domenica 5 aprile 2020

La corda che tira la rete

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Si possono tentare diverse strade per raggiungere lo scopo di ridare forza a quella parte di società che l'ha persa.

Chi chiama a raccolta attorno ai suoi storici “valori” la sinistra non piegata al liberismo, e/o ne propone un rinnovamento attraverso la rielaborazione critica delle idee di democrazia e libertà, di solidarietà e comunità, di eguaglianza e, in definitiva, di socialismo.

Altri invece, avendo in comune le stesse aspirazioni e magari la stessa area di provenienza – e questo è nostro caso –, preferiscono percorrere la via diretta dell'analisi concreta della situazione concreta, alla quale congiungere un insieme di sentieri, apparentemente sparsi nei meandri della nostra storia, nelle scelte politiche ed economiche della Repubblica.

Senza nulla togliere agli sforzi di pensiero dei primi, sul cui portato occorre continuare a riflettere, l'approccio dei secondi mi pare colga la primaria necessità di afferrare “la corda che tira la rete”. Ossia la contraddizione principale, afferrata la quale potremmo, insieme, attivare ed unificare le forze disponibili ad agire nel vivo del presente politico.
Questo è il motivo per il quale richiamo l'attenzione sul nuovo libro di Mimmo Porcaro,[1]1 invitando alla sua lettura ed al confronto con quanto contiene.

Un atto d'accusa
Anticipa il testo del libro una frase di Carlo Cattaneo:
«Giova ripetere: L'Italia non è serva delli stranieri, ma de' suoi.»
La citazione non prelude alla ricerca delle origini della nostra presente servitù nella lontana storia, magari nel Risorgimento e più addietro nel Rinascimento, bensì, muovendo lo sguardo dal presente e rivolgendolo alle scelte politiche ed economiche operate dalle classi dirigenti nella vita della Repubblica. Scelte che a quella servitù ci hanno ridotto, in particolare nella costruzione dell'Unione europea, spazio politico nel quale si è venuta a definire la “controrivoluzione liberista” anche nel nostro Paese.
Sono queste classi, con il loro establishment,[2]2 ivi compreso quello mediatico, i “suoi” di oggi, ieri di Cattaneo.
Ad esse è rivolta l'accusa in un lucido atto – qual è questo libro – di contestazione, concetto per concetto, scelta dopo scelta, nel continuum di un racconto storico della “contemporaneità”, troppo spesso o stravolto o frammentario. Per farlo, occorreva contrapporsi sia allo stravolgimento, anche subdolamente divulgato, sia colmare le lacune più vistose e congiungere le disperse critiche, negli anni già validamente espresse da molti (molti gli autori citati e ricca la bibliografia).
Bisognava, altresì, afferrare saldamente la “corda che tira la rete”, ovvero la contraddizione principale: la questione nazionale in quanto questione di classe. «Se esiste una “questione italiana”, una questione del posto e del ruolo del nostro paese nel mondo, essa è, come vedremo essenzialmente una questione di classe.»[3]3
Impresa tutt'altro che agevole, alla quale Mimmo Porcaro si è sentito costretto dall'incaglio delle cose. Fors'anche dovuto non solo agli avversari presi a bersaglio, quanto alle perduranti esitazioni di coloro i quali, pur avendone piena coscienza, ben oltre l'intuizione ed il sapere, tardano ad agire di conseguenza.
(Seguono annotazioni sul libro.)

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Interesse nazionale
«[...] si prepara ormai un’epoca di crescenti conflitti economici, politici e militari. Per affrontarla seriamente, e per evitarne gli esiti più gravi, sarebbe necessario prima di tutto pensarsi come nazione tra le altre, definire collettivamente il proprio interesse nazionale, lavorare per nuove relazioni internazionali che consentano l’attuazione di politiche popolari. Senza questa preliminare preparazione ci si troverà da un giorno all’altro esposti agli urti più gravi e costretti alle reazioni più inconsulte. È per questo che la nazione è il solo vero antidoto al nazionalismo, e la definizione degli interessi nazionali e del modo per mediarli con quelli altrui è la sola vera prevenzione della guerra: il globalismo pacifista e libertario che esorcizza ogni frase che riguardi la nazione e l’interesse nazionale è il più forte alleato del nazionalismo aggressivo e autoritario.»

