sabato 29 dicembre 2018

Patimenti senza pentimento

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Patimenti senza pentimento

Prodi in ansia per l'Italia esposta agli esiti della globalizzazione liberista giunta agli sgoccioli. Privatizzazioni e liberalizzazioni: scelte strategiche al check point della storia che ritorna. Nessun cenno autocritico, anzi.
Romano Prodi non è un “liberale”, nel senso che la parola ha assunto nella tradizione politica nazionale. Tuttavia, avendo aderito alla globalizzazione liberista ed alla rivoluzione liberale europea del dopo-muro, appartiene in pieno alla componente di sinistra e progressista del liberalismo, come viene comunemente inteso a livello internazionale.
Posto di fronte sia alla crisi della globalizzazione sia ai palesi fallimenti dell'Unione europea, costruita dalla rivoluzione liberale, ci si aspetterebbe se non un'autocritica complessiva, almeno qualche cenno di operoso ravvedimento. Al contrario, Prodi rivendica le scelte politiche compiute e si limita ad esprimere le proprie ansie per il futuro di declino al quale il Paese sembra destinato.
Come se fossimo a cospetto dell'alterna fortuna delle umane sorti, ad un giro di dadi della storia.
Romano Prodi visto da "Il Sole 24 Ore"

Le ansie di Romano Prodi
In una intervista rilasciata a Il Sole 24 Ore1 [vedi estratto nella finestra “L'Italia rischia grosso”] del 2 dicembre 2018, Prodi lancia un allarme: se la globalizzazione va in crisi, il made in Italy crolla.

L'Italia rischia grosso

Nella rimodulazione degli equilibri mondiali, Romano Prodi scorge due fenomeni:
«Il primo fenomeno è il desiderio di autorità che si è propagato nel mondo, con il popolo che vuole una autorità forte senza enti intermedi: la Cina e gli Stati Uniti, ma anche la Russia, l’Ungheria, il Brasile, le Filippine e la nostra Italia. (…) Il secondo fenomeno è l’attuale inedita fase di prevalenza della politica sulla economia: il che, con caratteri diversi, accade sia in Cina che negli Stati Uniti. 
«In Cina, questa prevalenza è naturale ma ha assunto contorni nuovi. Xi Jinping ha definito le linee di concentrazione e di espansione interna e all’estero delle grandi imprese cinesi, elaborando una strategia precisa e lucida e sottolineando il loro legame e la loro dipendenza dal potere politico nel rapporto con il governo, il partito e l’esercito. (…) Xi Jinping ha iniziato una nuova fase: non più una Cina all’inseguimento ma un modello che, per i suoi successi, diventa attrattivo, sottraendo il ruolo ai sistemi democratici. Questa tendenza ha come contraltare Donald Trump che con l’America First, pur in maniera diversa, influenza il comportamento delle imprese americane con decisioni sorprendenti e senza precedenti.
«La globalizzazione ha fatto una selezione dura e dolorosa, ma ha anche plasmato e migliorato il tessuto produttivo italiano. Il cuore del nostro capitalismo sono le 2.500 medie imprese molte delle quali, pur essendo modeste di dimensioni, si sono globalizzate attraverso una specializzazione spinta. La loro capacità di combinare innovazione di prodotto e di processo, il loro saper fare quasi artigianale, ma molto raffinato e tecnologicamente complesso, è impareggiabile. La loro forza, che è la nostra forza, è quella di operare nelle nicchie e di rimanere agganciate alle catene globali del valore. Se l’organizzazione del mondo cambia, anche le cose per noi cambiano. E non in meglio.
«(...) penso ogni tanto ai miei imprenditori delle piastrelle, che hanno accompagnato e hanno attraversato la nostra storia fin dal Boom economico. Hanno dominato a lungo il mondo. Poi è arrivata la globalizzazione. Adesso, hanno meno del 4% del mercato internazionale. La Cina ha il 48 per cento. Soltanto che i cinesi vendono a meno di 3 euro al metro quadro. E noi a 14 euro.»
