sabato 25 marzo 2017

Fake history

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FAKE HISTORY

e perché viene raccontata

La fake history è storia fasulla, somministrata spesso a piccole e disciolte dosi, tra le righe dei commenti, magari associando immagini ad eventi o/e invertendo l'ordine cronologico dei fatti.
Nel propinarcela alla chetichella il mainstream mediatico sottace implicite teorie, le cui verità vengono ostinatamente date per scontate, a dispetto delle verifiche a cui la storia le ha sottoposte.
Immagine dell'iperinflazione tedesca spesso
associata all'ascesa al potere di Hitler
Insospettate radici
Comincio dalla tesi più nota e ripetutamente smentita, in modo argomentato, sul Web: inflazione e svalutazione generarono il malcontento sociale su cui fecero leva fascismo e nazismo per prendere il potere.
È sostenuta dai gruppi dirigenti tedeschi attuali.1 Essi, con riferimento all'iperinflazione della Repubblica di Weimar, la usano in particolare per resistere a qualsiasi misura di rilancio pubblico dell'economia comunitaria che implichi inflazione nella zona euro, insomma a misure di stampo keynesiano.
Siccome qui importa non tanto il dibattito sulle teorie economiche quanto i riscontri storici effettivi di quelle teorie, mi limito su queste ultime ad offrire spunti di riferimento [vedi il riquadro “L'implicito teorico”, in pagina], ricordando che la radice dell'atteggiamento tedesco sul rapporto tra inflazione-svalutazione e nazifascismo risale al neoliberismo europeo ed alla scuola ordoliberista nata negli anni trenta.
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L'implicito teorico
Lo spauracchio dell'inflazione viene agitato sulla base di un implicito teorico, dato per generalmente valido: la “teoria quantitativa della moneta.” Secondo questa teoria, elaborata nel 1911 dall'economista americano Irving Fisher e perfezionata nel trascorso secolo, “i prezzi generali dei beni sono direttamente proporzionali (se cresce l'uno, cresce l'altra e viceversa) alla quantità di moneta in circolazione nel dato momento.”*
Per gli “appassionati” annoto che, accanto a questo caposaldo monetario, la restaurata visione economica liberista (siamo alla seconda storica riedizione dell'economia classica) si alimenta di altre collegate teorie. Più volte rielaborate pure in forme matematiche assai sofisticate, si rifanno essenzialmente alla “legge degli sbocchi” dell'economista francese J. B. Say (1767-1832) e alla teoria dei “vantaggi comparati”, la cui prima formulazione risale a David Ricardo (1722-1832).
In breve, per questa visione liberista bisognerebbe:
  1. evitare ogni “artificiosa” immissione di moneta non giustificata sul piano strettamente “tecnico”, per non falsare l'andamento dei prezzi interni (inflazione) ed internazionali (svalutazione);
  2. lasciar fare (laissez-faire) al libero mercato concorrenziale, oggi globale, il quale, non sviato da falsate informazioni sui prezzi, provvederà “naturalmente” ad allocare nel modo più efficiente le risorse, ad investire secondo sana convenienza d'impresa, generando l'offerta. Ciò innescherà alfine un circuito allargato di ripresa benefico per tutti, disoccupati compresi.
Su quel “alfine” ebbe modo di ironizzare J. M. Keynes, quando affermò che nel lungo termine saremo tutti morti. E poco importa se il mondo reale sia stato e sia tutt'altro rispetto a quello teorizzato dal liberismo. Peggio per il mondo (dei disoccupati).
Infatti, giusto per fare un esempio a noi vicino, la Bce è stata dichiarata “indipendente” dal controllo politico democratico e vincolata al tabù antinflazionistico: tra i suoi scopi statutari annovera la difesa della stabilità della moneta, ma non la salvaguardia dell'occupazione...
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La qual cosa rivestirebbe minore importanza se, come è accaduto poi, l'ordoliberismo (in tedesco Ordoliberalismus) non avesse profondamente influenzato la pratica costruzione dell'Unione europea.2 Non per nulla il liberalismo italiano più impegnato a sostenere una certa idea d'Europa nutrì un forte legame con l'ordoliberismo. Proprio negli scritti di uno di loro, Luigi Einaudi, ritroviamo una tesi analoga a quella dei dirigenti tedeschi:
«La svalutazione della lira italiana e del marco tedesco, che rovinò le classi medie e rese malcontente le classi operaie fu una delle cause da cui nacquero le bande di facinorosi che diedero il potere ai dittatori.»3
Per l'ordoliberismo inflazione e svalutazione sono mali che si manifestano di pari passo. Anche in mutate condizioni rispetto alla Germania dei decenni venti e trenta. È ricorrente l'dea, altro esempio d'attualità, che una svalutazione della lira, conseguente ad una eventuale uscita dall'euro, provocherebbe in automatico una disastrosa inflazione interna. Anche se proprio la recente rilevante svalutazione dell'euro rispetto al dollaro4 non abbia provocato affatto una corrispondente inflazione nell'eurozona.
Passiamo alla verifica storica di quanto sostenuto dai gruppi dirigenti tedeschi e dal liberale Einaudi.
Cronologie sovvertite
Hitler diventa cancelliere il 30 gennaio del 1933. La disoccupazione è salita al 20% e riguarda 6 milioni di lavoratori; la malnutrizione è diffusa. Le difficilissime condizioni economiche e sociali della Germania, ereditate dalla guerra persa, sono ulteriormente peggiorate dopo il crollo di Wall Street del 1929, a cui segue una grande depressione resa più acuta da politiche di austerità.
Sono oramai trascorsi dieci anni dalla grande inflazione che raggiunse il suo apice nel 1923. L'inflazione interna era effettivamente andata a braccetto con la svalutazione del marco rispetto alle altre principali valute mondiali [vedi tabella “Germania, 1923: svalutazione ed inflazione”, in pagina].

