GLOBALIZZAZIONE ADDIO?
Per
comprendere lo stato di salute della globalizzazione, messa in
discussione da più parti ed in primo luogo dal nuovo presidente
degli Stati Uniti, Donald Trump, è ottimo lo spunto offerto
dall'intervento di Jack Ma all'annuale sessione del World
Economic Forum
di Davos del 17-20 gennaio 2017.
Il
capo di Alibaba, impresa cinese leader nel commercio tramite la Rete,
l'@-commerce,
è un addetto ai lavori ai livelli massimi. Esprime un punto di vista
relativamente “altro”, rispetto a quello occidentale. Partire
dalla sua dichiarazione consente di focalizzare alcune questioni e
discuterle.
Outsourcing
internazionale
Secondo
il racconto di
Jack
Ma,1
attorno alla metà degli anni '80 dello scorso secolo, gli Stati
Uniti adottarono una nuova strategia economica di crescita:
l'outsourcing2
internazionale.
Jack Ma |
«(...)
la manifattura andava al Messico e alla Cina, i servizi all'India.
(…) Grossomodo gli americani dicevano: noi vogliamo mantenere il
controllo della proprietà intellettuale, della tecnologia, del
brand, e lasciare il resto alle altre parti del mondo, le compagnie
americane hanno fatto miliardi dalla globalizzazione.»
Molte
produzioni di merci e servizi traslocarono nei Paesi in via di
sviluppo, sotto la supervisione delle società committenti,
proprietarie dei prodotti e della loro commercializzazione. Sicché
lo sfruttamento dei dislivelli di salario e di welfare,
rispetto
ai Paesi sviluppati, convogliò enormi profitti (e liquidità) verso
le più grandi imprese occidentali.
Si
tratta di una fotografia della globalizzazione e del suo reale
spirito originario, alla quale Jack Ma aggiunge un esempio pratico:
«Quando
mi sono laureato, in Cina, provai a comprarmi un cercapersone
Motorola. Costava 250 dollari, e io ne guadagnavo 10 al mese come
insegnante. Produrre il chip ne costava 8. Ecco, con questo metodo,
30 anni dopo Ibm, Cisco, Microsoft hanno fatto molti più profitti
che le 4 maggiori banche cinesi messe assieme.»
Resa
l'idea dell'enorme differenza tra costi e ricavi, tramite la quale le
multinazionali nord-americane si sono gonfiate di utili, che hanno
avvantaggiato fiscalmente anche il loro Stato d'appartenenza,
l'imprenditore cinese si chiede:
«Ma
dove sono finiti tutti questi soldi?»
Qui
emerge la sua critica non alle modalità di profitto, ma alla sua
destinazione:
«Da
un lato, le compagnie della Silicon Valley hanno investito in Wall
Street, dove la crisi finanziaria ha bruciato 19,2 trilioni di
dollari e cancellato 34 milioni di posti di lavoro nel mondo.
Inoltre, in questi anni gli americani hanno avuto 13 guerre,
spendendo 14,20 trilioni di dollari. Quel danaro non è stato usato
per le infrastrutture o per sostenere i lavoratori del Midwest,
gli impiegati e gli operai. La soluzione, allora, è cominciare a
spendere i soldi per i cittadini.»
Chiaro
e diretto il riferimento alla Midwest
strategy3,
che ha consentito a Donald Trump di vincere la corsa alla Casa
Bianca.
L'attenzione
di Jack Ma non riguarda solo “il come” si spendono i dividendi
della globalizzazione, egli propone di allargare la platea dei suoi
controllori:
«La
globalizzazione dev'essere inclusiva. Nei 30 anni passati, questo
processo è stato controllato da 60.000 grandi compagnie. (...)
Perché invece nei prossimi 30 anni non facciamo in modo di portare
questo processo a 60 milioni di imprese?»
Infine,
per una visione d'insieme del suo intervento, va considerata la sua
preoccupazione di fondo:
«Cina
e Usa non dovrebbero mai avere una guerra tra loro. È facile
iniziare una guerra, difficile è finirla. In Iraq, Afghanistan, la
guerra è finita? Ecco perché dobbiamo dar tempo a Trump, così
potrà riflettere. (...) È proprio quando il commercio si ferma che
la guerra inizia. Il commercio porta a cambiare valori e comunicare.
