FAKE HISTORY
e perché viene raccontata
La
fake
history è storia fasulla,
somministrata spesso a piccole e disciolte dosi, tra le righe dei
commenti, magari associando immagini ad eventi o/e invertendo
l'ordine cronologico dei fatti.
Nel
propinarcela alla chetichella il mainstream
mediatico sottace implicite teorie, le cui verità vengono
ostinatamente date per scontate, a dispetto delle verifiche a cui la
storia le ha sottoposte.
Immagine dell'iperinflazione tedesca spesso associata all'ascesa al potere di Hitler |
Insospettate
radici
Comincio dalla tesi più
nota e ripetutamente smentita, in modo argomentato, sul Web:
inflazione e svalutazione generarono il malcontento sociale su cui
fecero leva fascismo e nazismo per prendere il potere.
È sostenuta dai gruppi
dirigenti tedeschi attuali.1
Essi, con riferimento all'iperinflazione della Repubblica di Weimar,
la usano in particolare per resistere a qualsiasi misura di rilancio
pubblico dell'economia comunitaria che implichi inflazione nella zona
euro, insomma a misure di stampo keynesiano.
Siccome qui
importa non tanto il dibattito sulle teorie economiche quanto i
riscontri storici effettivi di quelle teorie, mi limito su queste
ultime ad offrire spunti di riferimento [vedi
il riquadro “L'implicito teorico”, in pagina],
ricordando che la radice dell'atteggiamento tedesco sul rapporto tra
inflazione-svalutazione e nazifascismo risale al neoliberismo europeo
ed alla scuola ordoliberista nata negli anni trenta.
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L'implicito
teorico
Lo
spauracchio dell'inflazione viene agitato sulla base di un implicito
teorico, dato per generalmente valido: la “teoria quantitativa
della moneta.” Secondo questa teoria, elaborata nel 1911
dall'economista americano Irving Fisher e perfezionata nel trascorso
secolo, “i prezzi generali dei beni sono direttamente proporzionali
(se cresce l'uno, cresce l'altra e viceversa) alla quantità di
moneta in circolazione nel dato momento.”*
Per
gli “appassionati” annoto che, accanto a questo caposaldo
monetario, la restaurata visione economica liberista (siamo alla
seconda storica riedizione dell'economia classica) si alimenta di
altre collegate teorie. Più volte rielaborate pure in forme
matematiche assai sofisticate, si rifanno essenzialmente alla “legge
degli sbocchi” dell'economista francese J. B. Say (1767-1832) e
alla teoria dei “vantaggi comparati”, la cui prima formulazione
risale a David Ricardo (1722-1832).
In
breve, per questa visione liberista bisognerebbe:
- evitare ogni “artificiosa” immissione di moneta non giustificata sul piano strettamente “tecnico”, per non falsare l'andamento dei prezzi interni (inflazione) ed internazionali (svalutazione);
- lasciar fare (laissez-faire) al libero mercato concorrenziale, oggi globale, il quale, non sviato da falsate informazioni sui prezzi, provvederà “naturalmente” ad allocare nel modo più efficiente le risorse, ad investire secondo sana convenienza d'impresa, generando l'offerta. Ciò innescherà alfine un circuito allargato di ripresa benefico per tutti, disoccupati compresi.
Su
quel “alfine” ebbe modo di ironizzare J. M. Keynes, quando
affermò che nel lungo termine saremo tutti morti. E poco importa se
il mondo reale sia stato e sia tutt'altro rispetto a quello
teorizzato dal liberismo. Peggio per il mondo (dei disoccupati).
Infatti,
giusto per fare un esempio a noi vicino, la Bce è stata dichiarata
“indipendente” dal controllo politico democratico e vincolata al
tabù antinflazionistico: tra i suoi scopi statutari annovera la
difesa della stabilità della moneta, ma non la salvaguardia
dell'occupazione...