Germania, 1923: svalutazione ed inflazione

http://www.viaggio-in-germania.de/inflazione-1923.html
Tuttavia, già nel 1924 la Germania era ritornata al gold standard5 ed il rigore depressivo coincise con il ripristino di gran parte delle regole liberiste a fondamento della globalizzazione finanziarizzata della belle époque, andate forzatamente sospese per lo scoppio del conflitto mondiale.
Pertanto, nei primi anni trenta tutto il mondo occidentale, non solo la Germania, è afflitto dalla deflazione. Il malcontento su cui fa leva il nazismo per affermarsi al potere è generato dalla disoccupazione e dai persistenti vincoli esterni, imposti alla Germania dai vincitori. Appare stupefacente l'andamento della disoccupazione in rapporto al voto dato al nazismo [vedi grafico “Disoccupazione tedesca e voto al nazismo”, in pagina], che si affermò collegando la “questione occupazionale” alla frustrazione nazionale indotta dalle condizioni dettate dalla pace di Versailles.

Disoccupazione tedesca e voto al nazismo

Fonte: SG Cross Asset Research, GFD
Non a caso J. M. Keynes, che aveva esordito con la pubblicazione di un pamphlet6 contro i risarcimenti sanciti nel Trattato di Versailles, a conclusione dei colloqui di pace ai quali aveva direttamente partecipato come membro della delegazione britannica, approfondì la propria critica all'economia classica proprio in quel periodo.
Nel 1933, appena insediatosi a capo del governo tedesco, Adolf Hitler affida il ministero delle finanze a Hjalmar Schacht, architetto della riforma MeFo. Schacht crea una compagnia statale, la Metallurgische Forschungsgesellschft m.b.H (MeFo), una scatola vuota con un solo azionista: la Banca Centrale del Reich. La MeFo emette obbligazioni, svincolate dal bilancio pubblico e dal suo debito, per finanziare la ripresa economica ed il riarmo tedeschi.
Tra il 1933 ed il 1936 consegue straordinari risultati, in termini di uscita dalla deflazione e di ripresa dell'occupazione. Così ne scrisse J. M Keynes:
«L'accorgimento consisteva nel risolvere il problema eliminando l'uso della moneta con valore internazionale e sostituendola con qualcosa che risultava un baratto, non però fra individui, bensì fra diverse unità economiche. In tal modo riuscì a tornare al carattere essenziale e allo scopo originario del commercio, sopprimendo l'apparato che avrebbe dovuto facilitarlo, ma che di fatto lo stava strangolando.»7
Fu un modo per sottrarsi ai vincoli del Trattato di Versailles e, al contempo, evitare l'iperinflazione e la svalutazione, rimettere in moto il mercato interno a vantaggio esclusivo delle imprese nazionali.
La base politica consistette nella ripresa della sovranità monetaria della Germania, attraverso una “moneta impropria” di baratto interno.
J. M. Keynes considerò la riforma MeFo un “vantaggio tecnico” offerto “al servizio di una buona causa”, che non fosse il riarmo nazista. Va tuttavia rilevato che l'avversione del liberalismo all'interventismo dello Stato in economia non si è mai esteso alla spesa pubblica in armi: basti ricordare il “keynesismo bellico” del liberalizzatore Ronald Reagan e l'enorme spesa bellica degli Stati Uniti negli ultimi trent'anni di liberoscambismo e globalizzazione finanziaria.
Ventennio fascista double-face
Dal '22, per quasi dieci anni Mussolini continuò a perseguire politiche liberiste, di deflazione salariale e si incaponì sulla “quota novanta”.8 Solo tardivamente prese atto del nuovo quadro economico planetario.
Non fu senza ragione che i liberali, salvo rare eccezioni per lo più pagate col sangue, negli anni venti o si fecero neutrali o diedero sostanziale appoggio al fascismo. Vi videro un'accettabile uso della violenza per sottomettere il movimento operaio e ripristinare la minacciata libertà del mercato ed in particolare della proprietà privata, beni primari rispetto alla stessa democrazia della rappresentanza.
Piuttosto numerosi furono i liberali che aderirono al listone nazionale fascista, allestito da Mussolini per il voto del 1924, indette dopo l'approvazione della legge elettorale Acerbo.
Il filosofo liberale Benedetto Croce votò a favore del governo Mussolini anche dopo il delitto Matteotti. Motivò il proprio condizionato benestare al fascismo in una intervista rilasciata il 9 luglio a “Il Giornale d'Italia”:
Benedetto Croce
«Voi sapete che ho sempre sostenuto che il movimento fascistico fosse sterile di nuove istituzioni, incapace di plasmare, come i suoi pubblicisti vantavano, un nuovo tipo di Stato. Perciò esso non poteva, e non doveva essere altro, a mio parere, che un poste di passaggio per la restaurazione di un più severo regime liberale, nel quadro di uno Stato più forte. Doveva rinunciare a inaugurare una nuova epoca storica, conforme ai suoi vanti, ma poteva ben soddisfarsi della non piccola gloria di ridare tono e vigore alla vita politica italiana, cogliendo, per merito dei già combattenti, il miglior frutto della guerra.»