Porcaro, Mimmo. I senza patria (Italian Edition). Meltemi, 2020. Edizione Kindle, posizione 450.
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La corda
Non si possono definire gli interessi della nazione al di fuori degli interessi e dei conflitti delle classi che la compongono; né, per parte nostra, l'interesse nazionale scorporato dall'interesse dei lavoratori.
La perdita di sovranità a presidio dell'interesse nazionale ci riguarda da vicino, poiché tale perdita preclude ogni percorso di effettiva emancipazione dei lavoratori. Di contro, la lotta per la sua riconquista, la liberazione della società dei rimasti senza patria, offre il terreno pratico sul quale la working class può riprendere in mano il proprio destino, compreso quello socialista.
Non si parte dal nulla: l'esercizio della sovranità democratica della Costituzione del '48 è la pianta da rinvigorire e far rifiorire.
Avverte l'autore:
«Non si troverà qui, peraltro, una dissertazione sulla sovranità o su un possibile socialismo italiano.»[4]4
Gli interessa, prioritariamente, chiarire il nesso tra nazione e classe, ricollocando l'astratto della battaglia concettuale, alla quale si accinge, nel concreto dello svolgersi politico.
Per Mimmo Porcaro, la perdita di sovranità non si situa in un'astratta “comunità” atavicamente propensa alla sottomissione – un fato che ci inchioda - , bensì all'interno, nelle sue contraddizioni.
Si scoprirà che la damnatio subita dalla nazione, divenuta oramai innominabile se non associata al nazionalismo bellicistico ed autoritario, trova spiegazione nella recente storia della Repubblica, nel conflitto intercorso tra le classi. Discende direttamente dalla scelta di autoconservazione delle classi dominanti e del loro establishment che negli ultimi decenni, per sfuggire al cambiamento avanzato negli anni '70 dalle classi popolari e renderle nuovamente subalterne, hanno “spostato” la sovranità altrove, sottraendo terreno e territorio – il luogo - alla democrazia, al potere popolare, esercitabile nel e per il Paese.
Di quali siano i “vincoli esterni”, generati nello spostamento, sappiamo. Dobbiamo sapere, altresì, il perché essi ci siano stati imposti ed in quali circostanze li abbiamo subiti, ossia dei “vincoli interni”, “dei suoi” di cui parlava Cattaneo.
Sicché dalla puntuale ricostruzione dei reali motivi sociali e politici di tale imposizione-sottomissione apprendiamo in cosa consista il nesso, in forza del quale la ripresa della classe per sé – il proletariato -, debba passare attraverso la ripresa della nazione. Essa, non esistendo in natura, è edificazione politica, e la denuncia dell'abbandono del suo “bene” da parte dei poteri dominanti, implica una “riedificazione” da parte di coloro vogliono riappropriarsene, in opposizione a quei poteri.
Non è la prima volta che questa “missione” si presenta al crocicchio della storia patria. Riecheggiano le parole di Antonio Gramsci rivolte al giudice che lo condannava al carcere,[5] 5[  ma ancor più lo testimonia la stessa Resistenza.
Una Resistenza con un prima ed un dopo, di cui il libro in esame si occupa con puntigliosa ma non dispersiva attenzione.
Doppio Stato
Per descrivere il processo politico-economico lungo il quale la condizione generale del lavoro, sia subordinato che “autonomo”, è stata ridotta dal liberismo alle condizioni attuali, Luciano Gallino ha parlato di “lotta di classe, senza la lotta di classe”, con un “colpo di Stato” senza i classici carri armati.
Nelle sue ultime analisi era giunto alla conclusione che in Italia, per non subire la lotta di classe praticata dal capitale finanziarizzato, occorresse riguadagnare la sovranità ceduta, uscendo dall'euro senza peraltro uscire dall'Unione...
Se vi fu “colpo di Stato” antidemocratico, poiché la sottrazione di sovranità è sottrazione di democrazia, bisogna ammettere che esso è avvenuto in una complessa sequenza temporale pluridecennale, conformando via via, nella sua attuazione, l'establishment.
Tuttavia, per meglio spiegare quanto è avvenuto e comprenderne la dinamica, mi sembra più penetrante l'idea propriamente politica, accolta da Porcaro sulle orme di Franco De Felice, che in effetti nella storia italiana non esista un solo Stato, all'interno del quale il colpo si sarebbe verificato, ma invece coesista un doppio Stato.
In cosa consiste, per così dire, la novità odierna?
Dal parallelo ed occulto agire dell'”altro Stato” in molte occasioni “non ordinarie” - tra le quali quelle note come strategia della tensione, al tempo delle stragi, appunto, di Stato -, siamo passati ad una fase in cui esso opera allo scoperto, con uguale effetto di sottrazione della democrazia.
«La caratteristica attuale del doppio stato è invece la quasi completa visibilità delle componenti “non ordinarie”, almeno per quanto riguarda l’imposizione di comportamenti riguardanti l’appartenenza all’Unione europea.»[6]6
