[Clicca sul titolo qui sotto se vuoi scaricare l'articolo in formato PDF]
In
questione non è tanto il dilettantismo dell'aiuto, quanto
l'imposizione di modelli di sviluppo della globalizzazione. L'Africa
di Thomas Sankara. Contraddizioni e limiti delle ONG. La neutralità
nella crisi dell'era umanitaria globale. Necessità di un nuovo
internazionalismo politico.
Massimo
Fini da Il
Fatto Quotidiano,1
ha lanciato un appello che ha il sapore di una sfida:
«Il
solo modo per aiutare l'Africa Nera è che noi ci togliamo dai
piedi.»
Il
ragionamento di Fini prende spunto da un discorso di Thomas Sankara
[il
passo citato è qui sotto riportato nel riquadro “Tecnici
dell'aiuto umanitario”],
presidente di uno dei Paesi più poveri del mondo, il Burkina Faso ex
Alto Volta, tenuto nel 1987 all'assemblea dei Paesi non allineati
della Organizzazione dell'Unità Africana. Dopo quattro anni di
riforme per uno sviluppo indipendente, contro il neocolonialismo del
debito e degli aiuti, quel discorso gli costò la vita. Nel colpo di
Stato, durante il quale fu assassinato, risultarono coinvolti
Francia, Inghilterra e Stati Uniti.
Scrive
Fini:
«Sankara,
a differenza di Gheddafi, centra l'autentico nocciolo della
questione: le devastazioni economiche, sociali, ambientali provocate
nell'Africa Nera, spesso col pretesto di aiutarla, del nostro modello
di sviluppo. Ecco perché bisogna stare molto attenti quando, con
parole pietistiche, si parla di “aiuti all'Africa”.»
L'articolo
si conclude in aperta polemica con i cosiddetti “dilettanti allo
sbaraglio”2
italiani, che, a parere di Fini, finiscono per procurare danni, anche
mortali, laddove si erano proposti di portare testimonianza e
soprattutto soccorso solidale.
Di
pressante interesse, al di là del giudizio perentorio sui casi
specifici, è il continuo riproporsi del dilemma dell'aiuto
umanitario, in un tempo storico denominato “era umanitaria”.
Tecnici
dell'aiuto
umanitario
«Il
debito è la nuova forma di colonialismo. I vecchi colonizzatori si
sono trasformati in tecnici dell'aiuto umanitario, ma sarebbe meglio
chiamarli tecnici dell'assassinio. Sono stati loro a proporci i
canali del finanziamento, i finanziatori, dicendoci che erano cose
giuste da fare per far decollare lo sviluppo del nostro Paese, la
crescita del nostro popolo e il suo benessere... Hanno fatto in modo
che l'Africa, il suo sviluppo e la sua crescita obbediscano a delle
norme, a degli interessi che le sono totalmente estranei. Hanno fatto
in modo che ciascuno di noi sia, oggi e domani, uno schiavo
finanziario.»
Thomas
Sankara
Thomas
Sankara fu leader dell'Africa sub-sahariana. Combatté la povertà
tagliando sprechi statali e sopprimendo privilegi delle classi
agiate. Finanziò un ampio sistema di riforme sociali incentrato
sulla costruzione di scuole, ospedali e case per la popolazione
estremamente povera, oltre a un'importante lotta alla
desertificazione con il piantamento di milioni di alberi nel Sahel.
Il
suo rifiuto di pagare il debito estero di epoca coloniale, insieme al
tentativo di rendere il Burkina autosufficiente e libero da
importazioni forzate, gli attirò le antipatie di USA, Francia ed
Inghilterra. Con la loro complicità fu ordito un colpo di Stato (15
ottobre 1987) dal suo vice, Blaise Compaoré, durante il quale venne
assassinato all'età di 38 anni. Figura carismatica e iconica per
milioni di africani, è comunemente indicato come “Che Guevara
africano” e “Presidente ribelle”.
Il
mercato della solidarietà
In
genere coloro che sostengono con lavoro volontario e danaro l'aiuto
umanitario nelle diverse situazioni, dalle zone di guerra ai progetti
di cooperazione contro il sottosviluppo e la povertà, sono animati
da un reale spirito di solidarietà.