In buona sostanza, il fascismo andava bene sin quando si fosse attenuto al programma liberale classico, limitandosi a compiti repressivi nel rafforzamento dello Stato ed a cogliere il “miglior frutto della guerra”.
Sulla stessa scia si mosse anche il giovane Luigi Einaudi, il quale nel 1922 accoglieva il fascismo in quanto portatore del programma liberale classico e fautore, con i “mezzi adatti a raggiungere lo scopo”, della “grandezza materiale e spirituale della patria.”9
Una bella sintesi di liberal-nazionalismo, disposto ad un “transitorio” fascismo pur di realizzarsi.
Come abbiamo visto, il più maturo Einaudi dimenticò quanto, ancor giovane, aveva sostenuto di fronte alle imprese dello squadrismo mussoliniano.
Luigi Einaudi
Ma furono le “bande di facinorosi”, ovvero gli squadristi della marcia su Roma, a dare “il potere ai dittatori”? O, piuttosto, le “classi dirigenti” del tempo, tra cui i maggiori esponenti del liberalismo nazionale?
Che dire poi di come andarono le cose in Germania, allorché fu conferita una maggioranza parlamentare al primo cancellierato di Hitler (gennaio 1933), dopo che nelle elezioni federali del 193210 aveva ottenuto il 33,10 % dei voti?
Globalizzazione pacifista
Se il falso storico sull'inflazione tedesca viatico del nazismo è stato abbastanza e diffusamente smentito, ora è la volta di altre “disinvolte” affermazioni del mainstream, ripetute come scontate verità.
Si sostiene che la costruzione dell'Europa abbia garantito la pace, cancellando dalla storia le guerre nella ex-Jugoslavia e quella ancora in atto in Ucraina. Per non parlare di quelle esterne, in partnership con gli Stati Uniti. Vere e proprie “rimozioni dalla memoria collettiva” di fatti che “disturbano” l'immagine ostentata. A ruota si sostiene che l'attuale globalizzazione, di cui la costruzione europea è parte integrante, non sia priva di qualche correggibile difetto, ma ciò nonostante rappresenti pur sempre l'unico sicuro baluardo contro la guerra.
Sull'intreccio tra commercio internazionale, globalizzazione contemporanea, armamenti e guerra non ritorno.11 Mi pare invece indispensabile qualche ulteriore accenno al nesso tra globalizzazione della belle époque e prima guerra mondiale.
Non è necessario condividere la visione vichiana dei “ricorsi storici” per trovare forti analogie tra i fenomeni prodotti dalla globalizzazione del periodo 1870-1913 e quelli attualmente in atto. Né dal loro riproporsi si può essere indotti, evitando l'analisi concreta della situazione concreta odierna, ad automatiche conclusioni sul nostro futuro prossimo.
Partiamo da un dato di fatto storico: la globalizzazione della belle époque sfociò direttamente nel primo conflitto mondiale. Nel periodo non mancarono ventate protezionistiche e guerre commerciali, da reputarsi fisiologiche nel processo.
Col primo conflitto si avviò una lunga guerra mondiale durata tre decenni, poi conclusasi con il secondo conflitto. Si trattò di uno scontro tra due blocchi colonialisti ed imperialisti rivali per il dominio sul globo, benché ammantato di sentimenti patriottici ed in Italia inizialmente fatto passare come compimento del Risorgimento e dell'unità nazionale.
Il conflitto combattuto tra il 1939 ed il 1945 fu il tentativo, più esteso, di rivincita sulla sconfitta patita dalla Germania nel '14-'18. Il fascismo italiano recriminò a lungo sulla “vittoria mutilata” dalla pace di Versailles e sul “posto al sole” negato all'Italia dalle potenze coloniali concorrenti, ragione per la quale essa si trovò alleata col revanscismo nazista tedesco.
A partire da Versailles le potenze vincitrici cercarono di restaurare l'insieme dei rapporti economici, finanziari e monetari (compreso il gold standard) internazionali compromesso dalla guerra che tali rapporti avevano generato. Nel ricorso alle armi, i governi dovettero poggiare sull'intervento dello Stato in economia (con grande beneficio per gli industriali, grandi liberali del tempo), ma fu interpretato come un “forzato frangente” che non mise in discussione i capisaldi del laissez-faire economico-sociale e della internazionalizzazione, sottoposti entrambi all'aspra critica di J. M. Keynes.
Prova ne sia che quella globalizzazione entrò definitivamente in crisi solo dopo il successivo crack finanziario del 1929, che ebbe effetti tanto più vasti in quanto era stata pervicacemente ripresa. Dopodiché, a seguito della grande depressione, dal 1933 si affermò il New Deal rooseveltiano in parallelo con la riforma MeFo del ministro tedesco Hjalmar Schacht.
Perché insistono
Malgrado una pur approssimativa ricostruzione storica non possa prescindere dalla cronologia degli eventi, i nostri propagatori di fake history la sovvertono. In tal modo l'iperinflazione tedesca e non la dilagante disoccupazione diventano la leva di malcontento su cui il nazismo poggiò per affermarsi.
Per disgiungere il liberismo dal nazionalismo cancellano la specifica storia del primo decennio liberista del fascismo italiano, condiviso dai maggiori esponenti liberali del tempo in nome della Patria.
Per non ammettere l'intima dinamica connessione tra liberismo, globalizzazione liberoscambista e guerra, asseriscono che l'abbandono della globalizzazione della belle époque precedette e permise lo scatenamento della guerra del '14-'18, “dimenticando” pure la sua riproposizione post-bellica, che portò al crollo finanziario del '29, evento decisivo nel creare le condizioni per il successivo secondo conflitto mondiale.
Per accreditare una costruzione europea “garanzia di pace” cancellano le guerre indotte in Europa e quelle a cui hanno partecipato e partecipano gli Stati europei fuori dall'Europa.
Il loro scopo è avvalorare un inesistente antagonismo: quello tra un liberalismo globalizzatore che aprirebbe alla pace ed un nazionalismo protezionistico che chiude, spianando la via alla guerra.
Senonché gli Stati Uniti si scoprono liberal-nazionalisti, avendo praticato da tempo il riarmo da superpotenza unica, il protezionismo doganale ed anche dato inizio alla costruzione del muro anti-immigrati al confine messicano che Trump vuole completare.
Fake history: dominare il racconto storico per continuare a dominare più facilmente il presente politico.