E allora come possono (gli Usa, ndr) immaginare una guerra con la
seconda economia mondiale? Sarebbe un disastro.»
Aspetti
discutibili
Consapevole
della crisi in cui versa la globalizzazione, Jack Ma,
comprensibilmente data l'impresa di cui è a capo, vorrebbe
riformarla per salvarla:
- rompendo il guscio oligopolistico, tramite l'ampliamento del numero delle imprese che la controllano;
- indirizzandone i profitti verso impieghi a favore dei cittadini e dell'occupazione, al contempo scongiurando i tracolli finanziari e la corsa alle armi;
- sviluppando il commercio internazionale, visto come sicuro antidoto alla guerra.
Dalle
sue stesse affermazioni, tuttavia, emerge una visione dei processi
economici eccessivamente soggettiva, poco attenta alla tendenze
fisiologiche del capitalismo degli oligopoli ed al ruolo dello Stato.
In
particolare, se è vero che la strategia dell'outsourcing
è stata lucidamente assunta dalle grandi imprese statunitensi,
sembra piuttosto discutibile che la iniziale matrice oligopolistica
potesse:
- non foggiare la globalizzazione sul piano pratico;
- evitare il prevalere, al suo interno, della componente finanziaria (finanziarizzazione).
Appare
inoltre abbastanza discutibile considerare il ruolo dello Stato solo
a posteriori dell'intero processo, quale beneficiario di una parte
del tesoro andato sprecato. Quel processo senza l'imprinting
governativo, segnatamente della presidenza Reagan, non avrebbe potuto
né avviarsi né compiersi, e, pertanto, la corsa alle armi ed alla
guerra è assai difficilmente imputabile ad una “cattiva
destinazione delle risorse”, disgiunta dall'insieme degli assetti
politici ed economici di partenza, sia interni che internazionali.
Ne
consegue che, per arrivare a comprendere le tendenze politiche
emergenti ed i cambiamenti in animo del neo-presidente Donald Trump,
è indispensabile innanzitutto chiarire come fu avviata la
globalizzazione, quali contraddizioni abbia comportato ed in quali
problemi si sia nel tempo ritrovata.
Uno
sganciamento mega
Dal
1981 (G7 di Cancun) si avviò una trasformazione detta neo-liberista,
basata su privatizzazioni, aggiustamenti strutturali imposti ai Paesi
del Sud e liberalizzazione dei tassi di cambio e d'interesse. Essa
subì una forte accelerazione dopo i crollo dell'Urss nel 1989. Così
venne creato l'ambiente “naturale”, l'habitat
destinato a permettere le delocalizzazioni a prevalente vantaggio
delle imprese transnazionali non solo degli Stati Uniti.
Di
converso, nei Paesi sviluppati si aprì una stagione di pesante
attacco alle conquiste del lavoro, salariato ed autonomo, sottoposto
a pesanti ristrutturazioni produttive ed alla concorrenza
internazionale al ribasso. I governi dovevano evitare di intervenire
in economia, limitarsi alle “regole”, smetterla di favorire
l'occupazione e dismettere il welfare.
Complessivamente
nel mondo la crescita della produttività ebbe una impennata ed i
salari reali rimasero stazionari se non calanti: uno sganciamento di
enorme entità [vedi
grafico “Produttività e salari reali, manifattura 1890-2007”].
Produttività
e salari reali manifattura 1890-2007 |
Per
avvalorare l'idea che il ritrarsi dello Stato dall'economia fosse
buono e desiderabile, si raccontò la favoletta della perdita di
ruolo di tutti gli Stati-nazione, ivi compreso lo Stato grande
Leviatano che potentemente armato andava insediando basi militari e
spargendo guerre per il mondo. Jack Ma ne ricorda 13 (di guerre), che
per gli Stati Uniti hanno comportato una spesa di 14,2 trilioni di
dollari. Quest'ultima, a dispetto della propaganda, costituì un
potente intervento statale in economia: una sorta di “keynesismo
bellico”, del quale fece grande uso Ronald Reagan, uno dei massimi
fautori delle liberalizzazioni.(Tralasciamo
qui ogni considerazione sulle conseguenze dello sganciamento in
rapporto alle grandi crisi recessive).4
A
gettare le premesse per gli svolgimenti degli anni '80 era
intervenuta la decisione di Richard Nixon (15 agosto del 1971) di
abbandonare la convertibilità in oro del dollaro statunitense.
