La
moneta unica come via maestra all'unità politica. Cosa hanno
evidenziato la riunificazione tedesca e l'allargamento ad Est.
Funzione di programmi, clausole e meccanismi di governance
dell'euro-sistema in un'area valutaria “non ottimale”. Il
nazionalismo che si nasconde nell'europeismo.
È
ricorrente l'affermazione che la rinascita delle monete nazionali
sarebbe un ritorno ai vecchi e più deteriori nazionalismi, sicché
si è indotti a pensare che l'euro vi faccia da argine.
A
smentire questo assunto non ci sono solo le grandi contraddizioni
congenite nella moneta unica.
Un
breve viaggio tra i “tecnicismi” che governano il sistema euro,
di cui vanno comprese le logiche portanti, aiuta a comprendere come
vi si sia installato, da “dentro”, il nazionalismo più
pericoloso, quello di supremazia.
1984:
François Mitterrand e Helmut Kohl a Verdun
|
Itinerario
post-Muro
Benché
la teoria mainstream delle AVO (Aree Valutarie Ottimali)
sconsigliasse fortemente l'introduzione di una moneta unica senza
averne i requisiti, i principali Paesi europei hanno dato vita
all'euro ed all'Eurozona, ponendola a rischio di andare in pezzi al
primo shock importante.1
Essa,
al momento, comprende 19 su 27 Paesi dell'UE, essendo il 28° (il
Regno Unito) in uscita.
All'indomani
della caduta del Muro di Berlino (1989), in cambio dell'assenso alla
riunificazione tedesca, la Francia di Mitterrand chiese ed ottenne
che la Germania rinunciasse al suo marco per dar vita ad una moneta
europea. Si racconta che l'allora cancelliere Helmut Kohl, scettico
sullo “strumento”, accettasse di malavoglia lo scambio, non
potendo sottovalutare le ansie generate dalla risorgente potenza
tedesca non solo tra i francesi.
In realtà il nazionalismo,
anche nella sua versione più estrema nazifascista, non fu che una
ideologia volta a reggere una lunga contesa per la supremazia globale
tra blocchi colonialisti ed imperialisti. Ne nacquero, infatti, due
conflitti mondiali al termine dei quali la Germania e l'Europa ne
uscirono divise e non più prime protagoniste
della scena internazionale.
In
mancanza di una prevalente volontà di unione politica in uno Stato
Federale Europeo, le élites dirigenti dei Paesi occidentali
pensarono che procedere per via economica fosse la giusta soluzione,
oltreché la più praticabile.
Dall'integrazione
economica, cammin facendo, supponevano sarebbe scaturito un più
solido intrecciarsi degli interessi ed una convergenza di sviluppo
materiale tali da integrare gruppi dirigenti e Paesi, consentendo la
graduale costruzione di istituzioni politiche sovranazionali, sino a
sboccare in un vera e propria entità statale continentale.
Al
centro di questo itinerario fu posta la moneta unica, sicché, dopo
il decennio preparativo degli anni novanta, nacquero l'euro e
l'Eurozona.
Nell'ideale
europeo batteva un cuore monetario.
Annunci
di fine secolo
Il
primo grande segnale che una costruzione siffatta non avrebbe per
niente scongiurato il risorgere dei nazionalismi, in particolare del
nazionalismo di supremazia, venne dai modi in cui l'Europa
comunitaria, da insieme di Stati occidentali, si estese ad Est.
Nel
corso della sua riunificazione, la Germania sperimentò “al suo
interno”, nell'accorpamento della DDR, i prodigiosi esiti derivanti
dalla imposizione di una moneta unica a territori impreparati a
sostenerla. I Länder
orientali ne risultarono “meridionalizzati”, analogamente a
quanto successe al nostro Meridione nella prima Italia sabauda.
Tramite uno spregiudicato uso politico della moneta (il Deutsche
Mark),
fu distrutto o reso subalterno l'intero apparato produttivo della
DDR, a totale vantaggio delle grandi imprese della parte occidentale.
Esse ne divennero padrone, tramite privatizzazioni a loro beneficio
esclusivo. Di fatto lo spazio concesso ai capitali non tedeschi fu
residuale; ad una politica di convergenza tra aree diseguali venne
preferita la immediata sottomissione delle regioni dell'Est a quelle
dell'Ovest federale.