Romano Prodi
intervistato da Paolo Bricco, Il Sole 24 Ore, 2/12/2018

Secondo Prodi l'adesione alla globalizzazione ha comportato una «selezione dura e dolorosa» che, tuttavia, «ha plasmato e migliorato il tessuto produttivo italiano», ora in pericolo a causa:
  • del diffuso desiderio dei popoli di una «autorità forte senza corpi intermedi»;
  • della «inedita fase di prevalenza della politica sulla economia», per cui le grandi imprese cinesi e («pur in maniera diversa») statunitensi agiscono in strategica «dipendenza dal potere politico».
Per l'ex premier gli attuali rivolgimenti degli equilibri mondiali «potrebbero presto presentare il conto», mentre ci sarebbe bisogno di una Unione europea in grado di mediare nel conflitto politico ed economico fra Stati Uniti e Cina, «sui problemi del commercio internazionale, sui brevetti e sulla proprietà intellettuale».
Più che di crisi l'intervistatore Paolo Bricco scrive, senza mezzi termini, di «fine della età aurea della globalizzazione». Nel nostro Paese non ci sarebbe coscienza di quanti danni questa fine potrebbe arrecare al nostro sistema industriale, «in assenza di una costellazione di grandi imprese». A rischiare sarebbe il cuore produttivo dell'Italia, quello dei territori organizzati in distretti industriali, delle piccole-medie imprese che si sono specializzate nelle catene globali, poste in seria e crescente difficoltà dai mutamenti in atto.
Tuttavia, chiamare in causa i nazionalismi significa parlare anche dell'Unione europea, che doveva farci comune scudo ed invece si presenta divisa ed inerte. Si è costruita nella globalizzazione, ma posta al cospetto dei suoi effetti postumi, al suo final outcome, non sembra in grado nemmeno di frapporsi tra Stati Uniti e Cina per mediare (a proprio vantaggio, ça va sans dire) sui più immediati problemi del commercio internazionale.
Dura e dolorosa
Alcune domande sorgono spontanee: per chi è stata dura e dolorosa la “selezione”? Tanto dolore e tanta durezza erano così ineluttabili? Infine: chi e quali scelte di politica economica portano il peso della conseguente situazione in cui ci troviamo? In base a quali idee, poste alla verifica della pratica?
Domande affatto retoriche, giacché solo rispondendo ad esse possiamo trovare il bandolo della ingarbugliata matassa internazionale nella quale ci siamo avvolti.
Le modalità di “selezione” non erano scritte nei vangeli, ma dall'agenda neoliberista della globalizzazione contemporanea avviata agli inizi degli anni '80. Obiettivo cardine dell'agenda: la circolazione transnazionale dei capitali, liberi di allocarsi ovunque potessero meglio “valorizzarsi”, ossia realizzare il massimo profitto.
Pure il mercato europeo doveva rendersi conforme. Doveva aprirsi ai grandi gruppi capitalistici privati, ai loro investimenti, alle loro lucrose mediazioni e chiudere il pluridecennale periodo dello Stato imprenditore, che controllava il sistema finanziario interno, tramite le banche, e mediava i conflitti sociali attraverso il welfare. Sicché, per aderire a quel “mercato conforme”, liberalizzato, furono decise le privatizzazioni delle imprese pubbliche italiane che erano state la spina dorsale della industrializzazione nel nostro secondo dopoguerra. In attesa di poter fare altrettanto nel campo della sanità, dell'assistenza, delle pensioni, dei trasporti e quant'altro riguardasse la cosa pubblica ed il sociale.
Quando nel 1992 il Parlamento italiano diede via libera alle privatizzazioni, tre furono gli obiettivi prioritari fissati: ridurre il debito pubblico (al tempo di 795 miliardi di euro); costruire dei “campioni nazionali” in grado di reggere l'agone mondiale; salvare l'occupazione.
A decenni di distanza, possiamo trarre un bilancio: quali obiettivi sono stati raggiunti?