Note
1 Vedi anche Edoardo Ferrazzani:
2 Per una comprensione del legame tra ordoliberismo e costruzione dell'Ue, vedasi Luciano Barra Caracciolo, “La Costituzione nella palude”, Imprimatur, 2015.
3 L. Einaudi, “La guerra e l'unità europea”, Edizioni di Comunità, 1950, pagg. 81-82.
4 Considerato da Washington una manipolazione dei cambi ed un iniquo vantaggio commerciale per la Germania.
5 Regime monetario internazionale basato sulla convertibilità in prefissate quantità di oro delle monete nazionali.
6 John Maynard Keynes, “Le conseguenze economiche della pace”, Adelphi, 2007 (1919).
7 J. M. Keynes, “Il problema degli squilibri finanziari globali. La politica valutaria del dopoguerra” (8 settembre 1941), in Id., Eutopia, a cura di L. Fantacci, et. al. Edizioni, 2011, pagg. 43-55. Su questo argomento, vedasi il Post: “Storia recente che parla al presente – ottobre 2014”.
8 Politica fascista di tenere il cambio di 90 lire per una sterlina, da cui "quota novanta", insistendo oltre l'abbandono del gold standard da parte del governo inglese.
9 Vedi Paolo Mieli, “Liberalismo all'italiana: l'alternanza impossibile – Perché Einaudi e Croce all'inizio difesero Mussolini”, in http:/www.corriere.it/cultura/libri/11_novembre_29/salvadori-liberalismo-italiano_39037088-1a73-11e1-a0da-00d265bd2fc6.shtml
10 Da non confondere con le elezioni del marzo 1933.
11 In questo Blog:”Globalizzazione addio?”, marzo 2017.

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