Pertanto,
quella che a ragione venne definita una
vera e propri annessione (Anschluß2),
da parte delle istituzioni politiche della RFT e delle sue grandi
imprese, evidenziò una propensione nazionalistica, senza concessioni
di margini di autonomia, assai inquietante se viste in ottica
federalista europea.
L'espansione
ad Oriente, sino ai confini della neonata Federazione Russa, fu
realizzata sotto copertura Nato ed appoggiando nazionalismi che,
ibernati per decenni, riprendevano vita nel disfacimento dei regimi
del “socialismo reale”. Nelle repubbliche baltiche i numerosi
cittadini di origine e lingua russa venivano discriminati rispetto
agli “autoctoni”, come poi accadde anche in Ucraina.
Nazionalismo
e separatismo si incentivarono a vicenda. La Cecoslovacchia ne uscì
divisa.
In
ordine sparso, secondo proprio tornaconto egemonico, i singoli
Stati-nazione occidentali fecero a gara nel praticare la politica dei
riconoscimenti delle piccole patrie etnico-religiose, incoraggiando
la disgregazione della Jugoslavia e sospingendola nel baratro del
conflitto.
Non
mancò, a suggello del ritorno della guerra in Europa ed in palese
violazione della propria Costituzione, la partecipazione anche
dell'Italia alla “guerra umanitaria” della Nato in Kosovo contro
la Serbia.
Ora
la falsa coscienza europeista occidentale si lamenta dei regimi
nazionalistici e xenofobi che erigono muri e pongono ostacoli al
progredire della integrazione europea, come se essi sorgessero dal
nulla e non da una specifica e voluta “transizione”.
D'altronde,
come afferma Barbara Spinelli:3
«(...)
tutti i Paesi dell'Est sono entrati in Europa per riconquistare
sovranità e sono estremamente restii a perderla di nuovo.»
Facile
intravvedere a favore di chi.
Altrettanto
facile capire i motivi sostanziali per i quali alcuni governi
insistano nella prosecuzione ad oltranza della guerra fredda contro
l'”orso russo”, colpendo pure, tramite le sanzioni
euro-statunitensi emanate dopo la riannessione della Crimea, il
business
commerciale con Mosca.
Agli
esordi del millennio
Già
operante l'Europa di Maastricht (1992) e dell'euro (1999-2002) le
élites
dirigenti pensarono mature le condizioni per dare una Costituzione
sovranazionale all'Unione. Usando ancora una volta uno “strumento
improprio”, in questo caso un trattato internazionale per
sormontare le sovranità costituzionali nazionali, fallirono: i
referendum in Francia ed Olanda (2005), Paesi fondatori, cominciarono
a mettere in evidenza un'opposizione popolare non semplicisticamente
catalogabile nel nazionalismo ideologico. Altre motivazioni stavano
emergendo: di ordine economico-sociale e di concreto esercizio della
sovranità politica democratica, mancante nell'Europa degli
esecutivi. Proruppero pochi anni dopo, a seguito del crac finanziario
e della crisi economica, ossia di uno “shock
importante”, proprio come contemplato dalla teoria economica delle
AVO citata poc'anzi. L'appena varata moneta unica entrava già in
piena crisi.
Al
posto della promessa convergenza tra aree a diversi livelli di
sviluppo, l'euro si palesava come regime di accentuazione delle
divergenze pre-esistenti, con il relativo corredo di imposizioni
austere, dense di disoccupazione permanente, di precariato e di
deflazione salariale, “cure” riservate in particolare ai Paesi
periferici (mediterranei), a vantaggio soprattutto delle oligarchie
finanziarie dei Paesi core
(del Centro).
Dal
caso greco in poi è del tutto evidente che il nazionalismo,
mascherato da europeismo, degli Stati core
finisce per produrre un'autodifesa nei periferici, i quali, se non si
avvalgono del pieno ripristino delle sovranità nazionali
democratiche cedute dai loro passati governi, rischiano di finire in
balia dei “sovranismi” nazionalistici interni, financo
neo-fascisti.
Anno
Domini 2017
Il
tempo guadagnato dalle politiche di Mario Draghi e della BCE, tramite
il Quantitative
Easing,
sta per scadere.