Osservazione questa condivisile, purché l'idea del doppio Stato non porti a considerare “separati” i rispettivi corpi, come se quelli dietro le quinte, ieri occulti ed oggi visibili, fossero estranei agli altri posti “davanti”, occultando non il carattere contraddittorio della doppiezza, bensì l'intreccio convergente dell'insieme.
Al tempo della strategia della tensione, poi disciolta dal racconto dominante nei generici e confusivi “anni di piombo”, abbiamo sperimentato il reciproco incentivarsi dei corpi ufficiali istituzionali con quelli agenti in backstage. Ne è scaturito un processo politico che, in opposizione agli “opposti estremismi”, ha condotto alla repressione dei movimenti di massa, opportunamente associati al terrorismo, ed alle connesse leggi liberticide. Una fascistizzazione senza fascismo. Tra alterne vicende, la cosa è durata dalla fine degli anni '60 a tutti gli anni '70, schiudendo i per loro felici anni '80, durante i quali hanno condotto pressoché indisturbati “la lotta di classe senza la lotta di classe”.
Analogamente oggi, paventare il “pericolo sovranista”, associandolo indistintamente al nazionalismo autoritario e bellicista, vorrebbe condurre alle medesime conseguenze.
Sovranismo
«[...] l’Unione europea è una macchina costruita apposta per approfondire le differenze fra le classi sociali e le differenze fra i territori. Le sue “imperfezioni” non sono dunque tali, ma sono esattamente quello che la macchina deve fare se vuole continuare a essere utile ai suoi padroni.»[7]7
È un'affermazione forte con la quale concordo.
Viene capovolta la versione mainstream per cui l'Unione sarebbe nata con le migliori intenzioni, facendo prevalere sui latenti nazionalismi lo spirito comunitario rivolto alla pace.[8]8 Dopodiché, malauguratamente, le cose sarebbero andate storte, smentendo il prodigarsi purtroppo imperfetto dei volonterosi. L'insuccesso del perseguito “processo d'integrazione” avrebbe ridato la stura all'egoismo di alcuni governi a scapito della buona volontà di altri, perché sarebbero gli stessi popoli, reputati ancora tutti immaturi, a non sentirsi reciprocamente solidali e pronti al “salto di qualità” che l'Europa comporta.
A questa narrazione si oppone l'analisi dei fatti, in stretto legame.
Se il lavoro ha subito un generale attacco e la disoccupazione è aumentata, nella montante divaricazione (“meridionalizzazione”) tra Paesi e tra territori in seno ad essi, ciò è iscritto nel DNA dell'Unione europea e dei suoi trattati. La stessa adozione della moneta unica «[...] ha di fatto la funzione di stabilizzare e approfondire la relazione tra il centro e la periferia dell’Unione.»[9]9
Da un simile rovesciamento di prospettiva possono derivare diverse considerazioni.
La prima consiste nel dismettere ogni illusione, con annesse continue delusioni, che l'Europa sia ri-formabile se non dopo la decostruzione dell'Unione. Passaggio che implica, tra l'altro, l'uscita dall'euro, sistema al cuore del sistema. In sintesi: Italexit. Ciò comporta la necessità del Paese di far “parte per sé stesso”, di recuperare piena sovranità poggiando sulle classi popolari contro le quali la macchina europea è stata ideata ed installata. Senza di esse non è possibile contare innanzitutto sulle proprie forze e, in particolare, mobilitare le comunità territoriali, meridione ed isole, già svantaggiate e vieppiù penalizzate. Lo si può fare solo approntando politiche strutturali, in fuoriuscita dal liberalismo economico-sociale, a loro favore e con la loro attiva partecipazione, nonché praticando una politica estera tanto autonoma da poter divenire indipendente.
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Liberismo sovrano
«Tramontata l’epoca di Berlusconi (che reagisce agli schiaffoni presi dall’Europa secondo il noto meccanismo psicologico dell’identificazione con l’aggressore, e quindi dichiarandosi oggi più europeista dell’euro), è l’ora di coloro che ormai vengono identificati col sovranismo tout court, e che però, alla bisogna, sovranisti non sono. Urlano, sì. Sparlano (ma solo ciclicamente) dell’Europa. Combattono virilmente in parlamento e sui social. Però, in conclusione, rompono alleanze che infastidivano Bruxelles e consegnano il governo all’europeismo più spinto; dichiarano irreversibile l’euro; parlano di nazione e poi vogliono approfondire la separazione fra le regioni. Di fronte al “ricatto del capitalismo sovranazionale” (Arcelor-Mittal), invece di dichiarare inaccettabili le condizioni poste dall’azienda e di proporre una seria nazionalizzazione degli stabilimenti, accusano il governo per il suo essere poco arrendevole. Il liberismo la fa da padrone, anche nel “sovranismo”.»