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La
qual cosa rivestirebbe minore importanza se, come è accaduto poi,
l'ordoliberismo (in tedesco Ordoliberalismus)
non avesse profondamente influenzato la pratica costruzione
dell'Unione europea.2
Non per nulla il liberalismo italiano più impegnato a sostenere una
certa idea d'Europa nutrì un forte legame con l'ordoliberismo.
Proprio negli scritti di uno di loro, Luigi Einaudi, ritroviamo una
tesi analoga a quella dei dirigenti tedeschi:
«La
svalutazione della lira italiana e del marco tedesco, che rovinò le
classi medie e rese malcontente le classi operaie fu una delle cause
da cui nacquero le bande di facinorosi che diedero il potere ai
dittatori.»3
Per
l'ordoliberismo inflazione e svalutazione sono mali che si
manifestano di pari passo. Anche in mutate condizioni rispetto alla
Germania dei decenni venti e trenta. È ricorrente l'dea, altro
esempio d'attualità, che una svalutazione della lira, conseguente ad
una eventuale uscita dall'euro, provocherebbe in automatico una
disastrosa inflazione interna. Anche se proprio la recente rilevante
svalutazione dell'euro rispetto al dollaro4
non abbia provocato affatto una corrispondente inflazione
nell'eurozona.
Passiamo
alla verifica storica di quanto sostenuto dai gruppi dirigenti
tedeschi e dal liberale Einaudi.
Cronologie
sovvertite
Hitler
diventa cancelliere il 30 gennaio del 1933. La disoccupazione
è salita al 20% e riguarda 6 milioni di lavoratori; la malnutrizione
è diffusa. Le difficilissime condizioni economiche e sociali della
Germania, ereditate dalla guerra persa, sono ulteriormente peggiorate
dopo il crollo di Wall Street del 1929, a cui segue una grande
depressione resa più acuta da politiche di austerità.
Sono
oramai trascorsi dieci anni dalla grande inflazione che raggiunse il
suo apice nel 1923. L'inflazione interna era effettivamente andata a
braccetto con la svalutazione del marco rispetto alle altre
principali valute mondiali [vedi
tabella “Germania, 1923: svalutazione ed inflazione”, in
pagina].
Germania, 1923: svalutazione ed inflazionehttp://www.viaggio-in-germania.de/inflazione-1923.html |
Tuttavia,
già nel 1924 la Germania era ritornata al gold
standard5
ed
il rigore depressivo coincise con il ripristino di gran parte delle
regole liberiste a fondamento della globalizzazione finanziarizzata
della belle
époque, andate
forzatamente sospese per lo scoppio del conflitto mondiale.
Pertanto,
nei primi anni trenta tutto il mondo occidentale, non solo la
Germania, è afflitto dalla deflazione. Il malcontento su cui fa leva
il nazismo per affermarsi al potere è generato dalla disoccupazione
e dai persistenti vincoli esterni, imposti alla Germania dai
vincitori. Appare stupefacente l'andamento della disoccupazione in
rapporto al voto dato al nazismo [vedi
grafico “Disoccupazione tedesca e voto al nazismo”, in pagina],
che si affermò collegando la “questione occupazionale” alla
frustrazione nazionale indotta dalle condizioni dettate dalla pace di
Versailles.
Disoccupazione tedesca e voto al nazismoFonte: SG Cross Asset Research, GFD |
Non a
caso J. M. Keynes, che aveva esordito con la pubblicazione di un
pamphlet6
contro i risarcimenti sanciti nel Trattato di Versailles, a
conclusione dei colloqui di pace ai quali aveva direttamente
partecipato come membro della delegazione britannica, approfondì la
propria critica all'economia classica proprio in quel periodo.
Nel
1933, appena insediatosi a capo del governo tedesco, Adolf Hitler
affida il ministero delle finanze a Hjalmar Schacht, architetto della
riforma MeFo. Schacht crea una compagnia statale, la
Metallurgische Forschungsgesellschft m.b.H (MeFo), una
scatola vuota con un solo azionista: la Banca Centrale del Reich. La
MeFo emette obbligazioni, svincolate dal bilancio pubblico e
dal suo debito, per finanziare la ripresa economica ed il riarmo
tedeschi.