Un
qualificato commentatore esterno all'establishment
dell'Unione, l'ex governatore della Banca d'Inghilterra Marvyn King,
ci dice che l'alternativa all'uscita dall'euro significa per i Paesi
periferici un altro decennio di bassa crescita e di alta
disoccupazione. A meno che i leaders
politici
decidano una positiva combinazione delle quattro opzioni che hanno
davanti [vedi
riquadro “Le 4 opzioni di Mervyn”].
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Le 4 opzioni di Mervyn
In
un'intervista* a Stefano Feltri, Marvyn King, governatore della Banca
d'Inghilterra dal 2003 al 2013, oggi docente alla London School of
Economics ed alla New York University, parla dell'euro. Ne riporto
alcuni passaggi.
«(...)
Se un Paese lascerà l'euro non sarà piacevole, ma non sarà neppure
un disastro: va confrontato con l'alternativa. Un altro decennio di
bassa crescita e alta disoccupazione.»
Secondo
King i leader hanno davanti quattro opzioni su cui discutere e
decidere:**
«1)
continuare così con alta disoccupazione nei Paesi periferici in
eterno 2) accettare l'inflazione in Germania 3) Germania e Olanda
pagano per gli altri 4) rompere l'euro. Una combinazione di queste
opzioni è inevitabile, continuare come se niente fosse impossibile.»
A
proposito dei Paesi periferici afferma tra l'altro:
«(...)
L'unica cosa che permette ai Paesi periferici di continuare a
finanziarsi è avere bassa crescita e alta disoccupazione: importano
così poco che non c'è alcun deficit delle partite correnti da
finanziare. Ma se questi Paesi tornassero alla piena occupazione, si
troverebbero con un deficit commerciale crescente ma i mercati non
avrebbero alcun incentivo a finanziare chi si trova ad aver bisogno
costante di prestiti perché non può aggiustare il tasso di cambio
per compensare lo squilibrio.»
A
proposito della Germania:
«(...)
Il tasso di interesse reale per i tedeschi è troppo basso e questo
gonfia la loro competitività, generando enormi surplus commerciali.
Ma avranno uno choc quando dovranno prendere atto che nessuno può
ripagare loro i soldi investiti all'estero e svalutare questo
“attivo”. Primo o poi capiranno che non sono così ricchi come
credono. E il tasso di interesse reale dovrà salire, o perché
escono dall'euro, o perché arriva l'inflazione in Germania, o perché
un altro Paese diventa più competitivo. Nel lungo periodo, la loro
posizione è insostenibile.»
*Mervyn
King, intervistato da Stefano Feltri, “E' ora che i leader decidano
se riformare l'euro o romperlo”, Il Fatto Quotidiano, 6 aprile
2017.
**Trattate
nel suo recente libro “La fine dell'alchimia”, il Saggiatore.
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Giacché,
logicamente, la quarta opzione (rompere l'euro) esclude le altre, ci
si può chiedere: quanta inflazione è disposta ad accettare la
Germania? Quanto sono disposte a pagare “per gli altri” Germania
ed Olanda? Di quanto, conseguentemente, si ridurrebbe la
disoccupazione per divenire “sopportabile” dai Paesi più
penalizzati?
A
giudicare dalle dichiarazioni di alcune personalità tedesche ed
olandesi, tra le quali spiccano Wolfgang Schäuble (cristiano
democratico) e Jeroen Dijsselbloem (socialdemocratico), la speranza
di una felice ricomposizione è ridotta al lumicino.
Tuttavia,
in Italia c'è chi non vuole perderla, pur offrendo una lettura
disincantata di un insieme di “tecnicismi” che inducono ancor più
al pessimismo. Come vedremo più avanti.
Riformismo
radicale
In
un recente convegno delle Fondazioni “Lelio e Lisli Basso Issoco”
e “Friedrich Erbert”, l'economista matematico docente alla
Bocconi, Marcello Minenna,4
fresco dimissionario dalla giunta capitolina di Virginia Raggi,
propone di coordinare la politica monetaria e la politica fiscale.
Per quest'ultima:
«Ci
vuole una golden rule sul Fiscal Compact che tiri fuori gli
investimenti con moltiplicatore maggiore di uno dall'algebra
disgregatrice del Fiscal Compact.»