Porcaro, Mimmo. I senza patria (Italian Edition). Meltemi. Edizione Kindle, posizione 460.
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A questo punto sorge una seconda considerazione.
Questa linea si situa in netta contrapposizione al programma liberista e di “nuova” subalternità nazionale di Lega, Fd'I. Queste, infatti, non solo smentiscono il loro supposto “sovranismo” in politica estera (subalternità agli Stati Uniti, Venezuela, via della seta cinese e rinnovamento tecnologico), ma per l'interno lo pregiudicano, predicando ulteriori divaricazioni, sociali come la tassa piatta anti-costituzionale, nonché territoriali tramite il regionalismo speciale. Il tutto, poggiando sui vecchi potentati, il variegato partito del Pil “brutto, cattivo” e subito (TAV Torino-Lione, concessioni autostradali, trivelle in mare, trattamento dei rifiuti, ecc.).
Per completare il quadro, non sfugga che a rendere oltremodo tragica l'epidemia in corso hanno contribuito tutti i governi della seconda Repubblica. Grazie a loro, fittiziamente alternativi, la sanità pubblica, vantata come eccellente in alcune regioni (Lombardia in testa), è stata depotenziata grandemente, disarticolata e privatizzata, consegnandoci pressoché inermi alla furia del virus coronato che altrimenti non potrebbe mietere tante vite umane.
La tragedia ci restituisce una sintesi del diaframma europeo, per cui Italia e Spagna contano il maggior numero di vittime, ma pure della generale condizione sanitaria continentale che coinvolge la stesso popolo tedesco.
Scavandone i motivi, si avrà modo, tra l'altro, di mettere in giusta luce cosa possa significare la eventuale reiterazione del modello liberista caro a Matteo Salvini ed a Giorgia Meloni, seppure attuato nella versione alla Trump.
Si dà il caso che, nel pieno dell'emergenza da Covid-19, la coppia proponga di spargere denaro dall'alto dell'elicottero, una misura di miltoniana memoria,[10]10 purché a terra nulla muti nelle strutture sociali e produttive all'origine del Pil “brutto, cattivo” e subito.
Globalizzazione
In pochi giorni di emergenza nazionale, le scelte politiche antecedenti ci hanno presentato un amarissimo conto. Anche le mistificazioni sulla globalizzazione sono venute al pettine.
Laddove anche i minimi confini osmotici dovevano essere abbandonati, sono sorti d'incanto mille frontiere chiuse e limiti all'interno stesso dei singoli Paesi.
Appare oramai chiaro che quanto rimane della globalizzazione, dopo le vicende politiche successive alla crisi del 2007-2008, subisce un ulteriore micidiale colpo. Di contro, non è altrettanto chiaro che non assistiamo ad un ritorno degli Stati, per un semplice motivo: non se ne sono mai andati.
A dispetto di molte fantasie teoriche, alcune delle quali vedevano in corso di realizzazione l'utopia cosmopolita – l'internazionalismo suppone le nazioni - tramite la “immanenza” dell'espansione capitalistica su scala globale, il “mostruoso strumento” dato dal connubio storico tra Stato e capitale, non ha mai cessato di agire. Chiunque avesse rivolto lo sguardo agli apparati militari ed alle guerre, alla loro dislocazione geografica e crescita, poteva accertarsene.
Fatto agevolmente rintracciabile, poi, nel renversement della politica statunitense, quando ha deciso di mettere mano ai dazi sulle importazioni, dando il via alla guerra commerciale. Erano finiti i tempi in cui i propri oligopoli finanziarizzati potevano tranquillamente accentrare su di sé una montagna di utili derivanti dalla apertura mondiale dei flussi finanziari, dagli investimenti per lo sfruttamento de-localizzato, dalle catene delle forniture finalizzate alle proprie merci ed ai propri servizi. Nel confronto con i Paesi emergenti si correva il rischio di mettere in forse la stessa preminenza del dollaro, cardine del dominio finanziario degli Stati Uniti.
---------------------------------------------------------------------------------------------Dominio finanziario
«Quella del capitale finanziario è l’unica vera globalizzazione a cui abbiamo assistito in questi decenni: quantitativamente davvero immane, spazialmente davvero mondiale, politicamente davvero rilevante per la sua capacità di influenzare le scelte generali degli stati.»
«Lo stato nazionale, come centro di mediazione e unificazione degli interessi capitalistici dominanti (e in particolare quello attualmente egemone, gli Stati Uniti) è quindi all’origine della globalizzazione.»
«In realtà il ritorno dello stato e del conflitto fra stati è l’esito dialettico necessario della globalizzazione, l’inevitabile effetto di ritorno degli squilibri e delle diseguaglianze che la fase iperliberista ha volutamente accresciuto.»
«L’aumento dello spazio degli scambi, e soprattutto l’ampliamento dell’asse mercantile-finanziario tra Stati Uniti e Cina, si è convertito così in spazio di conflitto e di crescita del protezionismo. La crisi generale, effetto proprio del rigonfiamento del lato essenziale della globalizzazione (quello finanziario) ha fatto il resto, richiedendo urgentemente l’intervento aperto ed esplicito degli stati per impedire “la fine dell’economia”.»

