sabato 15 dicembre 2018

Il dilemma dell'aiuto umanitario

[Clicca sul titolo qui sotto se vuoi scaricare l'articolo in formato PDF]

-->
In questione non è tanto il dilettantismo dell'aiuto, quanto l'imposizione di modelli di sviluppo della globalizzazione. L'Africa di Thomas Sankara. Contraddizioni e limiti delle ONG. La neutralità nella crisi dell'era umanitaria globale. Necessità di un nuovo internazionalismo politico.
Massimo Fini da Il Fatto Quotidiano,1 ha lanciato un appello che ha il sapore di una sfida:
«Il solo modo per aiutare l'Africa Nera è che noi ci togliamo dai piedi.»
Il ragionamento di Fini prende spunto da un discorso di Thomas Sankara [il passo citato è qui sotto riportato nel riquadro “Tecnici dell'aiuto umanitario”], presidente di uno dei Paesi più poveri del mondo, il Burkina Faso ex Alto Volta, tenuto nel 1987 all'assemblea dei Paesi non allineati della Organizzazione dell'Unità Africana. Dopo quattro anni di riforme per uno sviluppo indipendente, contro il neocolonialismo del debito e degli aiuti, quel discorso gli costò la vita. Nel colpo di Stato, durante il quale fu assassinato, risultarono coinvolti Francia, Inghilterra e Stati Uniti.
Scrive Fini:
«Sankara, a differenza di Gheddafi, centra l'autentico nocciolo della questione: le devastazioni economiche, sociali, ambientali provocate nell'Africa Nera, spesso col pretesto di aiutarla, del nostro modello di sviluppo. Ecco perché bisogna stare molto attenti quando, con parole pietistiche, si parla di “aiuti all'Africa”.»
L'articolo si conclude in aperta polemica con i cosiddetti “dilettanti allo sbaraglio”2 italiani, che, a parere di Fini, finiscono per procurare danni, anche mortali, laddove si erano proposti di portare testimonianza e soprattutto soccorso solidale.
Di pressante interesse, al di là del giudizio perentorio sui casi specifici, è il continuo riproporsi del dilemma dell'aiuto umanitario, in un tempo storico denominato “era umanitaria”.

Tecnici
dell'aiuto umanitario
«Il debito è la nuova forma di colonialismo. I vecchi colonizzatori si sono trasformati in tecnici dell'aiuto umanitario, ma sarebbe meglio chiamarli tecnici dell'assassinio. Sono stati loro a proporci i canali del finanziamento, i finanziatori, dicendoci che erano cose giuste da fare per far decollare lo sviluppo del nostro Paese, la crescita del nostro popolo e il suo benessere... Hanno fatto in modo che l'Africa, il suo sviluppo e la sua crescita obbediscano a delle norme, a degli interessi che le sono totalmente estranei. Hanno fatto in modo che ciascuno di noi sia, oggi e domani, uno schiavo finanziario.»
Thomas Sankara
Thomas Sankara fu leader dell'Africa sub-sahariana. Combatté la povertà tagliando sprechi statali e sopprimendo privilegi delle classi agiate. Finanziò un ampio sistema di riforme sociali incentrato sulla costruzione di scuole, ospedali e case per la popolazione estremamente povera, oltre a un'importante lotta alla desertificazione con il piantamento di milioni di alberi nel Sahel.
Il suo rifiuto di pagare il debito estero di epoca coloniale, insieme al tentativo di rendere il Burkina autosufficiente e libero da importazioni forzate, gli attirò le antipatie di USA, Francia ed Inghilterra. Con la loro complicità fu ordito un colpo di Stato (15 ottobre 1987) dal suo vice, Blaise Compaoré, durante il quale venne assassinato all'età di 38 anni. Figura carismatica e iconica per milioni di africani, è comunemente indicato come “Che Guevara africano” e “Presidente ribelle”.


Il mercato della solidarietà
In genere coloro che sostengono con lavoro volontario e danaro l'aiuto umanitario nelle diverse situazioni, dalle zone di guerra ai progetti di cooperazione contro il sottosviluppo e la povertà, sono animati da un reale spirito di solidarietà.