Detta
in altri termini, ci vorrebbe non tanto una deroga “una tantum” o
una maggiore “flessibilità di bilancio” strappata ai rigori
imposti da Bruxelles, quanto “tirar fuori” dal Fiscal
Compact5
in modo strutturale e si suppone permanente, tutti gli investimenti
pubblici nazionali capaci di fare da moltiplicatore, generando
domanda aggregata di stampo keynesiano.
Per
la politica monetaria è invocato un provvedimento di condivisione
dei rischi (risk-sharing),
tramite una speciale modalità di chiusura del Quantitative
Easing
della BCE, previsto entro il 2017.
«Il
Quantitative Easing va concluso con un nuovo tipo di tapering che
porti i titoli di Stato comprati dalle banche centrali nazionali nel
bilancio della BCE e li tenga lì per un po', per poi vedere cosa
farne. I prestiti delle Banche Centrali Nazionali verrebbero così
estinti, i bilanci dell'Eurosistema verrebbero “nettati” e il
saldo Target2 si normalizzerebbe di conseguenza.»
Il
rallentamento (tapering)
da parte della BCE del ritmo di acquisto di asset
sul mercato (Quantitative
Easing),
dovrebbe andare di pari passo con il passaggio in BCE dei titoli di
Stato comprati dalle singole banche centrali nazionali, portando alla
condivisione, appunto, dei rischi derivanti (risk-sharing).
Pertanto,
non essendo stata condivisa la emissione dei titoli di debito
pubblico (ricordate i tanto inutilmente invocati Eurobond?),
la condivisione interverrebbe “a posteriori” nel 2017.
In
tal modo la BCE imiterebbe la FED che, stando alle dichiarazioni
dell'allora suo Presidente (2012), Ben Bernanke, assunse i ruolo di
una bad
bank,
ossia di una banca di smaltimento dei crediti deteriorati, ritenuti o
inesigibili o di difficile esigibilità.
In
caso di NO
Così
conclude perentorio il professor Minenna:
«Il
2017 può quindi essere l'anno di un nuovo corso di politica
economica (…). L'alternativa è l'entrata in una tempesta perfetta
che avvierà la disgregazione dell'euro.»
Indubbiamente
l'accettazione delle proposte seppur propedeutiche di Minenna
comporterebbero un significativo cambio d'indirizzo politico, a cui
dare adeguato seguito. Ma, nel caso in cui un governo italiano le
facesse proprie, verrebbero accettate dalla Germania a dai suoi più
stretti alleati del Centro core?
Per
lo stesso Minenna, se i tedeschi dicono di no è meglio l'Italexit,
l'uscita italiana dall'euro.6
Traspare la preoccupazione che, con l'arrivo della “tempesta
perfetta”, il prezzo di un suo obbligato e tardivo abbandono possa
divenire carissimo.
In
occasione delle primarie del PD, Matteo Renzi ha dichiarato che il
Fiscal
Compact
non va recepito nei Trattati,7
come sarebbe previsto nell'anno in corso. Poiché l'attivazione in
Italia delle sue pesanti clausole di salvaguardia, per ragioni
elettorali, sono state rimandate al biennio 2018-2019, rimane da
chiarire in cosa questa presa di posizione si sostanzi.
Avvalendoci
dello stesso discorso di Minenna, esaminiamo i “tecnicismi” che
possono darci un'idea della posizione di Berlino, qualora un governo
italiano, magari con l'appoggio di altri governi, proponesse l'avvio
di una riforma radicale dell'eurosistema.
Ognun
per sé...
La
nazionalizzazione dei rischi è l'unica nazionalizzazione consentita
dall'Europa. Eppure anche qui il “sistema-Italia” trova il modo
di distinguersi.
Nell'autunno
del 2010, a Deauville, Angela Merkel e Nicolas Sarkozy stabilirono
che i rischi dei debiti pubblici andavano gestiti a livello nazionale
e non europeo. In seguito la cancelliera ribadì che pure i debiti
privati dovevano essere gestiti nazionalmente.
Il
famoso spread8
veniva così considerato “fisiologico” e non “patologico”,
come vorrebbe Minenna:
«Una
valuta che ha diversi costi del denaro non è una valuta realmente
condivisa; lo spread che certifica questa criticità viene
erroneamente trattato nel documento dei 5 Presidenti delle
Istituzioni europee come una fisiologia mentre dovrebbe essere
percepito e gestito come una patologia.»