In
discussione non è la loro intenzione, ma “l'industria” e il
relativo “mercato” nella cui logica si immettono. In discussione
non sono gli atti di donazione ed il loro valore morale, ma
l'indirizzo politico e le strategie degli enti “raccoglitori e
canalizzatori” privati o pubblici che siano.
Ogni
anno migliaia donne e uomini dei Paesi ricchi sono spinti con spirito
umanitario all'impegno diretto. Si tratta di un fenomeno rilevante
anche dal punto vista occupazionale. Prescindendo dai risultati
concreti raggiunti dalla miriade di “missioni” laiche o
religiose, questo movimento arricchisce di esperienze e conoscenze
chi vi partecipa e, di conseguenza, il Paese da cui provengono.
Tuttavia,
non ci si può esimere dal considerare altri aspetti che finiscono
per connotare il movimento solidaristico, oramai ampiamente e
globalmente organizzato. Tra questi, quello dei “dilettanti allo
sbaraglio” non è la manifestazione prevalente, sebbene le
cosiddette MONGO3
siano andate rafforzandosi.
Proprio
dalle parole di Thomas Sankara, comprendiamo che in gioco c'è il
concetto stesso di sviluppo dei Paesi poveri, Africa in primis,
e del ruolo in esso svolto dall'apporto esterno, proveniente per lo
più dagli stessi Paesi che furono protagonisti del colonialismo ed
ora lo sono degli aiuti umanitari. Aiuti che intervengono sia nelle
situazioni di endemica povertà, attraverso i piani di “cooperazione
allo sviluppo”, sia in quelle di emergenza, sopravvenute in seguito
a calamità “naturali” o a guerre.
Dobbiamo
a due autrici la diffusione della conoscenza di quali meccanismi
vengano attivati in caso di disastri umanitari, generati da guerre ed
eventi “naturali”, i quali quasi sempre si sovrappongono alla
povertà strutturale nei Paesi coinvolti.
Naomi
Klein4
ha denunciato il sistema neoliberista che sfrutta lo shock del
disastro per affermare il capitalismo di conquista a scapito di
intere società.
La
meno conosciuta Linda Polman5
ci ha raccontato, anche in virtù delle proprie dirette esperienze,
di come le ONG, nate all'insegna della neutralità, siano sempre più
coinvolte nelle strategie belliche e nei tipici meccanismi del
mercato globale, per reggere le sorti di una industria della
solidarietà vieppiù basata sulla “visibilità mediatica” per
sollecitare ed incanalare fondi a proprio favore.
Centrale
è il suo richiamo al dilemma che sorse sin dagli albori nel campo
del soccorso umanitario, tra lo svizzero Henry Dunant, che dopo la
Battaglia di Solferino (1859) diede
vita alla Croce Rossa Internazionale, e l'inglese Florence
Nightingale, considerata la fondatrice dell'assistenza
infermieristica moderna.
Nightingale
si pose a capo di una pattuglia di 38 infermiere volontarie, che
curarono i soldati malati e feriti del Regno Unito nella guerra di
Crimea (1853-1854). Salvarono molti soldati da morte certa, ma che
poi un gran numero tra loro, rimandati prontamente al fronte, vi
perirono.
Florence Nightingale |
«Senza
il suo aiuto, pensò Florence Nightingale, la guerra sarebbe finita
prima.»6
In
conclusione, i “salvati” furono presto in gran parte “sommersi”,
con una paradossale aggravante: le cure prestate erano risultate
congeniali ai piani dei comandi militari e del governo di
prosecuzione della guerra e, di conseguenza, portarono ad un maggiore
spargimento di sangue...
Quel
dilemma si ripropone oggi, mutatis
mutandis, qualora
considerassimo l'aiuto umanitario nel contesto della globalizzazione
e nei meccanismi strutturali in cui esso avviene, nonché dalle
logiche politiche e belliche che insieme indirizzano al risultato ed
al “bilancio” finali.
Usi
ed abusi
A
febbraio è stato presentato da Agire, un network delle ONG, un
Rapporto7
secondo il quale gli aiuti all'assistenza umanitaria globale hanno
raggiunto nel 2016 la cifra record di 27,26 miliardi di dollari (di
cui 6,92 da privati), con un incremento del 6% rispetto all'anno
precedente [vedi
grafico “Assistenza umanitaria globale”].