Tra
il 1933 ed il 1936 consegue straordinari risultati, in termini di
uscita dalla deflazione e di ripresa dell'occupazione. Così
ne scrisse
J. M Keynes:
«L'accorgimento
consisteva nel risolvere il problema eliminando l'uso della moneta
con valore internazionale e sostituendola con qualcosa che risultava
un baratto, non però fra individui, bensì fra diverse unità
economiche. In tal modo riuscì a tornare al carattere essenziale e
allo scopo originario del commercio, sopprimendo l'apparato che
avrebbe dovuto facilitarlo, ma che di fatto lo stava strangolando.»7
Fu un
modo per sottrarsi ai vincoli del Trattato di Versailles e, al
contempo, evitare l'iperinflazione e la svalutazione, rimettere in
moto il mercato interno a vantaggio esclusivo delle imprese
nazionali.
La
base politica consistette nella ripresa della sovranità monetaria
della Germania, attraverso una “moneta impropria” di baratto
interno.
J. M.
Keynes considerò la riforma MeFo un “vantaggio tecnico”
offerto “al servizio di una buona causa”, che non fosse il riarmo
nazista. Va tuttavia rilevato che l'avversione del liberalismo
all'interventismo dello Stato in economia non si è mai esteso alla
spesa pubblica in armi: basti ricordare il “keynesismo bellico”
del liberalizzatore Ronald Reagan e l'enorme spesa bellica degli
Stati Uniti negli ultimi trent'anni di liberoscambismo e
globalizzazione finanziaria.
Ventennio
fascista double-face
Dal
'22, per quasi dieci anni Mussolini continuò a perseguire politiche
liberiste, di deflazione salariale e si incaponì sulla “quota
novanta”.8
Solo tardivamente prese atto del nuovo quadro economico planetario.
Non
fu senza ragione che i liberali, salvo rare eccezioni per lo più
pagate col sangue, negli anni venti o si fecero neutrali o diedero
sostanziale appoggio al fascismo. Vi videro un'accettabile uso della
violenza per sottomettere il movimento operaio e ripristinare la
minacciata libertà del mercato ed in particolare della proprietà
privata, beni primari rispetto alla stessa democrazia della
rappresentanza.
Piuttosto
numerosi furono i liberali che aderirono al listone nazionale
fascista, allestito da Mussolini per il voto del 1924, indette dopo
l'approvazione della legge elettorale Acerbo.
Il
filosofo liberale Benedetto Croce votò a favore del governo
Mussolini anche dopo il delitto Matteotti. Motivò il proprio
condizionato benestare al fascismo in una intervista rilasciata il 9
luglio a “Il Giornale d'Italia”:
Benedetto Croce |
«Voi
sapete che ho sempre sostenuto che il movimento fascistico fosse
sterile di nuove istituzioni, incapace di plasmare, come i suoi
pubblicisti vantavano, un nuovo tipo di Stato. Perciò esso non
poteva, e non doveva essere altro, a mio parere, che un poste di
passaggio per la restaurazione di un più severo regime liberale, nel
quadro di uno Stato più forte. Doveva rinunciare a inaugurare una
nuova epoca storica, conforme ai suoi vanti, ma poteva ben
soddisfarsi della non piccola gloria di ridare tono e vigore alla
vita politica italiana, cogliendo, per merito dei già combattenti,
il miglior frutto della guerra.»
In
buona sostanza, il fascismo andava bene sin quando si fosse attenuto
al programma liberale classico, limitandosi a compiti repressivi nel
rafforzamento dello Stato ed a cogliere il “miglior frutto della
guerra”.
Sulla
stessa scia si mosse anche il giovane Luigi Einaudi, il quale nel
1922 accoglieva il fascismo in quanto portatore del programma
liberale classico e fautore, con i “mezzi adatti a raggiungere lo
scopo”, della “grandezza materiale e spirituale della patria.”9
Una
bella sintesi di liberal-nazionalismo, disposto ad un “transitorio”
fascismo pur di realizzarsi.