In discussione non è la loro intenzione, ma “l'industria” e il relativo “mercato” nella cui logica si immettono. In discussione non sono gli atti di donazione ed il loro valore morale, ma l'indirizzo politico e le strategie degli enti “raccoglitori e canalizzatori” privati o pubblici che siano.
Ogni anno migliaia donne e uomini dei Paesi ricchi sono spinti con spirito umanitario all'impegno diretto. Si tratta di un fenomeno rilevante anche dal punto vista occupazionale. Prescindendo dai risultati concreti raggiunti dalla miriade di “missioni” laiche o religiose, questo movimento arricchisce di esperienze e conoscenze chi vi partecipa e, di conseguenza, il Paese da cui provengono.
Tuttavia, non ci si può esimere dal considerare altri aspetti che finiscono per connotare il movimento solidaristico, oramai ampiamente e globalmente organizzato. Tra questi, quello dei “dilettanti allo sbaraglio” non è la manifestazione prevalente, sebbene le cosiddette MONGO3 siano andate rafforzandosi.
Proprio dalle parole di Thomas Sankara, comprendiamo che in gioco c'è il concetto stesso di sviluppo dei Paesi poveri, Africa in primis, e del ruolo in esso svolto dall'apporto esterno, proveniente per lo più dagli stessi Paesi che furono protagonisti del colonialismo ed ora lo sono degli aiuti umanitari. Aiuti che intervengono sia nelle situazioni di endemica povertà, attraverso i piani di “cooperazione allo sviluppo”, sia in quelle di emergenza, sopravvenute in seguito a calamità “naturali” o a guerre.
Dobbiamo a due autrici la diffusione della conoscenza di quali meccanismi vengano attivati in caso di disastri umanitari, generati da guerre ed eventi “naturali”, i quali quasi sempre si sovrappongono alla povertà strutturale nei Paesi coinvolti.
Naomi Klein4 ha denunciato il sistema neoliberista che sfrutta lo shock del disastro per affermare il capitalismo di conquista a scapito di intere società.
La meno conosciuta Linda Polman5 ci ha raccontato, anche in virtù delle proprie dirette esperienze, di come le ONG, nate all'insegna della neutralità, siano sempre più coinvolte nelle strategie belliche e nei tipici meccanismi del mercato globale, per reggere le sorti di una industria della solidarietà vieppiù basata sulla “visibilità mediatica” per sollecitare ed incanalare fondi a proprio favore.
Centrale è il suo richiamo al dilemma che sorse sin dagli albori nel campo del soccorso umanitario, tra lo svizzero Henry Dunant, che dopo la Battaglia di Solferino (1859) diede vita alla Croce Rossa Internazionale, e l'inglese Florence Nightingale, considerata la fondatrice dell'assistenza infermieristica moderna.
Nightingale si pose a capo di una pattuglia di 38 infermiere volontarie, che curarono i soldati malati e feriti del Regno Unito nella guerra di Crimea (1853-1854). Salvarono molti soldati da morte certa, ma che poi un gran numero tra loro, rimandati prontamente al fronte, vi perirono.
Florence Nightingale
«Senza il suo aiuto, pensò Florence Nightingale, la guerra sarebbe finita prima.»6
In conclusione, i “salvati” furono presto in gran parte “sommersi”, con una paradossale aggravante: le cure prestate erano risultate congeniali ai piani dei comandi militari e del governo di prosecuzione della guerra e, di conseguenza, portarono ad un maggiore spargimento di sangue...
Quel dilemma si ripropone oggi, mutatis mutandis, qualora considerassimo l'aiuto umanitario nel contesto della globalizzazione e nei meccanismi strutturali in cui esso avviene, nonché dalle logiche politiche e belliche che insieme indirizzano al risultato ed al “bilancio” finali.
