venerdì 21 aprile 2017

Il verme nella mela

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La moneta unica come via maestra all'unità politica. Cosa hanno evidenziato la riunificazione tedesca e l'allargamento ad Est. Funzione di programmi, clausole e meccanismi di governance dell'euro-sistema in un'area valutaria “non ottimale”. Il nazionalismo che si nasconde nell'europeismo.

È ricorrente l'affermazione che la rinascita delle monete nazionali sarebbe un ritorno ai vecchi e più deteriori nazionalismi, sicché si è indotti a pensare che l'euro vi faccia da argine.
A smentire questo assunto non ci sono solo le grandi contraddizioni congenite nella moneta unica.
Un breve viaggio tra i “tecnicismi” che governano il sistema euro, di cui vanno comprese le logiche portanti, aiuta a comprendere come vi si sia installato, da “dentro”, il nazionalismo più pericoloso, quello di supremazia.
1984: François Mitterrand e Helmut Kohl a Verdun

Itinerario post-Muro
Benché la teoria mainstream delle AVO (Aree Valutarie Ottimali) sconsigliasse fortemente l'introduzione di una moneta unica senza averne i requisiti, i principali Paesi europei hanno dato vita all'euro ed all'Eurozona, ponendola a rischio di andare in pezzi al primo shock importante.1
Essa, al momento, comprende 19 su 27 Paesi dell'UE, essendo il 28° (il Regno Unito) in uscita.
All'indomani della caduta del Muro di Berlino (1989), in cambio dell'assenso alla riunificazione tedesca, la Francia di Mitterrand chiese ed ottenne che la Germania rinunciasse al suo marco per dar vita ad una moneta europea. Si racconta che l'allora cancelliere Helmut Kohl, scettico sullo “strumento”, accettasse di malavoglia lo scambio, non potendo sottovalutare le ansie generate dalla risorgente potenza tedesca non solo tra i francesi.
In realtà il nazionalismo, anche nella sua versione più estrema nazifascista, non fu che una ideologia volta a reggere una lunga contesa per la supremazia globale tra blocchi colonialisti ed imperialisti. Ne nacquero, infatti, due conflitti mondiali al termine dei quali la Germania e l'Europa ne uscirono divise e non più prime protagoniste della scena internazionale.
In mancanza di una prevalente volontà di unione politica in uno Stato Federale Europeo, le élites dirigenti dei Paesi occidentali pensarono che procedere per via economica fosse la giusta soluzione, oltreché la più praticabile.
Dall'integrazione economica, cammin facendo, supponevano sarebbe scaturito un più solido intrecciarsi degli interessi ed una convergenza di sviluppo materiale tali da integrare gruppi dirigenti e Paesi, consentendo la graduale costruzione di istituzioni politiche sovranazionali, sino a sboccare in un vera e propria entità statale continentale.
Al centro di questo itinerario fu posta la moneta unica, sicché, dopo il decennio preparativo degli anni novanta, nacquero l'euro e l'Eurozona.
Nell'ideale europeo batteva un cuore monetario.
Annunci di fine secolo
Il primo grande segnale che una costruzione siffatta non avrebbe per niente scongiurato il risorgere dei nazionalismi, in particolare del nazionalismo di supremazia, venne dai modi in cui l'Europa comunitaria, da insieme di Stati occidentali, si estese ad Est.
Nel corso della sua riunificazione, la Germania sperimentò “al suo interno”, nell'accorpamento della DDR, i prodigiosi esiti derivanti dalla imposizione di una moneta unica a territori impreparati a sostenerla. I Länder orientali ne risultarono “meridionalizzati”, analogamente a quanto successe al nostro Meridione nella prima Italia sabauda. Tramite uno spregiudicato uso politico della moneta (il Deutsche Mark), fu distrutto o reso subalterno l'intero apparato produttivo della DDR, a totale vantaggio delle grandi imprese della parte occidentale. Esse ne divennero padrone, tramite privatizzazioni a loro beneficio esclusivo. Di fatto lo spazio concesso ai capitali non tedeschi fu residuale; ad una politica di convergenza tra aree diseguali venne preferita la immediata sottomissione delle regioni dell'Est a quelle dell'Ovest federale.