Il debito pubblico è quasi triplicato (lo scorso ottobre ammontava a 2.334 miliardi di euro); i campioni rimasti “nazionali”, dopo la “selezione”, sono rari e tra essi annoveriamo Telecom, subissata dai debiti, Autostrade per l'Italia, emblema dei “prenditori” alla Benetton,2 ed Alitalia malridotta dai “capitani coraggiosi”; quanto all'occupazione...
Certo, non tutto è dovuto alle privatizzazioni ed al modo in cui furono condotte,3 ma dobbiamo a quella scelta strategica se ci ritroviamo deboli, con poche grandi imprese a rendere sufficientemente solido un tessuto produttivo in prevalenza costituito da piccole-medie aziende, le quali, lasciate pressoché sole, per quanto migliorate siano ed abbiano dato vita ai famosi distretti integrati territorialmente, appaiono ora in grave difficoltà per fronteggiare la crisi della globalizzazione, in funzione della quale fu abbracciato il modello esportativo.
Come se nel mondo, a dispetto delle più elementari leggi economiche, tutti potessero godere contemporaneamente di un surplus commerciale!
Per di più con un lascito interno gravoso: una rete di telecomunicazioni arretrata, ponti autostradali che crollano, un territorio dissestato e, soprattutto, uno Stato democratico depotenziato e menomato nella sovranità.
Fatto tanto più grave se consideriamo che Germania e Francia si guardarono bene dal seguire la via che caldamente indicavano agli altri partners europei. Viceversa, la finanza francese approfittò, insieme a quella anglo-americana, della gentile disponibilità (a nostre spese) loro concessa dai governi e dal top management italiani per fare shopping a prezzi di saldo.
Perché, va ribadito, si trattò di una svendita come dimostrano i conti,4 in questo caso opportunamente ignorati da quei puntigliosi contabili, economisti alla Cottarelli, che scambiano l'economia di uno Stato reale per quella di un'azienda ideale.
Tra i protagonisti di quella stagione di privatizzazioni spiccano le figure di Romano Prodi, prima da presidente dell'IRI, richiamato in servizio dopo il lungo mandato iniziale (1982-1989), poi da premier, e quella di Mario Draghi, ora governatore della Bce ed allora direttore generale del Tesoro, nonché relatore sulle intenzioni del governo italiano alla platea di “cointeressati”, invitati sul panfilo Britannia [vedi “Breve e pittoresca fu la crociera”, nella finestra in pagina].
Breve e pittoresca
fu la crociera

1992. Nell'anno della firma del trattato di Maastricht, l'Italia si apprestò a massicce privatizzazioni delle partecipazioni statali. Perciò da un gruppo di imprese finanziarie britanniche (oggi International Financial Services) nacque l'iniziativa di affittare il panfilo Britannia, di proprietà reale, per offrire i propri servizi al Gotha dell'imprenditoria italiana, pubblica e privata, ed all'alta finanza internazionale.
Toccò a Mario Draghi, allora direttore generale del Tesoro, illustrare alle parti convenute le intenzioni del governo Amato. In altri termini: le occasioni d'investimento e di connesse lucrose percentuali per gli eventuali servizi resi nelle transazioni.
Prima che la nave salpasse per l'Argentario, Draghi scese a terra: aveva dato l'input necessario, ora toccava ai “seminaristi”.
Sergio Romano, rispondendo ad un lettore, ha scritto sul “Corriere della Sera” del 16 giugno 2009:
«La crociera fu breve e pittoresca, con una orchestrina della Royal Navy che suonava canzoni nostalgiche degli anni Trenta e un lancio di paracadutisti da aerei britannici che si staccarono in volo da un incrociatore e scesero come stelle filanti intorno al panfilo di Sua Maestà. Fu anche utile? È difficile fare i conti. Ma non c’è privatizzazione italiana degli anni seguenti in cui la finanza anglo- americana non abbia svolto un ruolo importante.»
Tuttavia, sarebbe superficiale un giudizio su quelle scelte politiche che non prendesse in esame anche il quadro politico europeo del tempo. Il 1992 è anche l'anno del Trattato di Maastricht (febbraio) e dell'attacco alla lira (settembre) di cui fu protagonista lo speculatore umanitario George Soros.
