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Nel
mentre l'ancien régime perde il controllo della società, la
sinistra perde il suo popolo. Ma quest'ultima di quale parte
sociale e di quali processi economici si è fatta carico?
La
spaccatura sociale e la decadenza del Paese generate dalla
globalizzazione. Come la rivendicazione delle vecchie politiche si
associa all'accanita difesa dell'esistente.
Per spiegare «l'avanzata
populista-sovranista» che «da tempo caratterizza l'intero scenario
continentale», ma «in Europa occidentale solo l'Italia vede un
governo di questo tipo», poco più di un mese fa Ernesto Galli della
Loggia1
scriveva che il «popolo piccolo borghese» è sfuggito al controllo
politico e si è preso un ruolo che in passato gli era stato negato.
Ernesto Galli della Loggia |
Così
all'improvviso ricompariva nelle analisi della politica la piccola
borghesia, categoria un tempo assai evocata e da anni caduta in
disuso. Di identità sempre indefinita e pencolante tra classe della
piccola proprietà, della “roba”, raramente dei mezzi di
produzione, e “ceto medio” di consumo o più compiutamente di
status, secondo
l'approccio sociologico. Della sua vaga determinazione non si sentiva
la mancanza, tantomeno del suo utilizzo come insulto (piccolo
borghese!), quando le discussioni interne al popolo della sinistra si
facevano animate.
Ciò
nonostante, la sua sola chiamata in causa guadagna il merito non
irrilevante di voler stabilire una connessione
tra svolgimenti politici e classi sociali. Una
connessione alla quale si deve guardare, se si vuole evitare di
prendere lucciole per lanterne.
Fuori
controllo
Vanno
compresi i motivi per i quali la sinistra ha perso il suo popolo,
fatto di operai, braccianti, impiegati, disoccupati, precari, poveri
giovani e vecchi, non solo di piccola borghesia.2
Per
quali ragioni il malcontento popolare non trova più da tempo nella
sinistra adeguata corrispondenza?
Forse
perché la sinistra, almeno nella sua parte prevalente,
ha rinunciato sia alla lotta di classe che alla prospettiva
socialista, che sin dall'ottocento sono state le architravi della
sua esistenza?
Se
addebitare tutto a questa rinuncia fosse esaustivo, sarebbe bastato
contrapporre una “vera autentica sinistra” a quella falsa o
troppo annacquata, secondo interpretazioni più o meno radicali del
suo mutamento, per riprendere legami sociali e consensi elettorali. A
maggior ragione in presenza di un contesto “favorevole”, nel
quale la crisi capitalistica ha prodotto povertà e concentrato
ricchezza.3
Alle recenti elezioni politiche, per esempio, il voto popolare
avrebbe dovuto premiare sia LeU che Potere al Popolo. Il che non è
avvenuto.4
Il
malcontento delle classi povere ed impoverite si è indirizzato,5
invece, verso il M5S e la Lega di Salvini, allargandone la base di
consenso o, come si usava dire, secondo una scolastica desueta, la
“base di massa”.6
Più complessivamente tale base è fuori controllo e, a dispetto dei
prevalenti mezzi di comunicazione tradizionali (carta stampata e TV)
e del vasto schieramento dei centri di potere, l'ancien régime
non riesce a condizionare la maggioranza popolare in modo decisivo.
Sia al momento del voto, sia nella formazione quotidiana
dell'opinione rilevata dai sondaggi.
In
effetti, per quale parte economico-sociale ha operato quella
sinistra, negli anni della “lotta di classe senza la lotta di
classe”, come ebbe a dire Luciano Gallino, quando imperversava la
restaurazione liberale e liberista, sino alle ultime elezioni
politiche del 4 marzo 2018?
Forse
dovremmo prendere atto che le componenti maggioritarie della sinistra
si sono applicate proprio contro le classi sociali di loro
storico riferimento e radicamento. Di conseguenza ogni schematica
interpretazione dei comportamenti politici, secondo il paradigma
destra-sinistra, mostrerebbe di essere incapace di rendere conto
della realtà sociale e culturale sottostante.
Lo
spazio della mediazione
In
occidente il sistema liberal-democratico poggia su una certa
disponibilità statale di ricchezza (data dalla fiscalità generale),
senza la quale non è possibile “correggere” la dinamica
economica “naturale” di mercato, per limitare lo svantaggio dei
gruppi sociali che ne sono penalizzati ed esclusi.