Porcaro, Mimmo. I senza patria (Italian Edition). Meltemi. Edizione Kindle, nell'ordine delle citazioni: 
posizioni 2208, 2228, 2240, 2246.
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In seno all'establishment nord-americano non ci si divide su quale sia il nemico - la Cina - ma su come affrontarlo, non più in modo cool.[11]11 E su questo punto è diverso il ruolo assegnabile all'Europa, stante la generale avversione, manifestata anche durante la presidenza Obama, verso le politiche di avanzo commerciale della Germania, rafforzate dal sistema euro.
Per descrivere le conseguenze del dominio della finanza, Porcaro si richiama al contributo di Karl Polany e per l'analisi sull'andamento ciclico delle economie-mondo, tra le quali quella centrata sugli Stati Uniti, si avvale degli studi di Giovanni Arrighi. Prima di loro Fernand Braudel aveva scritto indimenticabili pagine di storia sia sulla saldatura Stato-capitale a forgiare il “mostruoso strumento” del dominio, sia sul declino di ogni sistema di dominio quando giunge al suo “autunno finanziario”.
A questi riferimenti aggiungerei quello di Samir Amin, un punto di vista “terzomondista”. Suo tramite possiamo meglio scorgere come alla supremazia di uno Stato - gli Stati Uniti – o di un gruppo di Stati in coalizione - la triade Usa-Europa-Giappone -, corrisponda la gerarchia e la divisione del mondo, di cui quello europeo è parte ed al tempo stesso interna riproposizione nel suo articolarsi in un centro ed in differenziate periferie. Il de-potenziamento delle entità statuali periferiche del Sud, e della effettiva indipendenza di quelle nazioni, è contestuale al costituirsi del Nord in centro ed al potenziamento degli Stati che ne fanno parte.
Per quel che ne consegue
L'Italia dopo anni di duplice dipendenza dagli Stati Uniti e dall'Unione “a trazione tedesca”, siritrova in gravi difficoltà proprio in coincidenza, e non poteva essere altrimenti, con l'autunno finanziario degli uni e lo stallo dell'altra.
Della storia di questa duplice dipendenza, che agisce in legame con il doppio Stato prima trattato, Porcaro ripercorre i passaggi cruciali per la politica estera italiana, di cui alle pagine iniziali:
«L’inferiorità attuale del paese non deriva più dalla sconfitta del ’43, ma da altre sconfitte, connesse a essa ma da essa diverse e diversamente trattabili, e aventi altri responsabili. Deriva dalla morte di Mattei, da quella di Moro, dalle guerre destabilizzanti dei Balcani, da quella di Libia.»[12]12
Delle “altre sconfitte” e dei momenti in cui si è sostanziata la nostra “servitù volontaria”,[13]13 non pretendo di fare sintesi critica.
Ad ogni buon conto, l'Italia è “Nave sanza nocchiere”,14[14] con la politica estera di un paese in declino, come sintetizza il titolo del sesto capitolo che così si conclude:
«[… non si affronta la tempesta “sanza nocchiere”, ossia senza gruppi dirigenti popolari capaci di elaborare una strategia, di farla divenire senso comune, di attuarla. Ma a guardarsi intorno c’è da restare desolati. […] Tutto ciò quando avremmo bisogno, invece, di un Cavour sostenuto da un Mattei. E, prima ancora, di un Garibaldi che non reprima i moti di Bronte, ma li organizzi.»[15]15
Dunque: un nuovo nocchiere ed una nuova rotta per navigare da soli? Alla domanda, al timore ricorrente degli italiani, viene data una realistica e lapidaria risposta:
«l’Italia è già sola.»
D'altro canto nella nuova navigazione:
«[...] le difficoltà e i rischi che si potrebbero affrontare sono incomparabilmente minori della certezza del declino che ci attende, e già ci soffoca, come junior partner dell’Unione.»[16]16
Contro l'Italexit vengono alimentate le conosciute paure dei rischi ai quali ci esporremmo: svalutazione, inflazione, fuga dei capitali, ridenominazione del debito. Per fugarle, con dovizia di particolari, Porcaro rimanda alla lettura di Leonardo Mazzei[17]17 e sostiene:
«[…] il nostro non è un piccolo paese, ma (nonostante tutto) una media potenza, e che i movimenti di una media potenza non sono mai irrilevanti, nel bene e nel male. E non lo sono soprattutto se questa potenza rompe una precedente alleanza, ne incrina un’altra, forse ancor più importante (qui si parla nel presupposto che l’Italia non possa contemporaneamente uscire dall’Unione europea e dalla Nato, cosa che pare possibile solo in circostanze del tutto eccezionali) […].»[18]18
Gli pare necessario comparare «pubblicamente, come visto sopra, i rischi dell’uscita e le certezze negative della permanenza.» E poi lavorare «realisticamente su tre livelli.»
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TRE LIVELLI