1992
Negli anni che precedettero Maastricht, il cancelliere tedesco Helmut Kohl non era favorevole ad abbandonare il marco a favore della moneta unica, voluta invece dal presidente francese François Mitterrand.
Mitterand, per acconsentire alla riunificazione tedesca, aveva chiesto in cambio a Kohl la rinuncia al marco e l'adesione all'euro, nella convinzione che in tale modo la Germania si sarebbe talmente europeizzata da assorbirne la propensione egemonica fino a neutralizzarla.
Il peso economico-finanziario di quello che Vladimiro Giacché definirà l'Anschluß,5 l'annessione della DDR alla Repubblica Federale, era enorme. Nel 2014 il settimanale Der Spiegel lo quantificherà in circa 2.000 miliardi di euro. Mentre questo peso gravava sulle finanza federali, le resistenze tedesche, di contro, insistevano sul pericolo costituito dal forte debito pubblico italiano e sulle difficoltà della lira, che avrebbero esposto la futura moneta unica a rischi comuni.
Cosa spinse alfine Berlino a “gettare il cuore” oltre ogni ostacolo?
  1. In primo luogo un trattato, sottoscritto a Maastricht, di stretta salvaguardia nazionalistica nella futura Eurozona della posizione della Germania, alla quale, a futura memoria, non si sarebbe potuto chiedere la condivisione dei rischi connessi alla condivisione della moneta;
  2. in subordine, un calcolo di pura convenienza nazionalistica, in linea con la vocazione tedesca ad accumulare un surplus esportativo anche a danno dei partners.
L'uno e l'altro configurarono una Unione europea che anteponeva l'unione economica, monetaria e finanziaria al processo d'unificazione politica,6 affidato ad un successivo “trattato costituzionale”,7 malamente abortito in seguito ai referendum olandese e francese (2005), e gettava le basi della divergenza economica, sociale e territoriale che si sarebbe palesata al sopravvenire di uno schock, il crollo finanziario del 2007-2008.
Sull'altare dell'accordo tra Parigi e Berlino, a fungere da prima vittima sacrificale fu l'Italia, nella quale si nutrivano da tempo forti ansie proprio attorno alla riunificazione tedesca. A tale proposito, con ironica lungimiranza, Giulio Andreotti giunse a dire: «Amo tanto la Germania che preferisco averne due».
In preda alla sindrome d'impotenza, corrispondente alla propria incapacità di governare i conflitti sociali e politici del nostro Paese, l'establishment italiano si convinse che la sola via d'uscita fosse assoggettarsi ad un “vincolo esterno”, cioè a farsi imporre dall'Europa i comportamenti economici e monetari ritenuti più “virtuosi”. Nonostante fosse ben consapevole che tale assoggettamento avrebbe comportato la cessione di una quota rilevante di sovranità nazionale e, inevitabilmente, uno “svincolo” dalla democrazia interna.
In base a questa disponibilità italiana, equivalente ad una resa di responsabilità, sancita a Maastricht, il successivo passo fu quello di privatizzare, insieme al patrimonio immobiliare,8 il capitale industriale e finanziario dello Stato che innervava il sistema produttivo del Paese.
Da segnalare una conseguenza non secondaria della privatizzazione delle banche pubbliche. La Banca d'Italia veniva de facto privatizzata, sottratta al controllo del potere politico ma non del neocostituito board finanziario, nel quale vengono a prevalere non più i rappresentanti delle imprese statali, bensì quelli delle imprese private. Aspetto piuttosto inquietante, se consideriamo che le banche “emettono moneta” sotto forma di credito e Bankitalia è stata chiamata a far parte della Banca centrale europea (anch'essa formalmente “indipendente”), posta a governo del sistema a moneta unica.
