venerdì 16 gennaio 2015

Civiltà dello scontro

Riccardo Bernini - gennaio 2015
Messe a fuoco

Civiltà dello scontro

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Terrorismo endemico. Del Califfato. La Palestina sullo sfondo. Angosce demografiche. Civiltà. Uno standard occidentale. Tolleranza nell'interno sociale. Rompere la gabbia.

Terrorismo endemico
Il terrorismo passatista islamico oramai imperversa da decenni: i recenti fatti di Parigi, pur considerati nella loro specificità, si collocano in coda ad una lunga sequenza. Su scala mondiale. Anche episodi apparentemente isolati possono venire compresi solo se collocati in un quadro più generale, di contraddizioni di più lunga durata in cui si sono venuti formando. In quanto fenomeno stabile è alla soluzione delle contraddizioni che ne costituiscono l'habitat, che deve necessariamente venire rinviata sia la sua riduzione che la sua eliminazione.
A disposizione delle pubblica opinione non mancano le analisi effettuali. Sul piano della psicologia individuale e di gruppo, come su quello sociologico e persino nella narrativa, ci è stato spiegato donde e su quali motivazioni vengano reclutati i terroristi, siano essi provenienti dalle enormi e degradate periferie delle megalopoli del cosiddetto mondo islamico o, caso più recente ma minoritario (ma più "vicino a noi"), da quelle dell'Occidente, dagli Stati Uniti, dal Regno Unito, dalla Francia. Per non parlare dei meccanismi di arruolamento nelle "aree tribali", dall'Afghanistan alla Libia, alla Nigeria.
Sul piano politico il terrorismo passatista islamico è oggetto troppo spesso più che di analisi, di proposte risolutive, sbrigative ed estreme. Pur distinguendo tra islamismo e terrorismo, anche il governo socialista di Manuel Valls1 si situa nella logica di guerra.
In controtendenza si pronuncia una parte del gollismo francese. Proprio alcune settimane fa, l'ex primo ministro Domenique de Villepin aveva ammonito di non commettere l'errore grave della "guerra al terrorismo", prospettando, in alternativa, una "strategia di asfissia" del Califfato e delle sue propaggini. Si tratta di due prospettive divergenti nel concepire le politiche internazionale di tutte le nazioni europee e dell'Unione.
Anche il ricorso agli scenari più apocalittici, quali quelli evocati da chi paventa l'islamizzazione dell'Europa, mostrano una interna difficoltà, quasi un rifiuto. Quello di riandare alle radici, ai problemi reali, al riesame dei contesti concreti come di quelli simbolici, per assumere lucidamente e non oniricamente (sognando incubi) la sostanza di un agire possibile. Un compito vasto. Mi limiterò a sollevare alcune questioni irrisolte, all'interno delle quali questo terrorismo si è incistato.
Del Califfato
Il Califfato della Siria e dell'Iraq non è caduto dal cielo. Il terrorismo si è fatto Stato, ma di terrorismo di Stato, degli Stati d'Occidente si è nutrito. Sia come alleato che come nemico. 
Il muro era già caduto. In Bosnia, quando la politica dei riconoscimenti delle piccole patrie etniche si tradusse in intervento militare per completare l'opera di disgregazione, Stati Uniti e reami arabi vi inviarono i loro alleati di Al-Qaida. Combatterono contro i serbi e a sostegno del governo musulmano di Alija Izetbegović. Più recentemente, il Califfato dell'Isis venne incubato dagli stessi USA quando si inserirono nella crisi siriana. Poi, si ripeté lo scenario già sperimentato con Saddam Hussein, alleato contro l'Iran, che, per il servizio reso con la guerra alla Repubblica Islamica, pensò di prendersi una ricompensa, annettendosi il Kuwait. Anche l'alleato Al-Bahgdadi per il servizio in Siria (non potendo arrivare a Damasco) si è impossessato dei pozzi di Mosul e di parte del Kurdistan iracheno.
Ad un passo dall'intervento diretto e nel giro di pochi mesi, a Washington scoprirono che l'alleato sul campo siriano era diventato un nemico in Iraq. Possibile una simile coazione a ripetere, dopo l'11 settembre?
Ci si chiede quale ruolo abbiano giocato i neo-conservatori (Mc Cain, il partito del petrolio arabo-americano, i reami arabi) e in quali rapporti con l'amministrazione Obama. Altresì, ci si interroga sul reale motivo della estensione dell'etichetta di terrorismo, con le relative conseguenze, da Al-Qaida ed Isis ad organizzazioni come Hamas a Gaza, Hezbollah in Libano e il PKK in Turchia. Mettere sullo stesso piano movimenti e partiti di resistenza, connotati dall'appartenenza religiosa o da quella etnica e nazionale, e terroristi, ora integralisti fanatici e tagliateste, non è un espediente particolarmente nuovo.2 Risponde ad una logica politica che però, de facto, autorizza al pensar male di andreottiana memoria, senza far ricorso a spiegazioni complottistiche o agli esperti di intelligence.
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L'angoscia demografica
«Nel cuore della notte del 24 gennaio 2006, un'unità speciale della polizia di frontiera israeliana occupò il villaggio palestinese di Jaljulya. Le truppe fecero irruzione nelle case trascinando fuori trentasei donne e deportandone otto. A queste ultime venne ordinato di ritornare nelle loro vecchie abitazioni in Cisgiordania. Alcune di loro sposate da anni con palestinesi di Jaljulya, altre erano incinte, molte avevano figli. Furono brutalmente separate dai loro mariti e dai loro figli. Un deputato palestinese della Knesset protestò, ma l'azione venne appoggiata dal governo, dalla magistratura e dai media: i soldati dimostrarono all'opinione pubblica israeliana che quando la presenza della minoranza palestinese minacciava di trasformarsi da "problema demografico" a "pericolo demografico", lo Stato ebraico agiva rapidamente e senza pietà.
Il raid poliziesco di Jaljulya era del tutto "legale": il 31 luglio 2003 la Knesset aveva promulgato una legge che proibiva ai palestinesi, quando sposavano cittadini israeliani, di ottenere la cittadinanza, la residenza permanente o anche la residenza temporanea. In ebraico il termine "palestinesi" è sempre riferito ai palestinesi che vivono in Cisgiordania, nella Striscia di Gaza e nella diaspora, per distinguerli dagli "arabi israeliani", come se non facessero parte della stessa nazione palestinese. Colui che aveva proposto i disegno di legge era un sionista liberale, Avraham Poraz, del partito di centro Shinui, che lo presentò come "misura difensiva". (...)
I parlamentari arabi della Knesset facevano parte di un gruppo di israeliani che si appellarono alla Corte Suprema contro questa ultima legge razzista. (...) La decisione della Corte Suprema [ndr: di respingere l'appello] era una chiara manifestazione di quanto poco essi contassero sia nel parlamento israeliano che nel sistema giudiziario. (...) la Corte preferiva stare dalla parte del sionismo piuttosto che della giustizia.»