Da
tale disponibilità dipende buona parte della perequazione
distributiva, nella mediazione di interessi che tendono
“spontaneamente” a divergere e confliggere. Senza questa
disponibilità il sistema liberal-democratico non può ovviare alla
mancanza di democrazia insita nell'economia capitalistica.
Quest'ultima traeva stabilità proprio dalla mediazione, sicché la
sinistra istituzionale ha vissuto nei trent'anni postbellici di
questo specifico spazio politico, correttivo e riformista rispetto a
quello meramente di mercato e, per così dire, di soverchiante potere
della proprietà e del danaro.
A quel
tempo il ricco Occidente viveva la “minaccia sistemica”,
costituita dall'Est comunista e dal Sud in liberazione nazionale.
Sventata la minaccia ed affermatasi
l'ondata liberista e globalizzante, abbiamo assistito
all'annullamento progressivo di questo spazio di mediazione, per
decenni presidiato dalla socialdemocrazia europea variamente
denominata.
In
questo processo si situa la sua perdita di popolo.
Quasi
tutto il ceto politico della sinistra ha ritenuto di poter salvare se
stesso evitando di ostacolare questo divenire, ritenuto prima
inevitabile e poi irreversibile, facendosene direttamente carico. Ma
motivando di doverlo fare per salvare il salvabile, a riduzione del
danno per i settori sociali di storico riferimento.
Senonché
la crisi del 2007-2008 ha messo a nudo la sostanziale inconsistenza
delle motivazioni addotte, a giustificazione dei propri
comportamenti, e lasciato sotto gli occhi solo la sua totale
adesione, financo ideologica, al liberalismo ed alla
mondializzazione.
Non a
caso oggi ricorre la disputa se il Paese sia ricco di fiscalità
sufficiente per potersi permettere la mediazione politica. Oppure,
causa l'ingente indebitamento dello Stato,7
debba rinunciare a farlo, evitando di finire in default e di
far saltare le banche italiane con la pancia piena di bonds
italiani.
Essendo
le banche organo essenziale al funzionamento del corpo finanziario
italiano (dai più definito “bancocentrico”), la prevalente
sinistra è finita nelle file patrizie di... Menenio Agrippa. Mutatis
mutandis, essa aderisce al suo celebre apologo – come fossimo
ancora nel 494 a. C. - forse credendo in questo modo di fare
rientrare l'attuale “secessione delle plebi” (le membra),
attratte da “populismo e sovranismo” che opererebbero a loro
danno perché minerebbero il “ventre” sistemico.8
La secessione delle plebi |
L'apologo
di
Menenio Agrippa
fu
un discorso pronunciato da quest'ultimo nel 494 a.C. Ai
plebei in rivolta che,
per protesta, avevano abbandonato la città e occupato il Monte Sacro
(più probabilmente il colle Aventino) per ottenere la parificazione
dei diritti con i patrizi. All'epoca, Agrippa Menenio rivestiva la
carica di senatore di rango consolare.
Agrippa
spiegò l'ordinamento sociale romano metaforicamente, paragonandolo
ad un corpo umano nel quale, come in tutti gli insiemi costituiti da
parti connesse tra loro, gli organi sopravvivono solo se collaborano
e, diversamente, periscono; conseguentemente, se le braccia (il
popolo) si rifiutassero di lavorare, lo stomaco (il senato) non
riceverebbe cibo ma, in tal caso, ben presto tutto il corpo, braccia
comprese, deperirebbe per mancanza di nutrimento.
Grazie
alla mediazione di Menenio Agrippa la situazione fu ricomposta ed i
plebei fecero ritorno alle loro occupazioni, scongiurando così la
prima grande rottura fra patrizi e plebei.
https://it.wikipedia.org/wiki/Apologo_di_Menenio_Agrippa
D'altro
canto, non è la prima volta che il liberalismo si trova in
antagonismo con la democrazia.9
Anche se mai come in questo momento è apparso così chiaramente
espressione dei gruppi oligopolistici finanziarizzati, fautori della
globalizzazione contro una democrazia, alla quale sottrae la
sovranità in forza della quale può di fatto esercitarsi.
Il
sottostante
A
questo punto ritornare al tema iniziale, sollevato dal ritorno in
auge dell'analisi del sociale che sta sotto la superficie
politica, è indispensabile.