Pertanto, quella che a ragione venne definita una vera e propri annessione (Anschluß2), da parte delle istituzioni politiche della RFT e delle sue grandi imprese, evidenziò una propensione nazionalistica, senza concessioni di margini di autonomia, assai inquietante se viste in ottica federalista europea.
L'espansione ad Oriente, sino ai confini della neonata Federazione Russa, fu realizzata sotto copertura Nato ed appoggiando nazionalismi che, ibernati per decenni, riprendevano vita nel disfacimento dei regimi del “socialismo reale”. Nelle repubbliche baltiche i numerosi cittadini di origine e lingua russa venivano discriminati rispetto agli “autoctoni”, come poi accadde anche in Ucraina.
Nazionalismo e separatismo si incentivarono a vicenda. La Cecoslovacchia ne uscì divisa.
In ordine sparso, secondo proprio tornaconto egemonico, i singoli Stati-nazione occidentali fecero a gara nel praticare la politica dei riconoscimenti delle piccole patrie etnico-religiose, incoraggiando la disgregazione della Jugoslavia e sospingendola nel baratro del conflitto.
Non mancò, a suggello del ritorno della guerra in Europa ed in palese violazione della propria Costituzione, la partecipazione anche dell'Italia alla “guerra umanitaria” della Nato in Kosovo contro la Serbia.
Ora la falsa coscienza europeista occidentale si lamenta dei regimi nazionalistici e xenofobi che erigono muri e pongono ostacoli al progredire della integrazione europea, come se essi sorgessero dal nulla e non da una specifica e voluta “transizione”.
D'altronde, come afferma Barbara Spinelli:3
«(...) tutti i Paesi dell'Est sono entrati in Europa per riconquistare sovranità e sono estremamente restii a perderla di nuovo.»
Facile intravvedere a favore di chi.
Altrettanto facile capire i motivi sostanziali per i quali alcuni governi insistano nella prosecuzione ad oltranza della guerra fredda contro l'”orso russo”, colpendo pure, tramite le sanzioni euro-statunitensi emanate dopo la riannessione della Crimea, il business commerciale con Mosca.
Agli esordi del millennio
Già operante l'Europa di Maastricht (1992) e dell'euro (1999-2002) le élites dirigenti pensarono mature le condizioni per dare una Costituzione sovranazionale all'Unione. Usando ancora una volta uno “strumento improprio”, in questo caso un trattato internazionale per sormontare le sovranità costituzionali nazionali, fallirono: i referendum in Francia ed Olanda (2005), Paesi fondatori, cominciarono a mettere in evidenza un'opposizione popolare non semplicisticamente catalogabile nel nazionalismo ideologico. Altre motivazioni stavano emergendo: di ordine economico-sociale e di concreto esercizio della sovranità politica democratica, mancante nell'Europa degli esecutivi. Proruppero pochi anni dopo, a seguito del crac finanziario e della crisi economica, ossia di uno “shock importante”, proprio come contemplato dalla teoria economica delle AVO citata poc'anzi. L'appena varata moneta unica entrava già in piena crisi.
Al posto della promessa convergenza tra aree a diversi livelli di sviluppo, l'euro si palesava come regime di accentuazione delle divergenze pre-esistenti, con il relativo corredo di imposizioni austere, dense di disoccupazione permanente, di precariato e di deflazione salariale, “cure” riservate in particolare ai Paesi periferici (mediterranei), a vantaggio soprattutto delle oligarchie finanziarie dei Paesi core (del Centro).
Dal caso greco in poi è del tutto evidente che il nazionalismo, mascherato da europeismo, degli Stati core finisce per produrre un'autodifesa nei periferici, i quali, se non si avvalgono del pieno ripristino delle sovranità nazionali democratiche cedute dai loro passati governi, rischiano di finire in balia dei “sovranismi” nazionalistici interni, financo neo-fascisti.
Anno Domini 2017
Il tempo guadagnato dalle politiche di Mario Draghi e della BCE, tramite il Quantitative Easing, sta per scadere.