Come
abbiamo visto, il più maturo Einaudi dimenticò quanto, ancor
giovane, aveva sostenuto di fronte alle imprese dello squadrismo
mussoliniano.
Luigi Einaudi |
Ma
furono le “bande di facinorosi”, ovvero gli squadristi della
marcia su Roma, a dare “il potere ai dittatori”? O, piuttosto, le
“classi dirigenti” del tempo, tra cui i maggiori esponenti del
liberalismo nazionale?
Che dire poi di come
andarono le cose in Germania, allorché fu conferita una maggioranza
parlamentare al primo cancellierato di Hitler (gennaio 1933), dopo
che nelle elezioni federali del
193210
aveva ottenuto il 33,10 % dei voti?
Globalizzazione
pacifista
Se il
falso storico sull'inflazione tedesca viatico del nazismo è stato
abbastanza e diffusamente smentito, ora è la volta di altre
“disinvolte” affermazioni del mainstream, ripetute come
scontate verità.
Si
sostiene che la costruzione dell'Europa abbia garantito la pace,
cancellando dalla storia le guerre nella ex-Jugoslavia e quella
ancora in atto in Ucraina. Per non parlare di quelle esterne, in
partnership con gli Stati Uniti. Vere e proprie “rimozioni
dalla memoria collettiva” di fatti che “disturbano” l'immagine
ostentata. A ruota si sostiene che l'attuale globalizzazione, di cui
la costruzione europea è parte integrante, non sia priva di qualche
correggibile difetto, ma ciò nonostante rappresenti pur sempre
l'unico sicuro baluardo contro la guerra.
Sull'intreccio
tra commercio internazionale, globalizzazione contemporanea,
armamenti e guerra non ritorno.11
Mi pare invece indispensabile qualche ulteriore accenno al nesso tra
globalizzazione della belle époque e prima guerra mondiale.
Non è
necessario condividere la visione vichiana dei “ricorsi storici”
per trovare forti analogie tra i fenomeni prodotti dalla
globalizzazione del periodo 1870-1913 e quelli attualmente in atto.
Né dal loro riproporsi si può essere indotti, evitando l'analisi
concreta della situazione concreta odierna, ad automatiche
conclusioni sul nostro futuro prossimo.
Partiamo
da un dato di fatto storico: la globalizzazione della belle
époque sfociò
direttamente nel primo conflitto mondiale. Nel periodo non mancarono
ventate protezionistiche e guerre commerciali, da reputarsi
fisiologiche nel processo.
Col
primo conflitto si avviò una lunga guerra mondiale durata tre
decenni, poi conclusasi con il secondo conflitto. Si trattò di uno
scontro tra due blocchi colonialisti ed imperialisti rivali per il
dominio sul globo, benché ammantato di sentimenti patriottici ed in
Italia inizialmente fatto passare come compimento del Risorgimento e
dell'unità nazionale.
Il
conflitto combattuto tra il 1939 ed il 1945 fu il tentativo, più
esteso, di rivincita sulla sconfitta patita dalla Germania nel
'14-'18. Il fascismo italiano recriminò a lungo sulla “vittoria
mutilata” dalla pace di Versailles e sul “posto al sole” negato
all'Italia dalle potenze coloniali concorrenti, ragione per la quale
essa si trovò alleata col revanscismo nazista tedesco.
A
partire da Versailles le potenze vincitrici cercarono di restaurare
l'insieme dei rapporti economici, finanziari e monetari (compreso il
gold standard) internazionali compromesso dalla guerra che
tali rapporti avevano generato. Nel ricorso alle armi, i governi
dovettero poggiare sull'intervento dello Stato in economia (con
grande beneficio per gli industriali, grandi liberali del tempo), ma
fu interpretato come un “forzato frangente” che non mise in
discussione i capisaldi del laissez-faire economico-sociale
e della internazionalizzazione, sottoposti entrambi
all'aspra critica di J. M. Keynes.