In
questa direzione, un contributo alla riflessione ci viene dalle
pubblicazioni di Domenico Moro. Mi riferisco all'analisi sviluppata
nel libro edito nel 2015, significativamente intitolato
“Globalizzazione e decadenza industriale”,10
che lo porterà a trarre drastiche conclusioni sulla nostra
partecipazione alla moneta unica, espresse nel suo più recente libro
comparso nel 2018.11
L'autore
spiega la globalizzazione come insieme di risposte (cause
antagonistiche) alla “caduta tendenziale del saggio di profitto”,
prevista da Marx ne “Il Capitale” e già oggetto di uno classico
studio di Henryk Grossmann, uscito nell'anno della grande crisi del
1929, pochi giorni prima del crollo di Wall Street.12
Da questo punto di vista la globalizzazione non è che una
riorganizzazione capitalistica su scala mondiale, a seguito della
crisi manifestasi negli anni '70.
Le
politiche condotte dai governi europei conservatori e progressisti,
di destra e di sinistra, si sono indistintamente indirizzate a
favorire sia la globalizzazione, sia la messa in opera su scala
continentale di particolari meccanismi ordinativi che hanno
comportato una pesante penalizzazione dei lavoratori (fino alla
emarginazione di alcuni strati). Il tutto a vantaggio dei gruppi
oligopolistici finanziarizzati.
Rimandando coloro che sono
interessati alla lettura delle specifiche argomentazioni
dell'autore,13
preme qui sottolineare che l'impatto sulla realtà sociale nazionale
è risultato piuttosto devastante. Dalla disamina di Moro emerge un
interessante film della decadenza italiana
[vedi finestra “Decadenza italiana”] e della spaccatura
sociale in atto nel nostro Paese, ragione sostanziale della
perdita di controllo politico
da parte delle élites
dominanti su settori numericamente maggioritari della popolazione.
Decadenza
italiana
«Oggi,
più che davanti a una vera e propria decadenza industriale come
quella del passato, ci troviamo dinanzi ad una riorganizzazione
dell'accumulazione capitalistica in Italia (…) che è coerente con
le trasformazioni dovute al passaggio da una fase nazionale a una
fase compiutamente globalizzata. La riduzione della produzione, nel
numero delle imprese, dell'occupazione industriale e dei salari non è
dovuta al mancato adeguamento alla globalizzazione, ma
paradossalmente proprio all'adattamento alle trasformazioni in atto
dovute all'intreccio di crisi e globalizzazione.
Ovviamente,
non stiamo dicendo che non ci sia un decadimento e che questo
decadimento non investa la società italiana nel suo complesso.
Stiamo dicendo che che c'è chi, una minoranza ristretta, beneficia
delle trasformazioni e chi, la maggioranza, sperimenta il
peggioramento. I primi sono i settori vincenti del capitale, cioè il
grande capitale industriale e finanziario globalizzato, che controlla
di fatto la gran parte dell'economia italiana, delle esportazioni,
del capitale. La classifica dei primi gruppi con sede in Italia
stilata da Mediobanca è esemplificativa. Il peso dell'estero sul
fatturato e sui profitti è cresciuto. Dopo undici anni di primato di
Eni, il primo gruppo italiano è Exor, i cui ricavi sono saliti a 122
miliardi (+7,5 per cento), ma di questi 62,5 miliardi provengono da
Crysler. Fra i primi venti gruppi sette sono di proprietà estera, ma
il loro numero è destinato a crescere, mentre sono fuori della
classifica, perché hanno sede all'estero, Techint che occuperebbe la
sesta posizione, Ferrero che si situerebbe al tredicesimo posto e
STMicroelectronics che sarebbe al ventesimo posto. Accanto a questa
élite capitalistica c'è la borghesia delle nuove élites
professionali, tecnico-scientifiche e manageriali, coloro i quali
hanno competenze professionali per stare su un mercato più
tecnologico e più internazionalizzato.
Invece,
tra coloro i quali rimangono penalizzati dalla riorganizzazione
dell'accumulazione, vanno annoverati in primo luogo i lavoratori del
settore manifatturiero, i lavoratori italiani e stranieri occupati
nei servizi a più basso valore aggiunto e la crescente massa dei
disoccupati. Ma tra quanti sono stati colpiti dalla riorganizzazione
troviamo anche i settori intermedi della società, buona parte dei
lavoratori dipendenti statali, i giovani laureati e non, le micro e
medie imprese, e anche le medie e alcune grandi imprese che non si
sono internazionalizzate o che non sono riuscite a inserirsi nelle
catene internazionali del valore, e che non beneficiano di alcun
monopolio. Ciò a cui si assiste è il rialzo dei profitti del
vertice capitalistico, sempre più integrato con il capitale
internazionale, al prezzo del peggioramento delle condizioni di vita
della maggior parte della società e della stagnazione di lunga
durata dell'economia. Ne sono dimostrazione i dati Istat, (...)»