Un qualificato commentatore esterno all'establishment dell'Unione, l'ex governatore della Banca d'Inghilterra Marvyn King, ci dice che l'alternativa all'uscita dall'euro significa per i Paesi periferici un altro decennio di bassa crescita e di alta disoccupazione. A meno che i leaders politici decidano una positiva combinazione delle quattro opzioni che hanno davanti [vedi riquadro “Le 4 opzioni di Mervyn”].
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Le 4 opzioni di Mervyn


In un'intervista* a Stefano Feltri, Marvyn King, governatore della Banca d'Inghilterra dal 2003 al 2013, oggi docente alla London School of Economics ed alla New York University, parla dell'euro. Ne riporto alcuni passaggi.
«(...) Se un Paese lascerà l'euro non sarà piacevole, ma non sarà neppure un disastro: va confrontato con l'alternativa. Un altro decennio di bassa crescita e alta disoccupazione.»
Secondo King i leader hanno davanti quattro opzioni su cui discutere e decidere:**
«1) continuare così con alta disoccupazione nei Paesi periferici in eterno 2) accettare l'inflazione in Germania 3) Germania e Olanda pagano per gli altri 4) rompere l'euro. Una combinazione di queste opzioni è inevitabile, continuare come se niente fosse impossibile.»
A proposito dei Paesi periferici afferma tra l'altro:
«(...) L'unica cosa che permette ai Paesi periferici di continuare a finanziarsi è avere bassa crescita e alta disoccupazione: importano così poco che non c'è alcun deficit delle partite correnti da finanziare. Ma se questi Paesi tornassero alla piena occupazione, si troverebbero con un deficit commerciale crescente ma i mercati non avrebbero alcun incentivo a finanziare chi si trova ad aver bisogno costante di prestiti perché non può aggiustare il tasso di cambio per compensare lo squilibrio.»
A proposito della Germania:
«(...) Il tasso di interesse reale per i tedeschi è troppo basso e questo gonfia la loro competitività, generando enormi surplus commerciali. Ma avranno uno choc quando dovranno prendere atto che nessuno può ripagare loro i soldi investiti all'estero e svalutare questo “attivo”. Primo o poi capiranno che non sono così ricchi come credono. E il tasso di interesse reale dovrà salire, o perché escono dall'euro, o perché arriva l'inflazione in Germania, o perché un altro Paese diventa più competitivo. Nel lungo periodo, la loro posizione è insostenibile.»

*Mervyn King, intervistato da Stefano Feltri, “E' ora che i leader decidano se riformare l'euro o romperlo”, Il Fatto Quotidiano, 6 aprile 2017.
**Trattate nel suo recente libro “La fine dell'alchimia”, il Saggiatore.
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Giacché, logicamente, la quarta opzione (rompere l'euro) esclude le altre, ci si può chiedere: quanta inflazione è disposta ad accettare la Germania? Quanto sono disposte a pagare “per gli altri” Germania ed Olanda? Di quanto, conseguentemente, si ridurrebbe la disoccupazione per divenire “sopportabile” dai Paesi più penalizzati?
A giudicare dalle dichiarazioni di alcune personalità tedesche ed olandesi, tra le quali spiccano Wolfgang Schäuble (cristiano democratico) e Jeroen Dijsselbloem (socialdemocratico), la speranza di una felice ricomposizione è ridotta al lumicino.
Tuttavia, in Italia c'è chi non vuole perderla, pur offrendo una lettura disincantata di un insieme di “tecnicismi” che inducono ancor più al pessimismo. Come vedremo più avanti.
Riformismo radicale
In un recente convegno delle Fondazioni “Lelio e Lisli Basso Issoco” e “Friedrich Erbert”, l'economista matematico docente alla Bocconi, Marcello Minenna,4 fresco dimissionario dalla giunta capitolina di Virginia Raggi, propone di coordinare la politica monetaria e la politica fiscale. Per quest'ultima:
«Ci vuole una golden rule sul Fiscal Compact che tiri fuori gli investimenti con moltiplicatore maggiore di uno dall'algebra disgregatrice del Fiscal Compact.»