Dal
2011 la BCE, usando il Securities
Market Programme
già in vigore, inizia a comprare i titoli di Stato degli Stati
periferici, in particolare di Italia e Spagna, incassando 10 miliardi
di rendimenti.
«(...)
questi miliardi sono stati distribuiti secondo capital
key
nei bilanci delle banche centrali nazionali. Quindi la Bundesbank,
avendo la quota maggiore in BCE, ha preso una quota di 2 miliardi di
euro.»
Risultato:
i tanto aborriti da Berlino “trasferimenti” verso le Periferie,
sono avvenuti all'incontrario, ovvero dalle Periferie al Centro. Si
può parlare di “incompiutezze architetturali dell'Eurozona”,
come sostiene Minenna, o, piuttosto, di una voluta “compiutezza”
atta a favorire in
primis
chi approfitta, nazionalisticamente, della propria posizione di
forza?
Ma
la chicca rivelatrice di quali siano le convenienze italiche a far
sopportare al nostro Paese un simile sistema di “trasferimenti al
contrario” arriva nelle righe successive:
«(...)
ci sono Stati come la Germania per cui i guadagni della Bundesbank
sono nelle disponibilità del Governo e Stati come l'Italia dove la
Banca centrale distribuisce il 70% dei suoi guadagni ai suoi soci
privati.»
Mentre
la Germania fa “squadra” nazionale, in Italia lo Stato paga gli
interessi sul debito e, tramite l'Eurosistema, i soci privati della
privatizzata Bankitalia incamerano una quota preponderante di quegli
interessi. Un bel “ristorno” di cassa!
Occorre
ulteriormente spiegare il motivo per cui, nonostante la Germania
approfitti di questa “tecnicalità” a spese del Sud mediterraneo,
permanga in Italia un così forte attaccamento all'euro ed alla
“indipendenza” di Bankitalia?
… e
l'euro per tutti
In
verità c'è stato un importante caso in cui la europeizzazione ha
prevalso sulla nazionalizzazione. Si tratta delle Long
Term Refinancing Operations
(LTRO), prestiti agevolati concessi dalla BCE per fronteggiare la
crisi dei sistemi bancari.
«Le
banche tedesche avevano finanziato la periferia d'Europa affinché
comprasse la manifattura prodotta in Germania. Nel momento in cui
questi prestiti avevano raggiunto una quota di 700 miliardi di euro,
(…) non si sapeva che fine avrebbe fatto l'Eurozona e quindi
servivano dei prestiti, gli LTRO appunto, per consentire di
ridimensionare l'esposizione delle banche teutoniche versi i Paesi
periferici.»
In
estrema sintesi il surplus
della bilancia commerciale tedesca, in prevalenza dovuto agli scambi
interni alla zona euro, veniva messo al sicuro da eventuali
inadempienze, tramite finanziamenti agevolati europei ai debitori
acquirenti (della periferia) affinché potessero certamente pagare i
loro creditori venditori (tedeschi). In gergo: vendor
financing.
In
aggiunta, gli LTRO hanno permesso alle banche delle periferie di
comprare i titoli degli Stati in cui risiedevano, proprio quando
quelle dei Paesi core
se ne stavano prudentemente liberando sul mercato.
Un
altro caso di europeizzazione ci viene dalle Collective
Action Clauses
(CAC), le clausole di azione collettiva che, all'interno dello
European
Stability Mechanism (ESM),
dal 2013 accompagnano l'emissione di titoli di Stato pluriennali.
In
forza delle CAC:
«(...)
de facto i titolari di un titolo di Stato, con una quota del 25% più
uno, possano bloccare il processo di ridenominazione di quel titolo
di Stato in una valuta differente dall'euro.»
In
tal modo accanto ad un debito pubblico ridenominabile in una nuova
valuta (magari la propria, qualora un Paese decidesse di
reintrodurla), si instaura via via un debito pubblico che potrebbe
non essere più ridenominabile, restando in euro für
ewig,
per sempre.
Visto
che Lars Feld, consigliere economico di Angela Merkel, vorrebbe
sostituire le CAC con le Credit
Partecipation Clauses
(CPC) per stabilire che il debito pubblico non potrà, in ogni caso,
essere ridenominato in altra valuta, l'intenzione di far pagare caro
ai Paesi periferici ogni loro autonoma scelta è palese.