Ilan Pappe, La pulizia etnica della Palestina, Fazi, 2008 (2006), pagg. 294-295.
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La Palestina sullo sfondo
Inevitabilmente si ritorna alla Palestina, all'inizio del dramma. Sicché assistiamo alla scena parigina3 alla quale partecipa Netanyahu, in rappresentanza di un governo fresco reduce da un bombardamento indiscriminato, ennesimo atto di guerra terroristica contro la popolazione del ghetto di Gaza. E qui la contraddizione si fa cocente per la supposta univoca identità del civile e democratico Occidente.4 Mentre quest'ultimo teorizza retoricamente pluralismo e libertà nel rifiuto dell'idea di Stato confessionale, tanto più mono-confessionale, appoggia uno Stato (riconoscendolo parte della propria civiltà, cultura e tradizione, a differenza di quelli arabi e del "mondo musulmano") che non può permettersi una Costituzione coerente e completa5 per non autodefinirsi. Giacché Israele dovrebbe ammettere, nero su bianco, di essere lo Stato di una religione e del popolo di quella religione, così come si è andato storicamente e concretamente affermando con la pulizia etnica della Palestina6, ossia uno Stato ebraico. Con la conseguenza di riconoscere formalmente la marginalizzazione degli arabi palestinesi e con essi della religione islamica, mantenuti in numero minoritario "compatibile", sì da assicurare salda e perenne supremazia alla componente maggioritaria attuale. Non a caso si insiste nel richiamare tutti gli ebrei alla "terra promessa", nell'ansia attanagliante della "questione demografica" e l'occupazione della Cisgiordania bada ad incorporare più territorio possibile, acquisendo il minor numero possibile di palestinesi residenti (vedi riquadro).
Pertanto si assiste in Israele ad un apparente "ribaltamento" rispetto alla generalità dei Paesi occidentali. Agli immigrati vengono garantiti diritti e opportunità di inserimento, laddove questi sono negati alle popolazioni indigene. Non è dunque l'immigrazione il problema, bensì l'appartenenza, l'identità degli immigrati a rafforzare/indebolire l'identità ebraica dello Stato.
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Civiltà
«Ma se affossate la parola "civiltà", se minate e scalzate le basi di questa nozione, in nome di che cosa potremmo giustificare la nostra presenza nelle colonie? È necessario che nel termine "civiltà" non facciate passare la nozione di "relativismo culturale", perché non potremmo giustificare la nostra azione in Indocina e in Africa nera. Bisogna che la parola "civiltà" continui ad indicare qualcosa di assoluto non di relativo: ne va della presenza francese nelle colonie francesi.»
Citazione di Paul Doumer presidente della Repubblica dal 13 maggio 1931 al 6 maggio 1932.