«Il primo è la preparazione di una politica estera spregiudicata, favorita dall’espansione del multipolarismo, capace (dopo aver fissato con nettezza l’obiettivo strategico di fondo) di muoversi su un ventaglio di opzioni possibili, distinte e a volte opposte, pronta al cambio repentino delle alleanze e delle priorità. Pronta cioè a fare tutto quello che le potenze più forti sempre ci rimproverano, semplicemente perché vogliono essere le uniche a farlo.
Il secondo è “la riparazione del motore in corsa”, ovvero la costruzione progressiva di una politica industriale che, soprattutto attraverso la presenza pubblica diretta, rilanci la storica capacità di innovazione tecnica del paese sia per incrementare le esportazioni sia per ridurre le importazioni di beni tecnologicamente avanzati (e quindi per ridurre la nostra dipendenza dall’estero) sia per rilanciare l’economia del paese (e il suo stesso mercato interno) attraverso l’applicazione pianificata di queste tecnologie ai problemi del dissesto ambientale e dei cambiamenti climatici. Il tutto nella convinzione che senza una struttura industriale di peso non esiste una politica estera rilevante.
Il terzo, e più importante, è la costruzione di un’ampia coalizione popolare, consapevole della posta in gioco, della sua dimensione internazionale, della complessità della situazione. Una coalizione capace di resistere a guerre economiche, mediatiche e informatiche che possono essere anche molto aspre: non si cambia senza fatica la politica estera di un paese, non ci si sobbarca questa fatica se non si è certi dell’utilità di una vittoria e della giustezza di una causa.»
Porcaro, Mimmo. I senza patria (Italian Edition). Meltemi. Edizione Kindle, posizione 3738.
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Il terzo e più importante livello evoca una unità delle alleanze popolari accomunate non solo da interessi economici, ma da un uguale sentire vissuto con passione politica.