Da
Domenico Moro, “Globalizzazione e decadenza industriale”,
Imprimatur, 2015, pagg. 209-211.
Appunti
sociali
In particolare vorrei
osservare che:
- il forte livello di disoccupazione e sotto-occupazione, di precarizzazione dei rapporti di lavoro;
- la penalizzazione dei lavoratori del settore manifatturiero e lo spostamento dell'occupazione nei servizi a più basso valore aggiunto;
- l'allargamento del gap tra meridione ed isole rispetto al resto d'Italia;
hanno fatto dilagare la
povertà e le distanze territoriali, colpito anche una parte dei ceti
intermedi di consumo, generando in questi ultimi una propensione
“forzata” al risparmio di autotutela, sicché nel complessivo il
mercato interno ne è uscito depresso.
Nella parte superiore della
“pera sociale”, invece, riscontriamo una accentuata divaricazione
interna alla borghesia imprenditoriale, tra quella finanziarizzata e
legata alla globalizzazione (non a caso devota all'attuale assetto
europeo) e quella “nazionale”, legata alle produzioni
territoriali ed al circuito interno del mercato, costituita da gran
parte delle piccole e medie aziende.
D'altro canto, il passaggio
delle proprietà delle imprese in capo a società transnazionali, che
ricorrono sistematicamente alle delocalizzazioni produttive, rende il
contesto sociale ancora più instabile e privo di “futuro”. Un
futuro di cui non si smette di parlare, proprio perché è quanto mai
divenuto incerto ed insicuro.
Appunti
politici
Si
inasprisce lo scontro politico sia contro, sia all'interno
dell'attuale governo, frutto di un contratto di compromesso tra M5S e
Lega di Salvini, che proprio nelle contese in seno al governo
promettono di divenire reciprocamente alternativi. Come alternative
sono le rispettive strutture organizzative, poiché il Movimento è
basato sulla ricerca di un assetto partecipativo tramite le nuove
tecnologie della Rete, mentre la Lega è ancorata alla militanza
amministrativa dei territori, alla maniera della prima Repubblica.
La
Lega in questi mesi ha fatto il pieno di consensi del fu
centro-destra, ergendosi a paladina xenofoba securitaria contro gli
immigrati. Tuttavia, i suoi legami con gli affaristi delle
privatizzazioni autostradali, delle grandi opere (vedi TAV) e degli
inceneritori di rifiuti, le cui fortune dipendono dalle committenze
di Stato, appaiono sempre più evidenti, anche quando difende la
prescrizione infinita, ereditata dai governi a cui ha partecipato nel
recente passato.
Il M5S
fatica ad imporsi sia sui temi della giustizia, sia sulle grandi
opere, dovendo al tempo stesso avviare un modello di sviluppo basato
su nuove tecnologie più ambientalismo ed attuare alcune riforme
sociali (reddito di cittadinanza e pensioni) dalle quali dipende
l'ampiezza del suo consenso.
Il
bersaglio principale di tutto l'establishment è il M5S, che
sperimenta la validità di un giovane personale politico, selezionato
secondo metodi ancora da affinare. Mentre si avvicinano le elezioni
europee, il vecchio regime politico-economico mostra apertamente di
preferire al successo dei pentastellati quello dei leghisti.14
Unico grande ostacolo all'inclusione completa della Lega di Salvini
nelle proprie fila, rimane per ora (e non è poco) la sua ostilità
all'attuale Unione europea ed all'euro.
Rovesciamenti
Rifiutandosi
di prendere atto della spaccatura sociale a cui ha fattivamente
contribuito e dei motivi reali del proprio fallimento, il PD insiste
nel rivendicare le proprie vecchie politiche, riproponendole e non
disdegnando, alla bisogna, repentini rovesciamenti di passate
posizioni e di realtà presente.
Di
posizione politica, quando, con motivazioni non dissimili da quelle
di Forza Italia, si schiera contro
la limitazione dei tempi di prescrizione dei processi, in una
sedicente “battaglia di libertà”, alla quale si sono associati
financo LeU ed alcune voci “no borders”.
Della
realtà, quando pretende che la difesa della libertà di stampa, di
cui sono rimaste poche vitali tracce, consista nel
difendere il coro unico dei grandi media tradizionali,15
usati dai loro proprietari per condizionare la politica e favorire il
proprio specifico core business. Editori spuri che
costituiscono oramai un oligopolio collusivo, dai tratti più
liberticidi che “illiberali”. A questa farsa in difesa della
libertà di stampa non si sottrae nemmeno la corporazione dei
giornalisti, tanto supina agli interessi ed agli orientamenti dei
rispettivi padroni, quanto inattiva di fronte al vergognoso
sfruttamento a cui viene sottoposta la massa dei giornalisti precari
ed esternalizzati.