Annamaria Rivera, La guerra dei simboli - Veli postcoloniali e retoriche dell'alterità, Dedalo, 2005, pag. 95.
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Un modello occidentale standard
Localizzare la contraddizione alla sola Palestina, tuttavia, comporta una forte limitazione di significato e di senso. Giacché è tutta la storia dell'Occidente degli ultimi cinquecento anni, dalla "scoperta" delle Americhe in poi, con l'Europa tedofora di civiltà, ad essere chiamata in causa. Ad esempio: come si sono formati gli States in America, sia rispetto ai popoli indigeni, sia, più tardi con l'importazione di schiavi dall'Africa? Nel corso della guerra d'indipendenza americana, il generale John Sullivan, inviato da George Washington a distruggere ogni insediamento autoctono nella terra irochese delle Sei Nazioni, inalberò il motto: "Civiltà o Morte!"7 Un imperativo continuamente riproposto.
Appropriarsi di terre abitate da secoli da altri popoli in nome della civiltà, è una costante, uno standard occidentale. Lo Stato d'Israele non ha inventato un modello, lo ha solo mutuato. Ma tardivamente, troppo tardivamente: la sconfitta dell'apartheid in Sud-Africa ne segna la fine.
Il rovesciamento dei flussi migratori
Ora, alla devastazione umana di interi continenti, al colonialismo e al neo-colonialismo, la continuazione delle pratiche liberiste apporta l'ultimo tassello: la forzata emigrazione da forzato spopolamento delle campagne, derivante dalla globalizzazione capitalistica dell'agricoltura. Si tratta della Grande Contraddizione.8
Arricchendo il Centro e depauperando le Periferie (e la polarizzazione è riprodotta anche su scala europea), si costringono milioni di persone all'emigrazione sia interna che internazionale. A questa spinta si aggiungano i profughi per la sopravvivenza dalle guerre di cui i governi d'Occidente si sono resi diretti responsabili. Ne registriamo solo piccole conseguenze nei flussi mediterranei verso l'Italia e l'Europa. Comunque, l'angoscia demografica di Israele si estende ai Paesi della parte più ricca dell'Europa.9
Ecco allora la chiamata alla guerra contro il terrorismo nel mortale scontro di civiltà.10 In realtà, più appropriato sarebbe guardare alla nostra "civiltà degli scontri"11 che tratta in modo antagonista l'immigrazione per non dover far fronte alle sue cause, né alle sue necessarie conseguenze.
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Casta
«Nel descrivere la condizione sociale delle popolazioni d'origine maghrebina in Francia, Christine Delphy (...) ha proposto l'utilizzo della categoria di casta. (...) essa non è nè peregrina nè alternativa alle descrizioni in termini di classe e di genere: "La classe comporta elementi di casta; e la casta, al pari del genere, vale a distribuire gli individui nelle classi sociali." Uno dei vantaggi del suo utilizzo, soggiunge Delphy, risiede nel fatto che, "mentre il concetto di razzismo descrive dei processi, quello di casta pone l'accento sui risultati di tali processi in termini di struttura sociale." E questi sono rispecchiati nel fatto stesso che si parli di questi cittadini e cittadine francesi come di immigrati/e di seconda o di terza generazione, trasformando così uno status per definizione situazionale in una caratteristica quasi-biologica ed ereditaria.
È una tendenza che non riguarda solo l'ordine del linguaggio: effettivamente per gran parte dei figli/e e nipoti di immigrati magherebini non v'è alcuna possibilità di mobilità sociale, così che essi sembrano condannati a ereditare lo status dei loro genitori o nonni, il che potrebbe autorizzare a parlare, appunto, di una situazione di casta. »