Usi ed abusi
A febbraio è stato presentato da Agire, un network delle ONG, un Rapporto7 secondo il quale gli aiuti all'assistenza umanitaria globale hanno raggiunto nel 2016 la cifra record di 27,26 miliardi di dollari (di cui 6,92 da privati), con un incremento del 6% rispetto all'anno precedente [vedi grafico “Assistenza umanitaria globale”]. Solo nel 2012 ammontavano a 16,10 miliardi di dollari, di cui 4,35 da privati. Tale somma è ritenuta comunque insufficiente a coprire il 40% dei bisogni delle popolazioni colpite da conflitti e catastrofi naturali. Paragonata alla spesa militare mondiale, stimata in 1.686 miliardi di dollari annui, il valore dell'assistenza umanitaria equivale a circa un sessantesimo.

Le ONG si dicono piuttosto preoccupate dall'annunciata intenzione di Donald Trump di tagliare i contributi degli Stati Uniti che, con 6,32 miliardi di dollari, è il maggior governo donatore.
A prescindere dalle intenzioni poco umanitarie del presidente di America first, da anni è in corso una discussione pubblica sull'uso da parte delle ONG delle ingenti risorse di cui sono affidatarie. Sotto esame sono stati messi sia i comportamenti, sia il conto economico, dato dal rapporto tra risorse raccolte e loro arrivo a buon fine.
Che la raccolta di fondi sia minacciata in base ad attacchi denigratori, non deve indurre a considerare acriticamente quanto sino ad ora è stato fatto. Semmai il contrario.
In merito ai comportamenti, faccio un esempio: lo “scandalo sessuale” che ha investito i vertici di Oxfam, multinazionale della beneficienza, che ottiene donazioni dall'Unione europea e dal governo britannico. Venuto alla luce nel febbraio del 2018, riguarda abusi accaduti in anni precedenti.8
La vicenda ricorda da vicino gli abusi sessuali sia di prelati e sacerdoti, coperti per tanti anni dalla Chiesa Cattolica e non più tollerati da papa Francesco, sia delle truppe ONU stanziate nelle zone di crisi, benevolmente tollerati dai comandi militari.
In questo caso i vertici di Oxfam hanno mostrato di rispondere ad un riflesso condizionato, proprio di chi mette al primo posto la difesa della propria organizzazione (o crede di difenderla insabbiando), rispetto alle dichiarate finalità della stessa.
Tuttavia, non si può trascurare il fatto che tale abusi avvengono nelle aree di crisi umanitaria, perché in esse vengono a riprodursi situazioni tipiche della condizione coloniale, ossia di profonda disparità tra popolazione locale in assoluta povertà e stranieri “ricchi”, convinti di poter comprare ogni “cosa”.
Sul rapporto tra risorse raccolte e loro effettiva destinazione, assistiamo ad un dibattito pubblico teso a distinguere le ONG “buone” da quelle “cattive”, ingenerato dal sospetto che le donazioni servano più al loro mantenimento piuttosto che ai destinatari, in favore dei quali dicono di agire.
Poiché qualsiasi organizzazione corre il pericolo di cadere nella propria “auto-referenzialità”, anche quella umanitaria è chiamata a porsi seriamente il problema. Degli ingenti fondi raccolti da enti privati e pubblici,9 quanto arriva a buon fine e, viceversa, quanto è sottratto per l'auto-mantenimento delle organizzazioni stesse?
Le informazioni di cui disponiamo dipingono un quadro contraddittorio.
In senso positivo, tra le top ten italiane da 500 milioni di entrate, Emergency fondata da Gino Strada, primeggia “per importo destinato e per scelte”.10
All'opposto, qualche anno fa, ha gettato scalpore l'abbandono dell'incarico di testimonial della fondazione inglese Halo Trust da parte della star del cinema Angelina Jolie, quando è venuta a conoscenza dei compensi stellari percepiti dei vertici di quella ONG no-profit.
Pertanto, se le prima citate MONGO possono essere accusate giustamente di deleteria improvvisazione e di “dilettantismo”, il movimento controcorrente, di critica al “professionismo” umanitario, non è per niente privo di fondate ragioni. Le ONG “più qualificate” assomigliano spesso alle grandi imprese a scopo di lucro, assai prodighe verso i loro top managers.11 Ma, d'altro canto, come viene trattato il personale impiegato nei progetti operativi dislocati nel mondo bisognoso di aiuti?