Dulcis
in fundo
In
seno alla sinistra, solo alcune voci, piuttosto isolate, come quelle
di Stefano Fassina e, per alcuni versi, di Marco Revelli, cercano
faticosamente di sviluppare una critica alla manovra economica che
tenga conto delle ragioni del favore popolare di cui gode il governo
“populista e sovranista”.
Di assai difficile
comprensione è poi la posizione di Potere al Popolo espressa da
Giorgio Cremaschi.
Una volta rilevato che la
manovra dell'esecutivo è “tecnicamente non espansiva” e, sul
piano degli investimenti, alquanto insufficiente per porsi in grado
di invertire la rotta economica e sociale da decenni intrapresa dai
precedenti governi, ci si aspetterebbe una conseguente presa di
posizione.
Se, nonostante le sue
contraddizioni ed i suoi palesi limiti, essa è tenacemente
contrastata dalla Commissione europea e dall'establishment tutto,
ricevendo invece un consistente appoggio popolare di “aspettativa”,
agitarsi tenendosi fuori dall'agone, garantirà la “purezza” ma
condanna alla ininfluenza ed alla marginalità. Il continuo attacco
alla sovranità democratica italiana dovrebbe indurre, perlomeno, ad
una ferma risposta in sua difesa, come ha
fatto Jean-Luc Mélenchon di France
Insoumise.
In caso contrario, la montagna critica, seppure ben argomentata,
finisce per partorire un misero topolino politico, visto che manca
della conseguente richiesta di fuoriuscita dal sistema euro e si
limita a deprecare l'Europa dei Trattati, senza indicare il modo
concreto per soppiantarli.
Non
si può fare a meno di concludere che ciò accade perché manca
una visione della questione sociale connessa a quella nazionale,
di cui anche questo estremo lembo della sinistra sembra incapace,
avendo sostituito l'internazionalismo con la globalizzazione
cosmopolita.
Tema
del quale tratterò in uno dei prossimi articoli.
Note:
1
Ernesto Galli della Loggia, “La sinistra e il popolo 'tradito'”,
Corriere della Sera, 8 ottobre 2018.
2
Galli della Loggia non definisce nell'articolo citato cosa intenda
per piccola borghesia.
3
Rapporto Bankitalia del 12/03/2018: il rischio povertà è salito
dal 19,6% del 2006 al 23% del 2016, al Nord dall'8,3% al 15%; il 30%
della ricchezza è detenuto dal 5% più ricco, mentre il 30% più
povero detiene appena l'1% della ricchezza complessiva.
4
Assai al di sotto delle attese il risultato di Liberi e Uguali,
mentre Potere al Popolo ha raccolto circa la metà dei suffragi a
suo tempo destinati all'Altra Europa per Tsipras.
5
Basti pensare a come hanno votato i quartieri popolari delle grandi
città rispetto ai quartieri ricchi, nei quali il PD ha riscosso un
notevole successo.
6
La scolastica marxista distingue tra “base sociale” per indicare
l'appartenenza di classe di una forza politica e sua “base di
massa”, per denominare il fronte di adesione ampio, di più
soggetti sociali, che quella forza riesce a raccogliere intorno a
sé.
7
Del come e perché lo Stato si sia via via indebitato o si sorvola o
si mente, per nascondere responsabilità e contromisure.
8
Ironicamente
Marx commentò che Agrippa non aveva spiegato come, riempiendo la
pancia dei patrizi, si potessero nutrire le braccia dei plebei.
9
In questo Blog l'argomento è stato ripetutamente trattato,
ricordando, per esempio, il connubio tra liberali e primo decennio
del ventennio fascista.
10
Domenico Moro, “Globalizzazione e decadenza industriale”,
Imprimatur, 2015.
11
Domenico Moro, “La gabbia dell'euro. Perché uscirne è
internazionalista e di sinistra”, Imprimatur, 2018.
12
Henryk Grossmann, “Il crollo del capitalismo – La legge
dell'accumulazione e del crollo del sistema capitalistico”,
Mimesis, 2010 (1929).
13
Nel testo citato da pag. 95 a pag. 119.
14
Il primo ad optare esplicitamente per la Lega, come “cavallo di
riserva”, è stato Vincenzo Boccia, presidente di Confindustria.
15
La RAI merita un discorso a parte, reduce com'è da una stagione di
totale renzizzazione.
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