A
conferma della situazione assai critica in cui versa l'Eurozona, che
invece di condividere i rischi li segrega per singoli Stati, nel 2014
è intervenuta la fissazione di nuovi standard internazionali per i
Credit
Default Swaps
(CDS), i derivati di credito che assicurano dalle inadempienze degli
Stati, ossia dalla loro eventuale incapacità di far fronte ai propri
debiti.
«In
questi nuovi standard viene prevista espressamente la copertura del
rischio di ridenominazione del debito pubblico.»
I
padroni del “libero mercato” finanziario sono assai previdenti e
non lasciano nulla al caso, anche se può sorgere il ragionevole
dubbio che, analogamente a quanto è accaduto nel più recente crollo
di Wall Street, i CDS, invece di isolare il virus, finiscano invece
per infettare l'intero sistema.
Presidii
Gli
utili del sistema euro, sia “nazionalizzando” che
“europeizzando”, vanno in un'unica direzione: le casse pubbliche
e private dei Paesi core,
e
di chi (privato), nelle Periferie, ne supporta il gioco. Questi
ultimi devolvono le prerogative di sovranità del proprio Paese,
mentre, al capo opposto, alcuni Stati praticano il nazionalismo di
supremazia.
Supporre
che tutto ciò avvenga a causa del ruolo delle pur invasive
“tecnostrutture” o della “Euroburocrazia”, significa
scambiare gli esecutori per i mandanti. Se
il costo dell'apparato installatosi a Bruxelles, unito alla
burocratica applicazione di mille minuziose regole, possono irritare
una pubblica opinione bersagliata da continui richiami a
comportamenti austeri, non bisogna farsi trarre in inganno.
L'apparato
cresce col crescere della montagna di documenti comunitari, di
sotto-patti ed istituti connessi ai Trattati, di clausole, programmi
e meccanismi di governance
delle
continue criticità affioranti, per i quali il numero degli addetti
alla loro interpretazione “autentica” e messa in esecuzione non è
mai sufficiente. Tuttavia, i gangli del potere dell'Unione, da cui la
nomenklatura
europea dipende, sono ben presidiati da politici degli Stati core,
tedeschi ed alleati più stretti.9
La
supremazia della Germania, capace di “fare squadra” nazionale tra
Stato e grandi imprese private, non è opera occasionale o
tecnocratica o burocratica, bensì squisitamente politica, ordinata
nei minuti dettagli.
Chi
aveva teorizzato l'estinzione dello Stato-nazione, tramite la
globalizzazione liberista di cui è parte integrante la costruzione
dell'Europa attuale, è smentito: la mela dell'Unione, in sé poco
“ecologica”, nasconde da anni nel sistema-euro il verme del
nazionalismo di supremazia.
In
un tempo nel quale lo Stato-nazione della superpotenza statunitense
si ripresenta bombardante sulla scena del mondo, sarà assai
difficile salvare la mela dal verme.
Note
1
Vedasi anche:
http://goofynomics.blogspot.it/2011/12/euro-una-catastrofe-annunciata.html
2
Vedasi Vladimiro Giacché,”Anschluss – L'annessione”,
Imprimatur, 2013.
3
Barbara Spinelli, “Il potere europeo che assedia i diritti e le
costituzioni”, Il Fatto Quotidiano, 9 aprile 2017.
4
Marcello Minenna, “è possibile una riforma radicale della
governance fiscale europea?”, Roma 14 marzo 2017. Tutte le
citazioni colorate in verde chiaro sono tratte da questo suo
discorso.
5
Patto di
bilancio europeo, formalmente “Trattato sulla stabilità”.
6
Marcello Minenna intervistato da Carlo di Foggia, “Via il Fiscal
compact o l'eurozona crolla”, Il Fatto Quotidiano, 22 marzo 2017.
7
Laura di Pillo, “Pd, scontro
su rinvio primarie. Renzi: se vinco veto a Fiscal compact nei
trattati”, IlSole24ore, 9 aprile 2017.
8
Differenza di rendimento tra Titoli di Stato a scadenza decennale di
un Paese europeo rispetto a quelli tedeschi.
9
A questo proposito vedasi Andrea Bonanni, “Commissione,
Parlamento, Consiglio: il potere europeo in mano alla Merkel”, La
Repubblica Affari & Finanza,13 febbraio 2017.
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