Con
questa misura veniva meno uno dei fondamenti degli accordi di Bretton
Woods5
ed iniziata la destrutturazione di tutto il quadro regolativo del
secondo dopo-guerra.
La
Gran Bretagna di Margaret Thatcher (1986) inaugurò per prima in
Europa la liberalizzazione dei mercati finanziari. La Borsa di Londra
divenne una impresa privata a responsabilità limitata e gli
standards
regolativi
imposti dal Restrictive
Trade Pratictices Act
del 1956 furono disattivati.
Seguì,
a breve distanza, la liberalizzazione dei mercati dei capitali per la
creazione di uno spazio finanziario europeo unitario, a premessa
della unificazione monetaria. Sicché, come scrive Maria Rosaria
Ferrarese in una sua recente pubblicazione:6
«(...)
le negoziazioni sulla liberalizzazione dei capitali andarono di pari
passo con le discussioni sulla instaurazione della moneta unica.»
Sin
dagli esordi la deregolamentazione (deregulation)
aveva ad oggetto la circolazione dei capitali, le monete, i tassi di
cambio e d'interesse, gli assetti finanziari. Implicò una nuova
regolamentazione dei rapporti internazionali, attuata tramite
l'Organizzazione del Commercio Mondiale (WTO),
la Banca Mondiale, il Fondo Monetario Internazionale (FMI) e
suggellata da trattati tra Stati sovrani, quali quelli che
strutturarono l'Unione europea e le sue a-simmetrie.
D'altro
canto i Paesi dell'Occidente ricco non erano vergini territori di
libera concorrenza, essendosi accentrati in pochi gruppi
monopolistici i poteri determinanti le dinamiche di mercato. Lo
sviluppo capitalistico degli anni precedenti aveva comportato un
notevole processo di concentrazione, rilevato da dati indiscutibili
ed in mille modi discusso dagli economisti del tempo.
Benché
in effetti si trattasse di dare uno sbocco internazionale agli
investimenti ed alla accumulazione in difficoltà, la fuoriuscita
dalla crisi degli anni '70 fu condotta sotto le insegne della
crescita e dell'efficienza. Tale fuoriuscita, date le premesse e la
dimensione mondiale, assunse la forma oligopolistica con una forte
impronta finanziaria.
In
questo svolgimento venne situata la delocalizzazione,7
con la industrializzazione di una parte dei Paesi in via di sviluppo
e la corrispondente parziale de-industrializzazione di quelli ricchi,
reintroducendo al loro interno una disoccupazione strutturale e
congeniale all'abbattimento della remunerazione del lavoro.
I
presupposti della finanziarizzazione dell'economia globale erano già
presenti agli esordi della liberalizzazione negli stessi atti dei
globalizzatori. E divenne dominante, quando, cammin facendo,
l'impiego strettamente finanziario si mostrò più redditizio
rispetto a quello nella “economica reale”.
Champagne,
ma solo per pochi intimi
Non
si trattò di una deviazione dal “buon impiego” dei profitti, ma
del loro miglior uso possibile nella logica ed ai fini di coloro che
li percepirono.
Cosa
avrebbe potuto impedirlo?
Solo
una politica di “repressione finanziaria” da parte dei governi,
ma essi continuarono a liberalizzare, sino agli ultimi anni del
secolo scorso.8
Nelle
grandi corporations
il comparto finanziario assunse il ruolo guida. La bussola delle
decisioni dei loro dirigenti non furono più il fatturato, le
vendite, i volumi produttivi, l'occupazione, gli utili di gestione,
gli investimenti in capitale fisso, la ricerca e sviluppo, ma, in
primo luogo, il valore delle imprese secondo il giudizio dei mercati
finanziari. Era lo svolgimento teorizzato sin dagli anni '60 da
Milton Friedman,9
campione del neo-liberismo. Il rischio si era spostato
dall'investimento nelle produzioni all'investimento nei valori
finanziari, misurabili e “giocabili” in real
time,
istantaneamente, sul mercato globale dotato delle nuove tecnologie
comunicative telematiche.