Detta in altri termini, ci vorrebbe non tanto una deroga “una tantum” o una maggiore “flessibilità di bilancio” strappata ai rigori imposti da Bruxelles, quanto “tirar fuori” dal Fiscal Compact5 in modo strutturale e si suppone permanente, tutti gli investimenti pubblici nazionali capaci di fare da moltiplicatore, generando domanda aggregata di stampo keynesiano.
Per la politica monetaria è invocato un provvedimento di condivisione dei rischi (risk-sharing), tramite una speciale modalità di chiusura del Quantitative Easing della BCE, previsto entro il 2017.
«Il Quantitative Easing va concluso con un nuovo tipo di tapering che porti i titoli di Stato comprati dalle banche centrali nazionali nel bilancio della BCE e li tenga lì per un po', per poi vedere cosa farne. I prestiti delle Banche Centrali Nazionali verrebbero così estinti, i bilanci dell'Eurosistema verrebbero “nettati” e il saldo Target2 si normalizzerebbe di conseguenza.»
Il rallentamento (tapering) da parte della BCE del ritmo di acquisto di asset sul mercato (Quantitative Easing), dovrebbe andare di pari passo con il passaggio in BCE dei titoli di Stato comprati dalle singole banche centrali nazionali, portando alla condivisione, appunto, dei rischi derivanti (risk-sharing).
Pertanto, non essendo stata condivisa la emissione dei titoli di debito pubblico (ricordate i tanto inutilmente invocati Eurobond?), la condivisione interverrebbe “a posteriori” nel 2017.
In tal modo la BCE imiterebbe la FED che, stando alle dichiarazioni dell'allora suo Presidente (2012), Ben Bernanke, assunse i ruolo di una bad bank, ossia di una banca di smaltimento dei crediti deteriorati, ritenuti o inesigibili o di difficile esigibilità.
In caso di NO
Così conclude perentorio il professor Minenna:
«Il 2017 può quindi essere l'anno di un nuovo corso di politica economica (…). L'alternativa è l'entrata in una tempesta perfetta che avvierà la disgregazione dell'euro.»
Indubbiamente l'accettazione delle proposte seppur propedeutiche di Minenna comporterebbero un significativo cambio d'indirizzo politico, a cui dare adeguato seguito. Ma, nel caso in cui un governo italiano le facesse proprie, verrebbero accettate dalla Germania a dai suoi più stretti alleati del Centro core?
Per lo stesso Minenna, se i tedeschi dicono di no è meglio l'Italexit, l'uscita italiana dall'euro.6 Traspare la preoccupazione che, con l'arrivo della “tempesta perfetta”, il prezzo di un suo obbligato e tardivo abbandono possa divenire carissimo.
In occasione delle primarie del PD, Matteo Renzi ha dichiarato che il Fiscal Compact non va recepito nei Trattati,7 come sarebbe previsto nell'anno in corso. Poiché l'attivazione in Italia delle sue pesanti clausole di salvaguardia, per ragioni elettorali, sono state rimandate al biennio 2018-2019, rimane da chiarire in cosa questa presa di posizione si sostanzi.
Avvalendoci dello stesso discorso di Minenna, esaminiamo i “tecnicismi” che possono darci un'idea della posizione di Berlino, qualora un governo italiano, magari con l'appoggio di altri governi, proponesse l'avvio di una riforma radicale dell'eurosistema.
Ognun per sé...
La nazionalizzazione dei rischi è l'unica nazionalizzazione consentita dall'Europa. Eppure anche qui il “sistema-Italia” trova il modo di distinguersi.
Nell'autunno del 2010, a Deauville, Angela Merkel e Nicolas Sarkozy stabilirono che i rischi dei debiti pubblici andavano gestiti a livello nazionale e non europeo. In seguito la cancelliera ribadì che pure i debiti privati dovevano essere gestiti nazionalmente.
Il famoso spread8 veniva così considerato “fisiologico” e non “patologico”, come vorrebbe Minenna:
«Una valuta che ha diversi costi del denaro non è una valuta realmente condivisa; lo spread che certifica questa criticità viene erroneamente trattato nel documento dei 5 Presidenti delle Istituzioni europee come una fisiologia mentre dovrebbe essere percepito e gestito come una patologia.»