Solo nel 2012 ammontavano a 16,10 miliardi di dollari, di cui 4,35 da
privati. Tale somma è ritenuta comunque insufficiente a coprire il
40% dei bisogni delle popolazioni colpite da conflitti e catastrofi
naturali. Paragonata alla spesa militare mondiale, stimata in 1.686
miliardi di dollari annui, il valore dell'assistenza umanitaria
equivale a circa un sessantesimo.
Le
ONG si dicono piuttosto preoccupate dall'annunciata intenzione di
Donald Trump di tagliare i contributi
degli Stati Uniti che, con 6,32 miliardi di dollari, è il maggior
governo donatore.
A
prescindere dalle intenzioni poco umanitarie del presidente di
America
first,
da anni è in corso una discussione pubblica sull'uso da parte delle
ONG delle ingenti risorse di cui sono affidatarie. Sotto
esame sono stati messi sia i comportamenti, sia il conto economico,
dato dal rapporto tra risorse raccolte e loro arrivo a buon fine.
Che
la raccolta di fondi sia minacciata in base ad attacchi denigratori,
non deve indurre a considerare acriticamente quanto sino ad ora è
stato fatto. Semmai il contrario.
In
merito ai comportamenti, faccio un esempio: lo “scandalo sessuale”
che ha investito i vertici di Oxfam,
multinazionale della beneficienza, che ottiene donazioni dall'Unione
europea e dal governo britannico. Venuto alla luce nel febbraio del
2018, riguarda abusi accaduti in anni precedenti.8
La
vicenda ricorda da vicino gli abusi sessuali sia di prelati e
sacerdoti, coperti per tanti anni dalla Chiesa Cattolica e non più
tollerati da papa Francesco, sia delle truppe ONU stanziate nelle
zone di crisi, benevolmente tollerati dai comandi militari.
In
questo caso i vertici di Oxfam hanno mostrato di rispondere ad
un riflesso condizionato, proprio di chi mette al primo posto la
difesa della propria organizzazione (o crede di difenderla
insabbiando), rispetto alle dichiarate finalità della stessa.
Tuttavia,
non si può trascurare il fatto che tale abusi avvengono nelle aree
di crisi umanitaria, perché in esse vengono a riprodursi situazioni
tipiche della condizione coloniale, ossia di profonda disparità tra
popolazione locale in assoluta povertà e stranieri “ricchi”,
convinti di poter comprare ogni “cosa”.
Sul
rapporto tra risorse raccolte e loro effettiva destinazione,
assistiamo ad un dibattito pubblico teso a distinguere le ONG “buone”
da quelle “cattive”, ingenerato dal sospetto che le donazioni
servano più al loro mantenimento piuttosto che ai destinatari, in
favore dei quali dicono di agire.
Poiché
qualsiasi organizzazione corre il pericolo di cadere nella propria
“auto-referenzialità”, anche quella umanitaria è chiamata a
porsi seriamente il problema. Degli ingenti fondi raccolti da enti
privati e pubblici,9
quanto arriva a buon fine e, viceversa, quanto è sottratto per
l'auto-mantenimento delle organizzazioni stesse?
Le
informazioni di cui disponiamo dipingono un quadro contraddittorio.
In
senso positivo, tra le top ten italiane da 500 milioni di
entrate, Emergency fondata da Gino Strada, primeggia “per
importo destinato e per scelte”.10
All'opposto,
qualche anno fa, ha gettato scalpore l'abbandono dell'incarico di
testimonial della fondazione inglese Halo Trust da
parte della star del cinema Angelina Jolie, quando è venuta a
conoscenza dei compensi stellari percepiti dei vertici di quella ONG
no-profit.
Pertanto,
se le prima citate MONGO possono essere accusate giustamente di
deleteria improvvisazione e di “dilettantismo”, il movimento
controcorrente, di critica al “professionismo” umanitario, non è
per niente privo di fondate ragioni. Le ONG “più qualificate”
assomigliano spesso alle grandi imprese a scopo di lucro, assai
prodighe verso i loro top managers.11
Ma, d'altro canto, come viene trattato il personale impiegato nei
progetti operativi dislocati nel mondo bisognoso di aiuti?