Annamaria Rivera, La guerra dei simboli - Veli postcoloniali e retoriche dell'alterità, Dedalo, 2005, pagg. 18-19.
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Interno sociale
L'immigrazione si inserisce in un interno sociale di diseguaglianze crescenti e di sostanziale stagnazione economica. A queste difficoltà si sommano i fallimenti delle strategie di integrazione e di società multietnica-multiculturale.
Infatti, in Europa l'immigrazione è stata trattata secondo strategie riferite a tre Paesi: integrazione (Francia), società multiculturale-multietnica (Regno Unito), lavoratore ospite (Germania). A quanto già scritto12 vorrei aggiungere qualche ulteriore elemento di riflessione.
Nella Francia, scopertasi Charlie Hebdo, il revisionismo storico è diventato legge nel febbraio del 2005, dal momento che è stato fatto obbligo agli insegnanti dei collegi e dei licei di valorizzare "il ruolo positivo" svolto dalla Francia nelle colonie. In un contesto in cui: la popolazione carceraria, per il 60%, è costituita da discendenti di immigrati; i quartieri loro riservati sono stati abbandonati a se stessi e si è creata una situazione di apartheid economico e sociale; "per gran parte dei figli/e e nipoti di immigrati magrebini non v'è possibilità né speranza di mobilità sociale."13 Come meravigliarsi se tra i tanti esclusi, alcuni possano essere indotti all'estremo di darsi alla morte sicura in azioni terroristiche, pur di dare un senso alle proprie esistenze?
Varrebbe la pena di ripensare persino alla declamata "tolleranza", una parola dal retrogusto agro-dolce. Certo, meglio la sopportazione della soppressione dell'altro! Tuttavia, se si tiene conto da chi e in quali rapporti è stata elaborata quella famosa teoria,14 qualche dubbio sovviene. Voltaire "fu poligenista15 convinto, esplicito fautore dell'antiebraismo, risoluto sostenitore e profittatore del sistema schiavistico."16 Non a caso venne preso a riferimento da ideologi del razzismo come Arthur de Gobineau. Il concetto di tolleranza, quando non venga applicato alle sole divergenze d'opinione tra pari reciprocamente tolleranti, implica uno stare sopra e a distanza, socialmente e culturalmente. Oggi potrebbe essere così interpretato: "ti sono superiore, non ti osteggio ma ti tollero, purché tu stia al tuo posto, a debita distanza da me e dal mio quotidiano." Una convivenza tra padrone e subordinato, tra classi e caste (vedi riquadro) ostili ma l'un l'altro funzionali, alla Menenio Agrippa; sicuramente non una convivenza basata sulla condivisione.
Rompere la gabbia
Poiché il terrorismo passatista trae origine e continuo alimento dal terrorismo della civiltà dello scontro, uscire dall'uno non è possibile se si persevera nell'altro. Parimenti l'immediato impatta contraddizioni di ordine epocale, storiche e complessive, che implicano un percorso di lunga durata, sul quale ci si può solo avviare.
Quali i primi passi?
Tra i milioni di coloro che hanno partecipato alle manifestazioni francesi dopo la strage di Charlie Hebdo forte è il sentimento democratico, di avversione alle idee xenofobe, razziste e neo-fasciste, quando sono conclamate. Ma già qualche indecisione traspare di fronte all'idea di scontro delle civiltà. Indecisione che si tramuta , almeno per una parte, in appoggio a chi propugna la guerra al terrorismo. Incombe l'angoscia demografica, accompagnata dalla continua visione del sangue dei "nostri" che spinge nell'oblio il sangue degli "altri" (non dei terroristi, ma degli innocenti). E si finisce per dare per scontata una guerra che non lo è affatto, soprattutto in tutte le sue implicazioni.