Ben prima che il dibattito sulle ONG investisse il nostro politico quotidiano, in seguito ai salvataggi in mare nei pressi delle coste libiche, sono comparse sulla stampa quotidiana dichiarazioni di operatori umanitari sul campo, i quali si auto-raffiguravano in “condizioni operative” tutt'altro che disagiate.12
Di contro, ciascuno di noi conosce generosi volontari che vengono spesati ed assistiti al minimo, benché i funzionari stabili delle organizzazioni che li arruolano ricevano ben più sostanziosi compensi.
Se ne ricava l'impressione che a fare la differenza di trattamento sia l'appartenenza più o meno fissa alla struttura e la dimensione raggiunta dalla organizzazione, tanto più se quest'ultima appartiene o meno al top delle ONG “accreditate” presso i governi erogatori di fondi pubblici e le più dotate, finanziariamente, fondazioni private mondiali.
Una difficile neutralità
Il principio di neutralità delle organizzazioni umanitarie è messo seriamente in forse tanto dalle condizioni pratiche in cui si trovano ad intervenire, quanto dalla dinamica insita nel rapporto tra i popoli dei Paesi poveri e gli aiuti erogati secondo i modelli di sviluppo dei Paesi aiutanti.
In un'area bellica la neutralità è resa assai difficile dalla “guerra asimmetrica” contemporanea.
Nel 2007 Emergency vede sequestrate le proprie strutture ospedaliere da parte del governo di Kabul.13 Gino Strada dichiarerà: «Hanno fatto di tutto per cacciarci.» Va notata la lingua biforcuta dell'establishment nazionale: in patria canta sovente le lodi di Emergency, mentre in Afghanistan continua a sostenere l'impegno militare dell'Italia a fianco del governo di Kabul in quella “guerra asimmetrica”.
Laddove avviene un conflitto tra un esercito organizzato, magari sorretto da una potente coalizione internazionale, dotato della migliore moderna strumentazione ed organizzazione, ivi compresa quella della cura dei propri feriti, ed una guerriglia locale che ne è priva, il soccorso ospedaliero finisce inevitabilmente per sopperire alle mancanze di quest'ultima, “avvantaggiandola”. L'esercito “regolare”, pertanto, ostacolerà in ogni modo l'attività degli ospedali che accolgono chiunque ne abbia bisogno, perché esso non ne ha bisogno, al contrario dei combattenti “irregolari”. E l'ostruzionismo si tramuterà facilmente in sabotaggio, rendendo la vita impossibile alle organizzazioni umanitarie neutrali per spingerle all'abbandono.
D'altronde, poiché il principale governo donatore mondiale è anche il più armato ed interventista, non può gettare meraviglia che elabori e pratichi strategie nelle quali l'aiuto umanitario è embedded, ossia condizionato al pari di quei giornalisti che raccontano la guerra in Iraq al seguito del loro esercito occupante. Così come non si potrà pretendere verità dal “giornalista al seguito” dell'esercito occupante, non potrà esserci neutralità nell'aiuto umanitario prestato dal suo governo, bensì, fuori da ogni illusione, subalternità e funzionalità.14
Accreditamenti e consenso
In questi giorni la ONG Medici Senza Frontiere ha annunciato pubblicamente di avere temporaneamente rinunciato alla missione di salvataggio nel Mediterraneo, paragonando questo abbandono a quello degli ospedali da campo, resosi necessario in alcune aree di guerre. Il loro portavoce ha accusato l'Unione europea di esserne la principale responsabile.
Qui è la questione migratoria ad aprire la contraddizione.
Sul problema migratorio, benché ne abbia già scritto più volte,15 credo necessario riprendere alcuni punti di sintesi:
  • l'imposizione del modello di sviluppo dell'occidente capitalistico in Africa ha accompagnato la globalizzazione liberista e conduce allo spopolamento delle campagne, con il trasferimento degli esclusi dalla terra nelle immense bidonvilles che vanno formando le megalopoli del continente [vedi la finestra "AFRICA"].