Ben prima che il dibattito
sulle ONG investisse il nostro politico quotidiano, in seguito ai
salvataggi in mare nei pressi delle coste libiche, sono comparse
sulla stampa quotidiana dichiarazioni
di operatori umanitari sul campo, i quali si auto-raffiguravano in
“condizioni operative” tutt'altro che disagiate.12
Di
contro, ciascuno di noi conosce generosi volontari che vengono
spesati ed assistiti al minimo, benché i funzionari stabili delle
organizzazioni che li arruolano ricevano ben più sostanziosi
compensi.
Se
ne ricava l'impressione che a fare la differenza di trattamento sia
l'appartenenza più o meno fissa alla struttura e la dimensione
raggiunta dalla organizzazione, tanto più se quest'ultima appartiene
o meno al top delle ONG “accreditate” presso i governi
erogatori di fondi pubblici e le più dotate, finanziariamente,
fondazioni private mondiali.
Una
difficile neutralità
Il
principio di neutralità delle organizzazioni umanitarie è messo
seriamente in forse tanto dalle condizioni pratiche in cui si trovano
ad intervenire, quanto dalla dinamica insita nel rapporto tra i
popoli dei Paesi poveri e gli aiuti erogati secondo i modelli di
sviluppo dei Paesi aiutanti.
In
un'area bellica la neutralità è resa assai difficile dalla “guerra
asimmetrica” contemporanea.
Nel
2007 Emergency vede sequestrate le proprie strutture
ospedaliere da parte del governo di Kabul.13
Gino Strada dichiarerà: «Hanno fatto di tutto per cacciarci.» Va
notata la lingua biforcuta dell'establishment nazionale: in
patria canta sovente le lodi di Emergency, mentre in
Afghanistan continua a sostenere l'impegno militare dell'Italia a
fianco del governo di Kabul in quella “guerra asimmetrica”.
Laddove
avviene un conflitto tra un esercito organizzato, magari sorretto da
una potente coalizione internazionale, dotato della migliore moderna
strumentazione ed organizzazione, ivi compresa quella della cura dei
propri feriti, ed una guerriglia locale che ne è priva, il soccorso
ospedaliero finisce inevitabilmente per sopperire alle mancanze di
quest'ultima, “avvantaggiandola”. L'esercito “regolare”,
pertanto, ostacolerà in ogni modo l'attività degli ospedali che
accolgono chiunque ne abbia bisogno, perché esso non ne ha bisogno,
al contrario dei combattenti “irregolari”. E l'ostruzionismo si
tramuterà facilmente in sabotaggio, rendendo la vita impossibile
alle organizzazioni umanitarie neutrali per spingerle all'abbandono.
D'altronde,
poiché il principale governo donatore mondiale è anche il più
armato ed interventista, non può gettare meraviglia che elabori e
pratichi strategie nelle quali l'aiuto umanitario è embedded,
ossia condizionato al pari di quei giornalisti che raccontano la
guerra in Iraq al seguito del loro esercito occupante. Così come non
si potrà pretendere verità dal “giornalista al seguito”
dell'esercito occupante, non potrà esserci neutralità nell'aiuto
umanitario prestato dal suo governo, bensì, fuori da ogni illusione,
subalternità e funzionalità.14
Accreditamenti
e consenso
In
questi giorni la ONG Medici Senza Frontiere ha annunciato
pubblicamente di avere temporaneamente rinunciato alla missione di
salvataggio nel Mediterraneo, paragonando questo abbandono a quello
degli ospedali da campo, resosi necessario in alcune aree di guerre.
Il loro portavoce ha accusato l'Unione europea di esserne la
principale responsabile.
Qui
è la questione migratoria ad aprire la contraddizione.
Sul
problema migratorio, benché ne abbia già scritto più volte,15
credo necessario riprendere alcuni punti di sintesi:
- l'imposizione del modello di sviluppo dell'occidente capitalistico in Africa ha accompagnato la globalizzazione liberista e conduce allo spopolamento delle campagne, con il trasferimento degli esclusi dalla terra nelle immense bidonvilles che vanno formando le megalopoli del continente [vedi la finestra "AFRICA"].