È impensabile
Benché le partecipazioni statali siano sorte per ricostruire sulle macerie del capitalismo privato, da cui IRI (Istituto di Ricostruzione Industriale), ed abbiano operato in funzione di quel capitalismo nelle scelte dei settori da privilegiare, esse avevano dimostrato una grande validità e vitalità nel panorama industriale italiano. Soprattutto se poste a confronto con la grande imprenditoria privata.9
Pertanto, la decisione di liquidarne la funzione corrisponde ad una rinuncia a presidiare gli interessi del Paese, facendo esclusivo affidamento sulla integrazione europea, ossia su un processo che doveva renderci più forti insieme agli altri partners, per affrontare la globalizzazione vista come competizione mondiale.
In fondo a questo tragitto, ma solo quando si manifesta la crisi della globalizzazione, Prodi scopre che vengono a prevalere i “nazionalismi” e, a livello mondiale, “la politica sull'economia”, mentre i popoli vogliono un'autorità forte “senza corpi intermedi”.10
È impensabile che un maître à penser, come lui, non abbia visto quanto gli scorreva sotto gli occhi, per giunta dall'alto della vetta in cui si ritrovava.
Si è detto che delle privatizzazioni-liberalizzazioni fu diretto protagonista. Di quanto racconta Vincenzo Visco sui maneggi, ai danni del Paese, di Parigi e Berlino intorno alla riunificazione tedesca ed al varo della moneta unica, era di certo a conoscenza [vedi “Agnus Dei”, nella finestra in pagina]. Non può sostenere che, alla radice dei nazionalismi palesi attuali, non vi siano stati i nazionalismi egemonici intra-europei, per quanto mascherati.
Agnus Dei
«Ma se questi episodi illustrano con chiarezza il valore delle concessioni che Parigi ottiene da Kohl, è importante anche comprendere per quali ragioni il cancelliere trova conveniente farle. E in questo caso, la risposta ce la fornisce Vincenzo Visco, ministro delle Finanze al momento dell'esordio dell'euro, con questa dichiarazione rilasciata a la Repubblica: “Un'Italia fuori dall'euro, visto il nostro apparato industriale, poteva far paura a molti, incluse Francia e Germania, che temevano le nostre esportazioni prezzate in lire. Ma Berlino ha consapevolmente gestito la globalizzazione: le serviva un euro deprezzato, così oggi è in surplus nei confronti di tutti i Paesi, tranne la Russia da cui compra l'energia. Era un disegno razionale, serviva l'Italia dentro la moneta unica proprio perché era debole. In cambio di questo vantaggio sull'export la Germania avrebbe dovuto pensare al bene della zona euro nel suo complesso”.
«Dunque, pur essendo evidente che in quel momento Berlino non può che acconsentire alla richiesta francese, è anche vero che porta a casa qualcosa di importante. Non solo ottiene da Mitterrand la garanzia che la nuova moneta nascerà sul modello del marco e avrà la stabilità come valore portante. Ma, per quanto riguarda l'Italia – questo il sospetto che si fa strada in quei giorni e che si diffonde velocemente in molte cancellerie -, guadagna il sì francese a un progetto comune, ovviamente non reso esplicito, di deindustrializzazione del nostro Paese. Pertanto, forse è dovuto anche a questa circostanza se, nel '92, su forti pressioni esterne e dopo la mini crociera del Britannia tra le acque di Civitavecchia e dell'Argentario (…), il governo Amato varerà un imponente piano di privatizzazioni di molti gioielli dello Stato: Iri, Eni, Ina, Comit eccetera.»
Da Angelo Polimeno, “Non chiamatelo euro”,
Mondadori, 2015, pagg. 26-27.
Come non gli sarà sfuggito che gran parte dell'espansione verso l'Est dell'Europa occidentale e dei suoi capitali, a costruire l'odierna Unione, sia stata realizzata facendo cinicamente leva sul peggior nazionalismo, a base etnica e confessionale. Anche a costo di riportare la guerra nel vecchio continente, come è successo nella ex-Jugoslavia ed in Ucraina.