Mimmo Porcaro aveva già scritto[19]19 sull'articolazione tra lotta per il socialismo e lotta nazionale , esaminando l'esperienza di passate coalizioni popolari – i Fronti Popolari -, alle quali il movimento comunista diede impulso tra il 1935 ed il 1949 - con una estensione alla Democrazia Progressiva teorizzata da Palmiro Togliatti nel periodo successivo. Vi si può rintracciare una visione dialettica di estremo interesse per affrontare adeguatamente, tramite l'esame critico di quelle vicende, anche la nuova costruzione.
Inoltre, è presente in quello scritto un riferimento alle “identità non negoziabili”, vissute in difesa del proprio mondo vitale - contro la guerra, l'invasione, la miseria ed altre ancora -, il cui progressivo sedimentarsi nella mente e nel cuore dei popoli prepara i rivolgimenti.
Identità che danno luogo a comuni sentimenti.
«Dignità, aggiungiamo noi, come esseri umani, come cittadini e come membri di una comunità nazionale il cui cemento principale è la tensione verso la giustizia sociale. Dovrebbe essere evidente a tutti (o almeno a tutti quelli che ragionano senza pregiudizi “antisovranisti”) che, così posta, la questione della nazione non può essere confusa col nazionalismo.»[20]

NOTE
Note20
2 L'insieme dei detentori del potere economico e politico, e dei suoi sostenitori mediatici e culturali.
3 M. Porcaro, I senza patria, edizione Kindle, posizione 54.
4 M. Porcaro, ibidem, edizione Kindle, posizione 68.
5 Al giudice che gli chiedeva cosa avesse fatto se l'Italia fosse entrata i guerra, rispose: «Voi fascisti porterete l'Italia alla rovina, e a noi comunisti spetterà salvarla!“
6 M. Porcaro, ibidem, edizione Kindle, posizione 847.
7 M. Porcaro, ibidem, edizione Kindle, posizione 623.
8 Perciò la guerra nella ex-Jugoslavia, condotta in simbiosi tra locali forze etniche – si parlò di guerra inter-etnica - e mire revansciste della Germania e di altri Stati, scompare per lasciare immacolata la più recente “storia di pace” dell'Europa.
9 M. Porcaro, ibidem, edizione Kindle, posizione 727.
10 L'espressione helicopter money è stata coniata provocatoriamente nel 1969 da Milton Friedman, caposcuola del monetarismo e precursore del neoliberismo.
11 Un termine usato per distinguere la guerra fredda (cold war) da quella “fresca” (cool war).
12 M. Porcaro, ibidem, edizione Kindle, posizione 318.
13 Alcuni dei quali già oggetto di questo Blog.
14 Dante Alighieri, Purgatorio:
«Ahi serva Italia, di dolore ostello,
nave sanza nocchiere in gran tempesta,
non donna di provincie, ma bordello!»
15 M. Porcaro, ibidem, edizione Kindle, posizione 3588.
16 M. Porcaro, ibidem, edizione Kindle, posizione 3714.
18 M. Porcaro, ibidem, edizione Kindle, posizione 3727.
19 M. Porcaro, “L'etica di Lenin ed altre note sul '17”, 7 dicembre 2017. https://www.sinistrainrete.info/teoria/11153-mimmo-porcaro-l-etica-di-lenin-ed-altre-note-sul-17.html
20 M. Porcaro, ibidem, edizione Kindle, posizione 3762.

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