- ciò spinge una parte delle popolazioni coinvolte all'emigrazione verso le più vicine aree ricche del pianeta, alla ricerca di lavoro e di condizioni di vita migliori;
- gli stessi Paesi che dominano i processi di globalizzazione, avvantaggiandosi sia del sistema agro-alimentare imposto, sia delle importazioni di materie prime a basso costo, tendono a selezionare la nuova offerta di mano d'opera immigrata, integrando solo quella qualificata e di fatto emarginando quella generica;
- i Paesi di partenza quando cedono le loro risorse umane più istruite, perdono anche le basi umane indispensabili al loro possibile decollo;
- nei Paesi di arrivo gli immigrati, tanto più se privi di specifica professionalità, vanno ad ingrossare l'esercito di riserva disponibile, così contribuendo al degrado dei rapporti di lavoro in atto da trent'anni.AFRICAMegalopoliAttualmente l'Africa è il continente meno inurbato (40%), pur annoverando alcune città superiori ai 10 milioni di abitanti, quali Il Cairo (oltre 15mil) e Lagos (oltre 16mil). Stando ad uno studio ONU, la popolazione delle città africane passerà dagli attuali 395 milioni, registrati nel 2009, ad un miliardo e 230 milioni nel 2050.Seguendo il modello agricolo ed economico occidentale ed in base al trend demografico, l'inurbamento (negli USA si è già a quasi l'80%) porterà nel prossimo futuro l'Africa ad avere le città più popolose al mondo.PovertàFin dall’inaugurazione delle prime politiche di cooperazione allo sviluppo, a livello internazionale e nazionale, sono stati trasferiti in Africa circa mille miliardi di dollari, sotto diverse forme. Nel periodo di massima concentrazione degli aiuti (il ventennio 1970-1990), la percentuale di popolazione povera che viveva nel continente africano è passata tuttavia dall’11% al 66%. L’aumento di circa 50 punti percentuali non è dovuto solamente ad un aumento della povertà in termini assoluti, ma gran parte è dovuta alla crescita economica imponente che hanno registrato diversi Paesi in via di sviluppo, soprattutto asiatici. Ci si riferisce, quindi, ad una aumento della povertà in termini relativi.
Pertanto,
lo stesso sistema: riduce in povertà intere popolazioni, africane e
non; produce i flussi migratori e sfrutta i migranti nei luoghi
d'arrivo; li contrappone alla parte più povera dei già residenti
tramite la “concorrenza” nell'accesso al lavoro e nella fruizione
di un welfare ampiamente rimaneggiato.
Come
meravigliarsi che un simile sistema generi poi conflitti
sull'accoglienza umanitaria?
E
che forze politiche del più deleterio nazionalismo16
ne approfittino per alimentare campagne di odio xenofobo e misure di
restrizione dell'accoglienza umanitaria?
Grande
è l'ipocrisia delle forze economiche e politiche che hanno condiviso
e condividono la globalizzazione. Sono responsabili del sottosviluppo
africano, dell'aumento della povertà e dei derivanti flussi
migratori, eppure vestono i panni umanitari verso i migranti
emarginati, “facendo la morale” ai residenti impoveriti.
Soprattutto in un momento in cui l'Europa, da loro architettata,
stringe i Paesi mediterranei, primo approdo dei migranti africani,
nella morsa degli interessi sul debito pubblico e dell'austerità.
Le
ONG, quando sostengono varianti cosmopolite della globalizzazione e
linee no borders, perdono consenso popolare e credibilità nei
Paesi di approdo, deputati all'accoglienza. Non possono accreditarsi
presso le oligarchie della globalizzazione e, al contempo, ottenere
credito dai popoli che ne sono impoveriti.
La
neutralità impossibile
I
meccanismi strutturali, le logiche economiche e politiche che
prevalgono negli aiuti umanitari, come all'inizio dell'articolo ci
ricordava Thomas Sankara, sono ancor più attivi quando tali aiuti si
ammantano di umanitarismo e pretendono di sollevare dalla povertà da
sottosviluppo, in particolare nei Paesi in cui singoli eventi
disastrosi vanno a peggiorarla.