Nemmeno è pensabile che il trattamento disumano ed antisociale riservato alla Grecia, non l'abbia indotto ad una riflessione analitica sulla reale origine e sulle vere finalità dei processi di divergenza in atto tra Centro europeo a guida teutonica e periferie mediterranee, di cui l'Italia nonostante tutto fa parte.
Quanto alla prevalenza della politica sull'economia, appare sorprendente che reputi inedita l'America first di Donald Trump, a meno che gli interventi bellici nord-americani in Medio Oriente siano da considerare la “continuazione dell'economia con altri mezzi”. O che la fine degli esorbitanti vantaggi, conseguiti dagli Stati Uniti nella prima fase della globalizzazione, non potesse condurre alla risposta di fare affidamento unilaterale sulla propria potenza politica (e forza militare), per ricostituire una leadership in decadenza mondiale. Non è la prima volta nella storia che un tale fenomeno si presenta.
Forse, a bendargli gli occhi, è stata una ideologia, dalla quale i fautori della globalizzazione e della Rivoluzione liberale europea “post-ideologica” si sentivano perfettamente esenti. Una ideologia fondata sulla fede nella potenza universale del free trade, del business che penetra ovunque, vincendo ogni autodifesa sociale, nazionale e territoriale. Fede nell'economia che vince sulla politica, sulla società, mandando in soffitta il conflitto di classe.
Di conseguenza, non può ammettere che l'economia non possa non solo disgiungersi dalla politica, ma dipenderne. Che la macro-economia sia un'invenzione ad hoc, su misura del capitalismo, per eludere le verità dell'economica politica. Non può neppure ammettere il fallimento della rivoluzione liberale, benché sia evidente la disfatta dell'Europa costruita con quella rivoluzione.
Per un cattolico, qual è il Padre dell'Ulivo, il preludio all'autocritica è il pentimento, senza il quale le ansie rimangono vuoto stato d'animo ed inerte patimento.
Note
1 http://www.romanoprodi.it/strillo/con-la-fine-della-globalizzazione-e-il-ritorno-dei-nazionalismi-litalia-rischia-grosso_15417.html
2 I Benetton sono tra i campioni dei nostri “prenditori”. Il loro gruppo si aggiudica GS Autogrill per 470 miliardi e lo gira alla francese Carrefour GS per 10 volte tanto. Poi, usando la “leva finanziaria”, si impossessa di gran parte della rete autostradale pubblica, scaricando il debito contratto per acquistarla sulla società acquistata. Mantiene bassi i livelli delle manutenzioni e, grazie alla compiacenza governativa, alti i pedaggi, tanto da permettersi acquisizioni di imprese del settore sui mercati internazionali.
3 In un rapporto la Corte dei Conti ha evidenziato «una serie di importanti criticità, che vanno dall'elevato livello dei costi sostenuti e dal loro incerto monitoraggio, alla scarsa trasparenza connaturata ad alcune delle procedure utilizzate in una serie di operazioni, dalla scarsa chiarezza del quadro della ripartizione delle responsabilità fra amministrazione, contractors ed organismi di consulenza al non sempre immediato impiego dei proventi nella riduzione del debito».
4 Loretta Napoleoni, “Privatizzazione, quando e come è iniziata la (s)vendita del patrimonio pubblico”, il Fatto Quotidiano, 18 agosto 2018.
5 Vladimiro Giacché, Anschluss. L'annessione. L'unificazione della Germania e il futuro dell'Europa”, Imprimatur, 2013.
6 Si parlò allora del “carro posto davanti ai buoi”.
7 Si trattava di un ossimoro, perché un trattato internazionale non può essere Costituzione. Infatti non lo fu.
8 Più tardi Goldman Sachs, della quale divenne vicepresidente per l'Europa Mario Draghi e di cui sono stati consulenti importanti globalizzatori italiani, si è appropriata del patrimonio immobiliare dell'Eni.
9 A questo proposito vedasi, di Massimo Mucchetti, “Licenziare i padroni?”, Feltrinelli, 2003.
10 Il tema dei corpi intermedi merita uno specifico approfondimento che farò a breve.

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