrata ed espansiva, sì da consentirle di depredare un intero mondo. E anche a piccoli Stati, come il Portogallo ed il Belgio, di appropriarsi di enormi risorse soggiogando Paesi e popoli di “taglia” ben superiore alla loro.
Egemonismo
Pertanto, dati i precedenti storici, non può suscitare meraviglia che la Cina (Liaoning, prima porta-aerei cinese, settembre 2012), seguita dall'India (prima porta-aerei indiana, agosto 2013) si armino per proteggere le rotte marittime ed il passaggio negli stretti. Seppure i due Paesi asiatici (appartenenti al BRIC insieme a Brasile e Russia) siano in qualche modo rivali, da quali eventuali blocchi aereo-navali dovrebbero proteggersi?
C'è una sola potenza planetaria in grado di costituire una minaccia.
Nemmeno desti sorpresa che gli investimenti infrastrutturali della Cina, forte della citata Aiib, si dirigano verso il rinnovo delle antiche vie terrestri. L'alleanza9 con il Pakistan consente alla Cina di non dover dipendere dal passaggio nello stretto di Malacca per raggiungere il mare arabico e, da lì, il golfo persico, il canale di Suez e le coste africane orientali.
Nella seconda metà d'aprile ha sollevato clamore la visita del presidente cinese Xi Jinping in Pakistan, che ha presentato un piano di investimenti infrastrutturali per 46 miliardi di dollari. Si è discusso del Corridoio economico Cina-Pakistan (Cpec), per collegare la città di Gwadar, nel sud del Pakistan, con la regione del Xinjiang, nell’ovest della Cina [vedi carta geografica dedicata]. Una rete di strade, ferrovie e soprattutto impianti per l’energia saranno costruiti su un territorio di circa tremila chilometri. «Con questo piano Pechino spera di espandere la sua influenza in Asia centrale e meridionale, mentre per Islamabad si apre la possibilità di rafforzare l’economia e risolvere il problema della mancanza di energia.»10
Certamente il futuro svolgimento dei rapporti tra Cina e Stati Uniti non può essere ridotto all'intreccio, qui evocato, tra investimenti ed egemonismo.
Tuttavia, dobbiamo prendere atto che, in mancanza di soluzioni alternative, coordinate e ben dotate di risorse, non a caso provvede la finanza di Stato, o meglio di alcuni Stati. Sicché la massa di dollari per surplus esportativi accumulati, a suo tempo dal Giappone e in anni più recenti dalla Cina, alla base dei noti imbalances11 negli scambi internazionali proprio con gli Usa, viene, anche se solo in parte, diretta verso gli investimenti in infrastrutture del continente asiatico, veicolo keynesiano di crescita più complessiva.
Sotto ogni punto di vista, gli Usa hanno le loro buone ragioni per opporvisi, contrastando insieme multilateralismo e sviluppo.

1 Internazionale, 17 aprile 2015
2 Banca asiatica d'investimento infrastrutturale.
3 Qualche indizio positivo dalla Cina viene. Secondo la Iea (International Energy Agency) nel 2014 il consumo di carbone cinese è calato del 2,9% e, nel contempo, Pechino ha ridotto l'intensità energetica della sua economia, ossia il rapporto tra consumi e Pil, del 4,8%, quasi un punto in percentuale di più del suo target. La Cina è responsabile del 30% delle emissioni mondiali di CO2. [Elena Comelli, Corriere Economia, 20 aprile 2015].
4 M. Amato e L. Fantacci, Fine della Finanza, Donzelli, 2009.
5 Quantitative Easing.
6 La tecnica è detta “fracking shale gas”.
7 Samir Amin, 20/02/2015, http://ndukur.com/crise-financiere-crise-systemique/.
8 David Graeber, Debito, il Saggiatore, 2012 (2011), pag. 302.
9 La Cina è da alcuni anni il primo partner commerciale del Pakistan che, a marzo, ha acquistato otto sottomarini dalla Cina, diventandone il maggiore cliente d'armi.
10 http://www.internazionale.it/notizie/2015/04/20/cina-pakistan-investimenti-46-miliardi.
11 Squilibri.

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