Dal 2011 la BCE, usando il Securities Market Programme già in vigore, inizia a comprare i titoli di Stato degli Stati periferici, in particolare di Italia e Spagna, incassando 10 miliardi di rendimenti.
«(...) questi miliardi sono stati distribuiti secondo capital key nei bilanci delle banche centrali nazionali. Quindi la Bundesbank, avendo la quota maggiore in BCE, ha preso una quota di 2 miliardi di euro.»
Risultato: i tanto aborriti da Berlino “trasferimenti” verso le Periferie, sono avvenuti all'incontrario, ovvero dalle Periferie al Centro. Si può parlare di “incompiutezze architetturali dell'Eurozona”, come sostiene Minenna, o, piuttosto, di una voluta “compiutezza” atta a favorire in primis chi approfitta, nazionalisticamente, della propria posizione di forza?
Ma la chicca rivelatrice di quali siano le convenienze italiche a far sopportare al nostro Paese un simile sistema di “trasferimenti al contrario” arriva nelle righe successive:
«(...) ci sono Stati come la Germania per cui i guadagni della Bundesbank sono nelle disponibilità del Governo e Stati come l'Italia dove la Banca centrale distribuisce il 70% dei suoi guadagni ai suoi soci privati.»
Mentre la Germania fa “squadra” nazionale, in Italia lo Stato paga gli interessi sul debito e, tramite l'Eurosistema, i soci privati della privatizzata Bankitalia incamerano una quota preponderante di quegli interessi. Un bel “ristorno” di cassa!
Occorre ulteriormente spiegare il motivo per cui, nonostante la Germania approfitti di questa “tecnicalità” a spese del Sud mediterraneo, permanga in Italia un così forte attaccamento all'euro ed alla “indipendenza” di Bankitalia?

e l'euro per tutti
In verità c'è stato un importante caso in cui la europeizzazione ha prevalso sulla nazionalizzazione. Si tratta delle Long Term Refinancing Operations (LTRO), prestiti agevolati concessi dalla BCE per fronteggiare la crisi dei sistemi bancari.
«Le banche tedesche avevano finanziato la periferia d'Europa affinché comprasse la manifattura prodotta in Germania. Nel momento in cui questi prestiti avevano raggiunto una quota di 700 miliardi di euro, (…) non si sapeva che fine avrebbe fatto l'Eurozona e quindi servivano dei prestiti, gli LTRO appunto, per consentire di ridimensionare l'esposizione delle banche teutoniche versi i Paesi periferici.»
In estrema sintesi il surplus della bilancia commerciale tedesca, in prevalenza dovuto agli scambi interni alla zona euro, veniva messo al sicuro da eventuali inadempienze, tramite finanziamenti agevolati europei ai debitori acquirenti (della periferia) affinché potessero certamente pagare i loro creditori venditori (tedeschi). In gergo: vendor financing.
In aggiunta, gli LTRO hanno permesso alle banche delle periferie di comprare i titoli degli Stati in cui risiedevano, proprio quando quelle dei Paesi core se ne stavano prudentemente liberando sul mercato.
Un altro caso di europeizzazione ci viene dalle Collective Action Clauses (CAC), le clausole di azione collettiva che, all'interno dello European Stability Mechanism (ESM), dal 2013 accompagnano l'emissione di titoli di Stato pluriennali.
In forza delle CAC:
«(...) de facto i titolari di un titolo di Stato, con una quota del 25% più uno, possano bloccare il processo di ridenominazione di quel titolo di Stato in una valuta differente dall'euro.»
In tal modo accanto ad un debito pubblico ridenominabile in una nuova valuta (magari la propria, qualora un Paese decidesse di reintrodurla), si instaura via via un debito pubblico che potrebbe non essere più ridenominabile, restando in euro für ewig, per sempre.
Visto che Lars Feld, consigliere economico di Angela Merkel, vorrebbe sostituire le CAC con le Credit Partecipation Clauses (CPC) per stabilire che il debito pubblico non potrà, in ogni caso, essere ridenominato in altra valuta, l'intenzione di far pagare caro ai Paesi periferici ogni loro autonoma scelta è palese.