Qualora
non volessimo tenere conto né della storia del capitalismo, i cui
cicli espansivi, più o meno geograficamente allargati, approdano
sempre alla fase finanziaria “finale”, né delle premesse poste
in opera sin dalla deregulation
degli anni '80, dobbiamo considerare i meccanismi interni
all'economia capitalistica del 1900 e dei primi anni 2000. Essi sono
animati da processi di concentrazione e finanziarizzazione che, come
sono sfociati nei crolli del '29 e del biennio 2007-2008, in assenza
di interventi politici coercitivi e strutturali, produrranno nuove
devastanti crisi.
Infatti,
la sfera finanziaria non è isolabile da quella delle produzioni: se
ne nutre più di quanto non le nutra; le struttura e le indirizza a
proprio favore; riversa su di esse le conseguenze delle proprie
priorità e dei propri fallimenti. Se, come ci dice Jack Ma, l'ultimo
crollo di Wall Street ha cancellato 34 milioni di posti di lavoro nel
mondo, quante imprese subiscono quotidianamente le conseguenze
distruttive della prevalenza finanziaria in seno alla economica
reale?
In
ultima analisi, la mondializzazione è consistita in una gigantesca
redistribuzione
dei redditi
effettuata su scala planetaria a favore:
- delle classi superiori;
- di una minoranza della popolazione mondiale [vedi grafico “Distribuzione a coppa di champagne”];
- dei Paesi già ricchi come gli Stati Uniti.
Una
redistribuzione cercata, politicamente voluta dalle élites
dominanti e palesatasi nelle rilevazioni statistiche, secondo le
quali, a fine 2015, l'1% della popolazione mondiale possiede una
ricchezza pari a quella del restante 99%.
Pertanto,
anche la “patrimonializzazione”10
con il prepotente riemergere della figura “ottocentesca” e
parassitaria del réntier,
è connaturata alla globalizzazione e ne ipoteca l'eventuale futuro.
Negli
ultimi tre lustri [Vedi
grafico “A chi è andata la crescita della ricchezza tra il 2000 e
il 2015”],
la crescita della ricchezza è andata al Nord per il 66,7% e la
percentuale accaparrata da Paesi come il Regno Unito (6,3%) si spiega
unicamente in base al loro ruolo finanziario,11
soprattutto se posto a confronto con quello industriale, ben più
potente, della Germania (4,6%).
A
chi è andata la crescita della ricchezza tra il 2000 e il 2015 (in miliardi di euro) [fonti: Eurostat; ilmioblogdieconomia.blogspot.it] |
Tuttavia,
nel medesimo periodo, anche alcuni Paesi emergenti hanno potuto
“trattenere” per sé una quota della crescita prodotta.
Ciò
è avvenuto nella misura in cui i loro governi non
hanno obbedito
al diktat di lasciare tutto al “libero gioco del mercato”,
negando allo Stato ogni rilevante intervento diretto in economia,
bollato come “inefficiente”. Altrimenti non si spiega il relativo
successo conseguito dalla Cina (13,7%), per esempio, in rapporto
all'India (1,7%). All'intera Africa toccherà una percentuale (1,1%),
pari solo alla destrutturazione degli Stati del continente nero, così
maggiormente esposti al saccheggio delle loro risorse.
Quando
i glorificatori della globalizzazione vantano l'uscita dalla povertà
di milioni di persone di una parte del Terzo Mondo, “dimenticano”
questo aspetto cruciale, che, come si vedrà più avanti, è lo
stesso ad indurre adesso una parte di loro a fare retromarcia.
Pesanti
sbilanci
La
crisi finanziaria del 2007-2008 ha trascinato in basso sia le
produzioni che il commercio mondiale. Quest'ultimo, dopo essersi
ripreso dal crollo del 2009, mostra nuovi segnali di frenata: nel
2016 è diminuito, in termini di valore complessivo, di -13,2%;
rispetto alla crescita del Pil, valutata a +2,2%, si è attestato a
+1,7%, ossia ad un livello inferiore. Secondo il ministro Calenda12
le attese per il 2017 sono pessime, anche per la constatata paralisi
in cui versa il WTO.