  • ciò spinge una parte delle popolazioni coinvolte all'emigrazione verso le più vicine aree ricche del pianeta, alla ricerca di lavoro e di condizioni di vita migliori;
  • gli stessi Paesi che dominano i processi di globalizzazione, avvantaggiandosi sia del sistema agro-alimentare imposto, sia delle importazioni di materie prime a basso costo, tendono a selezionare la nuova offerta di mano d'opera immigrata, integrando solo quella qualificata e di fatto emarginando quella generica;
  • i Paesi di partenza quando cedono le loro risorse umane più istruite, perdono anche le basi umane indispensabili al loro possibile decollo;
  • nei Paesi di arrivo gli immigrati, tanto più se privi di specifica professionalità, vanno ad ingrossare l'esercito di riserva disponibile, così contribuendo al degrado dei rapporti di lavoro in atto da trent'anni.

        AFRICA
      Megalopoli
      Attualmente l'Africa è il continente meno inurbato (40%), pur annoverando alcune città superiori ai 10 milioni di abitanti, quali Il Cairo (oltre 15mil) e Lagos (oltre 16mil). Stando ad uno studio ONU, la popolazione delle città africane passerà dagli attuali 395 milioni, registrati nel 2009, ad un miliardo e 230 milioni nel 2050.
      Seguendo il modello agricolo ed economico occidentale ed in base al trend demografico, l'inurbamento (negli USA si è già a quasi l'80%) porterà nel prossimo futuro l'Africa ad avere le città più popolose al mondo.
      Povertà
      Fin dall’inaugurazione delle prime politiche di cooperazione allo sviluppo, a livello internazionale e nazionale, sono stati trasferiti in Africa circa mille miliardi di dollari, sotto diverse forme. Nel periodo di massima concentrazione degli aiuti (il ventennio 1970-1990), la percentuale di popolazione povera che viveva nel continente africano è passata tuttavia dall’11% al 66%. L’aumento di circa 50 punti percentuali non è dovuto solamente ad un aumento della povertà in termini assoluti, ma gran parte è dovuta alla crescita economica imponente che hanno registrato diversi Paesi in via di sviluppo, soprattutto asiatici. Ci si riferisce, quindi, ad una aumento della povertà in termini relativi. 


Pertanto, lo stesso sistema: riduce in povertà intere popolazioni, africane e non; produce i flussi migratori e sfrutta i migranti nei luoghi d'arrivo; li contrappone alla parte più povera dei già residenti tramite la “concorrenza” nell'accesso al lavoro e nella fruizione di un welfare ampiamente rimaneggiato.
Come meravigliarsi che un simile sistema generi poi conflitti sull'accoglienza umanitaria?
E che forze politiche del più deleterio nazionalismo16 ne approfittino per alimentare campagne di odio xenofobo e misure di restrizione dell'accoglienza umanitaria?
Grande è l'ipocrisia delle forze economiche e politiche che hanno condiviso e condividono la globalizzazione. Sono responsabili del sottosviluppo africano, dell'aumento della povertà e dei derivanti flussi migratori, eppure vestono i panni umanitari verso i migranti emarginati, “facendo la morale” ai residenti impoveriti. Soprattutto in un momento in cui l'Europa, da loro architettata, stringe i Paesi mediterranei, primo approdo dei migranti africani, nella morsa degli interessi sul debito pubblico e dell'austerità.
Le ONG, quando sostengono varianti cosmopolite della globalizzazione e linee no borders, perdono consenso popolare e credibilità nei Paesi di approdo, deputati all'accoglienza. Non possono accreditarsi presso le oligarchie della globalizzazione e, al contempo, ottenere credito dai popoli che ne sono impoveriti.
La neutralità impossibile
I meccanismi strutturali, le logiche economiche e politiche che prevalgono negli aiuti umanitari, come all'inizio dell'articolo ci ricordava Thomas Sankara, sono ancor più attivi quando tali aiuti si ammantano di umanitarismo e pretendono di sollevare dalla povertà da sottosviluppo, in particolare nei Paesi in cui singoli eventi disastrosi vanno a peggiorarla.