Ma è proprio dalla opposizione alla "guerra contro il terrorismo" il punto da cui muovere. Essa, infatti, si viene a situare nella riproposizione della logica della guerra fredda della Nato e degli Stati Uniti, con le note conseguenze ad Est (Ucraina) come a Sud (Medio Oriente e Nord Africa) dell'Europa. In questa logica politica delle relazioni internazionali, nella quale si puntella il traballante egemonismo nord-americano e si rifiuta l'emergente nuovo mondo multipolare, ristagna ogni possibile soluzione del problema palestinese.
Se l'Unione Europa vuole sopravvivere (al di là dei destini della zona euro), deve attivarsi per sminare le situazioni di conflitto. Si cominci dalla Palestina, andando oltre il riconoscimento formale datole da alcuni Parlamenti. Poiché tutti si dicono fautori di "due popoli, due Stati", si operi concretamente in tal senso, aprendo un processo di pace, attraverso il riconoscimento, reciproco e simmetrico, del diritto all'esistenza di tutte le forze aderenti. Si sancisca la fine dell'apartheid ed il rispetto dei diritti umani. I responsabili di stragi e terrore siano sottoposti al giudizio di un Tribunale Internazionale. Il ritiro dalle aree occupate sia garantito da una forza internazionale di interposizione fino all'estensione della sovranità dello Stato palestinese su un territorio continuo e non ridotto ad un arcipelago di bantustan.17 Gerusalemme cessi di venire contesa e divenga città dell'incontro e del dialogo mondiale, anche tra confessioni.
Non bisogna essere gollisti per condividere alcune proposte di Domenique de Villepin18, la cui prospettiva di civiltà declinata "alla francese" diverge, peraltro, da quella qui sostenuta.
Rimettersi in movimento per rompere la gabbia della civiltà dello scontro e del continuo ricorso alla guerra significa aprirsi a tutti coloro i quali fossero disposti anche ad un solo atto per forzarla.
1 Manuel Valls all'Assemblea Nazionale francese del 13/01/15: «Sì, la Francia è in guerra contro il terrorismo, il jihadismo e l’islamismo radicale. La Francia non è in guerra contro l’islam e i musulmani. La Francia proteggerà tutti i suoi cittadini, quelli che credono e quelli che non credono, con determinazione e sangue freddo.»
2 Negli "anni di piombo" ogni movimento d'opposizione venne assimilato al terrorismo.
3 Nella manifestazione del 11 gennaio 2015.
4 A cui si è richiamato Matteo Renzi all'inaugurazione dell'Anno Accademico dell'Università di Bologna.
5 Uriel Lynn, in un articolo sul Jerusalem Post del 23/10/2007, sostiene che alcune Leggi fondamentali formano la Costituzione d'Israele che, tuttavia, "deve essere completata". http://www.israele.net/israele-ha-gi-una-costituzione-scritta.
6 Ilan Pappe, La pulizia etnica della Palestina, Fazi, 2008.
7 Wu Ming, Manituana, Einaudi, 2007, pag. 576.
8 Nel Post "Immigrazione".
9 Da essa muove anche Michel Houellebecq con il libro "Soumission", in cui si prospetta una Francia (nel 2050) islamizzata.
10 Samuel Phillips Huntington, Lo scontro delle civiltà e il nuovo ordine mondiale, 1996.
11 Arjun Appadurai, Sicuri da morire. La violenza nell'epoca della globalizzazione, Meltemi, 2005.
12 Nel Post "Immigrazione".
13 Annamaria Rivera, La guerra dei simboli - Veli postcoloniali e retoriche dell'alterità, Dedalo, 2005, pagg.16-19.
14 Voltaire, Trattato sulla tolleranza, 1763.
15 Il poligenismo è una teoria, detta anche polifiletismo, che afferma la pluralità delle origini dei vari tipi umani.
16 Annamaria Rivera, ibidem, pag. 101.
17 Territori del Sudafrica e della Namibia assegnati alle etnie nere dal governo sudafricano nell'epoca dell'apartheid.
18 Le Monde Diplomatique - Il Manifesto, dicembre 2014.

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