A conferma della situazione assai critica in cui versa l'Eurozona, che invece di condividere i rischi li segrega per singoli Stati, nel 2014 è intervenuta la fissazione di nuovi standard internazionali per i Credit Default Swaps (CDS), i derivati di credito che assicurano dalle inadempienze degli Stati, ossia dalla loro eventuale incapacità di far fronte ai propri debiti.
«In questi nuovi standard viene prevista espressamente la copertura del rischio di ridenominazione del debito pubblico.»
I padroni del “libero mercato” finanziario sono assai previdenti e non lasciano nulla al caso, anche se può sorgere il ragionevole dubbio che, analogamente a quanto è accaduto nel più recente crollo di Wall Street, i CDS, invece di isolare il virus, finiscano invece per infettare l'intero sistema.

Presidii
Gli utili del sistema euro, sia “nazionalizzando” che “europeizzando”, vanno in un'unica direzione: le casse pubbliche e private dei Paesi core, e di chi (privato), nelle Periferie, ne supporta il gioco. Questi ultimi devolvono le prerogative di sovranità del proprio Paese, mentre, al capo opposto, alcuni Stati praticano il nazionalismo di supremazia.
Supporre che tutto ciò avvenga a causa del ruolo delle pur invasive “tecnostrutture” o della “Euroburocrazia”, significa scambiare gli esecutori per i mandanti. Se il costo dell'apparato installatosi a Bruxelles, unito alla burocratica applicazione di mille minuziose regole, possono irritare una pubblica opinione bersagliata da continui richiami a comportamenti austeri, non bisogna farsi trarre in inganno. L'apparato cresce col crescere della montagna di documenti comunitari, di sotto-patti ed istituti connessi ai Trattati, di clausole, programmi e meccanismi di governance delle continue criticità affioranti, per i quali il numero degli addetti alla loro interpretazione “autentica” e messa in esecuzione non è mai sufficiente. Tuttavia, i gangli del potere dell'Unione, da cui la nomenklatura europea dipende, sono ben presidiati da politici degli Stati core, tedeschi ed alleati più stretti.9
La supremazia della Germania, capace di “fare squadra” nazionale tra Stato e grandi imprese private, non è opera occasionale o tecnocratica o burocratica, bensì squisitamente politica, ordinata nei minuti dettagli.
Chi aveva teorizzato l'estinzione dello Stato-nazione, tramite la globalizzazione liberista di cui è parte integrante la costruzione dell'Europa attuale, è smentito: la mela dell'Unione, in sé poco “ecologica”, nasconde da anni nel sistema-euro il verme del nazionalismo di supremazia.
In un tempo nel quale lo Stato-nazione della superpotenza statunitense si ripresenta bombardante sulla scena del mondo, sarà assai difficile salvare la mela dal verme.
Note
1 Vedasi anche: http://goofynomics.blogspot.it/2011/12/euro-una-catastrofe-annunciata.html
2 Vedasi Vladimiro Giacché,”Anschluss – L'annessione”, Imprimatur, 2013.
3 Barbara Spinelli, “Il potere europeo che assedia i diritti e le costituzioni”, Il Fatto Quotidiano, 9 aprile 2017.
4 Marcello Minenna, “è possibile una riforma radicale della governance fiscale europea?”, Roma 14 marzo 2017. Tutte le citazioni colorate in verde chiaro sono tratte da questo suo discorso.
5 Patto di bilancio europeo, formalmente “Trattato sulla stabilità”.
6 Marcello Minenna intervistato da Carlo di Foggia, “Via il Fiscal compact o l'eurozona crolla”, Il Fatto Quotidiano, 22 marzo 2017.
7 Laura di Pillo, “Pd, scontro su rinvio primarie. Renzi: se vinco veto a Fiscal compact nei trattati”, IlSole24ore, 9 aprile 2017.
8 Differenza di rendimento tra Titoli di Stato a scadenza decennale di un Paese europeo rispetto a quelli tedeschi.
9 A questo proposito vedasi Andrea Bonanni, “Commissione, Parlamento, Consiglio: il potere europeo in mano alla Merkel”, La Repubblica Affari & Finanza,13 febbraio 2017.

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