Un
breve sguardo alle posizioni assunte dai singoli Paesi nel commercio
globale [Vedi
grafico “Bilance commerciali 2004-2014”] aiuta
a comprendere i più recenti sviluppi politici.
(*) External trade flows with extra EU-28 - (*) Including Lichtenstein - (*) Excluding Hong Kong |
Bilance
commerciali 2004-2014 (in miliardi di euro) [fonte: Eurostat] |
Superando
la Cina, il surplus
tedesco è arrivato nel 2016 a ben 252,9 miliardi di euro:All'interno
del rallentamento generale, Cina e Russia tra gli emergenti, e
Germania tra quelli ricchi, hanno acquisito un rilevante surplus
commerciale, in base ad esportazioni piuttosto superiori alle
importazioni. È importante annotare che se, tra il 2004 ed il 2014,
nell'insieme l'Ue ha riequilibrato la propria bilancia commerciale,
al suo interno è la Germania a giocare la parte del leone.
«Un
risultato ottimo, certo, ma che mette nel mirino la Germania Paese
che, secondo le regole Ue non potrebbe superare il 6% nel surplus
commerciale mentre oggi questo dato, vola agilmente verso il 10%.»13
Al
contrario, nel decennio il Giappone è andato in sbilancio e gli
Stati Uniti, in particolare, pur essendo riusciti a ridurlo al di
sotto dei 500 miliardi di euro, sono rimasti con un pesante deficit
commerciale al di sopra dei 400 miliardi, esponendosi ad un marcato
indebitamento privato verso l'estero ed a riscontri interni
destabilizzanti. Va ricordato che ai successi mercantili esterni
corrisponde il consolidamento di produzioni di merci e servizi
all'interno nei Paesi che tali successi conseguono. Da ciò deriva la
tenuta dei loro livelli occupazionali che, a loro volta, attestano la
maggiore o minore stabilità sociale e politica interna.
Non
desti sorpresa, pertanto, la propensione statunitense a prendersela
con la “sottovalutazione” della moneta cinese, operata a loro
dire dal governo, e con l'euro, una moneta tanto debole e favorevole
alla Germania, quanto penalizzante per i concorrenti internazionali,
oltreché per la maggior parte dei restanti Paesi dell'Unione
europea. Ecco il reale motivo delle guerre commerciali in corso,
magari combattute sul piano fiscale o su quello delle “regole
ambientali”.
Non
era dorata
Se
riandiamo alle condizioni dettate per aderire alla globalizzazione,
si capisce ciò che è andato storto. Per partecipare al “duro ma
eccitante gioco della globalizzazione”, i cosiddetti “Paesi
dell'ulivo”, ossia i Paesi del Sud del mondo, dovevano indossare la
“camicia di forza dorata” sul taglio unico della ortodossia
liberista, adottando una serie di misure politico-economiche [Vedi
riquadro “Per partecipare”].
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Per
partecipare
al “duro ma
eccitante gioco della globalizzazione”, i “Paesi dell'ulivo”
dovevano adottare una serie di misure, così riassunte da Thomas
Friedman:*
- privatizzare l'industria di Stato;
- mantenere basso il tasso di inflazione;
- limitare il peso della burocrazia statale;
- mantenere il bilancio dello Stato in pareggio (se non in attivo);
- eliminare o abbassare le tariffe sulle importazioni;
- rimuovere le restrizioni all'investimento estero;
- deregolamentare il mercato dei capitali;
- rendere la propria valuta convertibile;
- eliminare la corruzione;
- privatizzare il sistema previdenziale.
*Thomas
Friedman, “Le radici del futuro. La sfida tra Lexus e l'ulivo: che
cos'è la globalizzazione e quanto conta la tradizione”, Mondadori,
2001 (2000), pag. 117.
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Quali
e quante di queste misure sono state attuate dai “Paesi
dell'ulivo”?
Tra
i Paesi del Sud mondiale, quelli che le hanno messe in atto
completamente si sono trovati in successive maggiori difficoltà,
rispetto a quelli che prudentemente se ne sono discostati, almeno in
parte.