Prova
ne sia che quella globalizzazione entrò definitivamente in crisi
solo dopo il successivo crack finanziario del 1929, che
ebbe effetti tanto più vasti in quanto era stata pervicacemente
ripresa. Dopodiché, a seguito della grande depressione, dal 1933 si
affermò il New Deal rooseveltiano in parallelo con la riforma
MeFo del ministro tedesco Hjalmar Schacht.
Perché
insistono
Malgrado
una pur approssimativa ricostruzione storica non possa prescindere
dalla cronologia degli eventi, i nostri propagatori di fake
history
la sovvertono. In tal modo l'iperinflazione tedesca e non la
dilagante disoccupazione diventano la leva di malcontento su cui il
nazismo poggiò per affermarsi.
Per
disgiungere il liberismo dal nazionalismo cancellano la specifica
storia del primo decennio liberista del fascismo italiano, condiviso
dai maggiori esponenti liberali del tempo in nome della Patria.
Per
non ammettere l'intima dinamica connessione tra liberismo,
globalizzazione liberoscambista e guerra, asseriscono che l'abbandono
della globalizzazione della belle époque precedette e
permise lo scatenamento della guerra del '14-'18, “dimenticando”
pure la sua riproposizione post-bellica, che portò al crollo
finanziario del '29, evento decisivo nel creare le condizioni per il
successivo secondo conflitto mondiale.
Per
accreditare una costruzione europea “garanzia di pace” cancellano
le guerre indotte in Europa e quelle a cui hanno partecipato e
partecipano gli Stati europei fuori dall'Europa.
Il
loro scopo è avvalorare un inesistente antagonismo: quello tra un
liberalismo globalizzatore che aprirebbe alla pace ed un nazionalismo
protezionistico che chiude, spianando la via alla guerra.
Senonché
gli Stati Uniti si scoprono liberal-nazionalisti, avendo praticato da
tempo il riarmo da superpotenza unica, il protezionismo doganale ed
anche dato inizio alla costruzione del muro anti-immigrati al confine
messicano che Trump vuole completare.
Fake
history: dominare il racconto storico per continuare a dominare
più facilmente il presente politico.
Note
1
Vedi anche Edoardo Ferrazzani:
2
Per una comprensione del legame tra ordoliberismo e costruzione
dell'Ue, vedasi Luciano Barra Caracciolo, “La Costituzione nella
palude”, Imprimatur, 2015.
3
L. Einaudi, “La guerra e l'unità europea”, Edizioni di
Comunità, 1950, pagg. 81-82.
4
Considerato da Washington una manipolazione dei cambi ed un iniquo
vantaggio commerciale per la Germania.
5
Regime monetario internazionale basato sulla convertibilità in
prefissate quantità di oro delle monete nazionali.
6
John Maynard Keynes, “Le conseguenze economiche della pace”,
Adelphi, 2007 (1919).
7
J. M. Keynes, “Il problema degli squilibri finanziari globali. La
politica valutaria del dopoguerra” (8 settembre 1941), in Id.,
Eutopia, a cura di L. Fantacci, et. al. Edizioni, 2011, pagg. 43-55.
Su questo argomento, vedasi il Post: “Storia recente che parla al
presente – ottobre 2014”.
8
Politica
fascista di tenere il cambio di 90 lire per una sterlina, da cui
"quota novanta", insistendo oltre l'abbandono del gold
standard da
parte del governo inglese.
9
Vedi Paolo Mieli, “Liberalismo all'italiana: l'alternanza
impossibile – Perché Einaudi e Croce all'inizio difesero
Mussolini”, in
http:/www.corriere.it/cultura/libri/11_novembre_29/salvadori-liberalismo-italiano_39037088-1a73-11e1-a0da-00d265bd2fc6.shtml
10
Da non confondere con le elezioni del marzo 1933.
11
In questo Blog:”Globalizzazione addio?”, marzo 2017.
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