La cosiddetta ”era umanitaria” globale è subentrata quando i grandi movimenti di liberazione nazionale hanno subito una pesante sconfitta, insieme al loro entroterra strategico, costituito dal socialismo fino ad allora realizzato.
Molti, soprattutto nei Paesi del primo mondo ricco, si sono sentiti comunque in dovere di sopperire, attraverso l'azione umanitaria, alla perdita di una politica internazionalista no global che andasse alle radici della povertà e delle diseguaglianze, combattendo le nuove forme dello sfruttamento e dell'egemonismo (neo-imperialismo?) mascherato. Il danno immediato è stato ridotto, ma non quello “successivo” e complessivo. Occorre prendere atto, questo è il punto cruciale, che l'aiuto umanitario, il quale già portava in seno un dilemma originario, è stato vieppiù assoggettato di fatto dai soverchianti meccanismi, non solo finanziari, della globalizzazione contemporanea.
Ora, con la crisi della globalizzazione emergono tutti i limiti e le contraddizioni dell'umanitarismo che si è infine proposto di porre rimedio ai mali della globalizzazione stessa, supponendo di poter connotare i propri interventi come sempre neutrali.
È questa crisi a porre all'ordine del giorno, oltre ad un critico bilancio degli aiuti umanitari – qui solo brevemente tratteggiato - la ripresa indispensabile di un internazionalismo politico, che così come non può per sua natura essere neutrale, deve poter contare sullo spirito e delle energie di chi in buona fede ha creduto nell'umanitarismo.
Note
1 Massimo Fini, “Per aiutare l'Africa andiamocene da lì”, il Fatto Quotidiano, 29 novembre 2018.
2 Tra i “dilettanti allo sbaraglio” il giornalista inserisce le cooperanti onlus Silvia Romano (oggi prigioniera in Kenia), Simona Torretta e Simona Pari, le “due Simone”, e la inviata de il Manifesto Giuliana Sgrena.
3 In opposizione alle organizzazioni umanitarie “istituzionalizzate”, con il loro pesante bagaglio di burocrazia ed interessi, sono sorte le MONGO (da “My Own NGO”) ad opera di persone convinte di poter risolvere i problemi nelle zone di crisi meglio e con costi minori. Vedi Linda Polman, “L'industria della solidarietà”, Bruno Mondadori, 2009, pagg. 43-55.
4 Naomi Klein, “Shock economy. L'ascesa del capitalismo dei disastri”, Rizzoli, 2008.
5 Linda Polman, “L'industria della solidarietà. Aiuti umanitari nelle zone di guerra”, Bruno Mondadori, 2009.
6 Linda Polman, ibidem, pag. 6.
8 https://www.corriere.it/esteri/18_febbraio_13/scandalo-oxfam-sotto-accusa-numero-della-ong-mark-goldring-f9c8f3b0-10a3-11e8-ae74-6fc70a32f18b.shtml
9 https://www.ilblogdellestelle.it/2017/05/alle_ong_vanno_12_miliardi_di_euro_annui_dai_cittadini.html
10 https://www.ilsole24ore.com/art/notizie/2017-07-31/ong-top-ten-500-milioni-entrate-211523.shtml?uuid=AEEmha6B
11 Ad esempio, a Irene Khan, ex segretario di Amnesty International, è stata versata una buonuscita di 500mila sterline.
12 http://www.dagospia.com/rubrica-4/business/beneficenza-maleficenza-intero-business-fondazioni-ong-onlus-s-ed-49008.htm
13 http://it.peacereporter.net/articolo/7903/Requisiti+gli+ospedali+afgani+di+Emergency
14 Vedi a questo proposito: http://www.studiperlapace.it/view_news_html? news_id=20051231053055
15 Nel Blog vedi:” Immigrazione”, ottobre 2014; “Immigrazione: una risposta”, febbraio 2015; “Nuove frontiere”, settembre 2015; “Minniti d'oltremare” settembre 2017; “Aiutarli a casa loro?”, settembre 2018.
16 Vedi nel Blog “Il tabù della nazione”, novembre 2018.

Nessun commento:

Posta un commento