La
cosiddetta ”era umanitaria” globale è subentrata quando i grandi
movimenti di liberazione nazionale hanno subito una pesante
sconfitta, insieme al loro entroterra strategico, costituito dal
socialismo fino ad allora realizzato.
Molti,
soprattutto nei Paesi del primo mondo ricco, si sono sentiti comunque
in dovere di sopperire, attraverso l'azione umanitaria, alla perdita
di una politica internazionalista no global che andasse alle
radici della povertà e delle diseguaglianze, combattendo le nuove
forme dello sfruttamento e dell'egemonismo (neo-imperialismo?)
mascherato. Il danno immediato è stato ridotto, ma non quello
“successivo” e complessivo. Occorre prendere atto, questo è il
punto cruciale, che l'aiuto umanitario, il quale già portava in seno
un dilemma originario, è stato vieppiù assoggettato di fatto dai
soverchianti meccanismi, non solo finanziari, della globalizzazione
contemporanea.
Ora,
con la crisi della globalizzazione emergono tutti i limiti e le
contraddizioni dell'umanitarismo che si è infine proposto di porre
rimedio ai mali della globalizzazione stessa, supponendo di poter
connotare i propri interventi come sempre neutrali.
È
questa crisi a porre all'ordine del giorno, oltre ad un critico
bilancio degli aiuti umanitari – qui solo brevemente tratteggiato -
la ripresa indispensabile di un internazionalismo politico, che così
come non può per sua natura essere neutrale, deve poter contare
sullo spirito e delle energie di chi in buona fede ha creduto
nell'umanitarismo.
Note
1
Massimo Fini, “Per aiutare l'Africa andiamocene da lì”, il
Fatto Quotidiano, 29 novembre 2018.
2
Tra i “dilettanti allo sbaraglio” il giornalista inserisce le
cooperanti onlus
Silvia
Romano (oggi prigioniera in Kenia), Simona
Torretta
e Simona
Pari,
le “due Simone”, e la inviata de il
Manifesto
Giuliana Sgrena.
3
In opposizione alle organizzazioni umanitarie “istituzionalizzate”,
con il loro pesante bagaglio di burocrazia ed interessi, sono sorte
le MONGO (da “My Own NGO”)
ad opera di persone convinte di poter risolvere i problemi nelle
zone di crisi meglio e con costi minori. Vedi Linda Polman,
“L'industria della solidarietà”, Bruno Mondadori, 2009, pagg.
43-55.
4
Naomi Klein, “Shock economy. L'ascesa del capitalismo dei
disastri”, Rizzoli, 2008.
5
Linda Polman, “L'industria della solidarietà. Aiuti umanitari
nelle zone di guerra”, Bruno Mondadori, 2009.
6
Linda Polman, ibidem, pag. 6.
8
https://www.corriere.it/esteri/18_febbraio_13/scandalo-oxfam-sotto-accusa-numero-della-ong-mark-goldring-f9c8f3b0-10a3-11e8-ae74-6fc70a32f18b.shtml
9 https://www.ilblogdellestelle.it/2017/05/alle_ong_vanno_12_miliardi_di_euro_annui_dai_cittadini.html
10
https://www.ilsole24ore.com/art/notizie/2017-07-31/ong-top-ten-500-milioni-entrate-211523.shtml?uuid=AEEmha6B
11
Ad esempio, a Irene Khan, ex segretario di Amnesty
International, è stata versata una buonuscita di 500mila
sterline.
12
http://www.dagospia.com/rubrica-4/business/beneficenza-maleficenza-intero-business-fondazioni-ong-onlus-s-ed-49008.htm
13
http://it.peacereporter.net/articolo/7903/Requisiti+gli+ospedali+afgani+di+Emergency
14
Vedi a questo proposito:
http://www.studiperlapace.it/view_news_html?
news_id=20051231053055
15
Nel Blog vedi:” Immigrazione”, ottobre 2014; “Immigrazione:
una risposta”, febbraio 2015; “Nuove frontiere”, settembre
2015; “Minniti d'oltremare” settembre 2017; “Aiutarli a casa
loro?”, settembre 2018.
16
Vedi nel Blog “Il tabù della nazione”, novembre 2018.
Nessun commento:
Posta un commento