La
Cina si è guardata dall'indossare la “camicia di forza dorata”
ed ha saputo ritagliarsi un vestito su misura propria. Da un lato si
è aperta agli investimenti stranieri, alle delocalizzazioni,
sottoponendo i propri lavoratori allo sfruttamento intensivo delle
multinazionali e liberalizzando parzialmente i propri mercati. Pur
privilegiando le zone costiere e le grandi città (squilibri che
peseranno sul suo futuro), non ha aderito al modello agricolo
occidentale, temendo le conseguenze dirompenti dello spopolamento
delle campagne dell'interno. Dall'altro, ha tenuto nelle mani dello
Stato finanza, moneta, bilanci pubblici e, soprattutto, le redini
delle produzioni. Sicché il suo sviluppo è stato ad un tempo:
concavo, nell'accogliere investimenti stranieri; convesso, nello
sviluppare via via esportazioni in proprio. Ha cercato di modulare la
sua politica secondo il concetto tradizionale cinese dello Yin
e Yang.
Benché
l'aver incorporato molta parte del debito pubblico statunitense possa
ora costituire un problema (per tutti coloro che lo detengono), alla
stessa stregua di una banca troppo esposta verso un debitore, la Cina
è oramai diventata la seconda economia mondiale dopo gli States
ed il secondo esportatore dopo la Germania, in termini di valore.
Il
gioco non vale più la candela
Questa
interpretazione della globalizzazione, qui esposta per sommi capi,
rende conto dei motivi per i quali essa viene oggi messa in
discussione, proprio dai suoi principali promotori, non più
esclusivi beneficiari. Essi sono perfettamente consapevoli del fatto
che solo dominando il processo di creazione del valore, la loro
posizione nel mondo può uscirne riconfermata. Una posizione non più
solida come agli esordi e nel trentennio liberista.
Solo
una parte delle grandi imprese statunitensi (in gran parte le stesse
della Silicon Valley che, secondo Jack Ma, investirono in Wall
Street) è in grado di comandare su scala mondiale il processo
dall'input
all'output,
cioè dalla committenza alla commercializzazione; la parte restante
ha bisogno di venire protetta e trainata da una politica federale
che, per “rifare grande l'America”, poggi su più solide basi il
controllo dell'ampio mercato interno.
Se
Trump fosse preoccupato del predominio della “finanza barbara” e
di Wall Street non si appresterebbe a togliere di mezzo le pur blande
limitazioni alle operazioni finanziarie introdotte da Obama.14
Qualsiasi misura pur lontanamente assomigliante al welfare
novecentesco, come la riforma sanitaria di Obama, è avversata in
nome di una supposta riduzione della presenza dello Stato, il quale,
tuttavia, rafforza il suo ruolo di Grande Leviatano nella
“sicurezza”, poliziesca interna e militare esterna, a cui
destinare la spesa pubblica risparmiata in altri settori.
La
lotta al terrorismo viene mischiata con la islamofobia. Facendo leva,
da un canto, sul primato razzista “bianco-cristiano”
(suprematismo) e, dall'altro, sui risentimenti verso flussi migratori
che hanno alimentato un imponente “esercito di riserva” a
detrimento di occupazione e salari dei residenti, si chiude alla
“libera circolazione della mano d'opera” proveniente soprattutto
dal Messico e dall'America latina. Il bersaglio dichiarato viene
esteso alla “libera circolazione delle merci” e persino la
“libera circolazione dei capitali”, messa all'indice quando
quelli statunitensi dislocano all'estero le produzioni per poi
importarne i prodotti. Pertanto, la neo-presidenza punta ad allestire
un nuovo impianto impositivo che defiscalizzi gli investimenti
interni ed infligga selezionati dazi alle merci in entrata.
In
sintesi, la linea della nuova amministrazione può essere definita
come liberal-nazionalista, contrassegnato da pronunciate tendenze
fascistizzanti.
Discontinuità
relativa
Vi
è una continuità nelle ansie nord-americane tra la nuova
amministrazione e quelle precedenti.
Sia
le misure protezionistiche in ambito commerciale che quelle
anti-immigratorie non costituiscono una novità assoluta portata da
The
Donald.
In quanto a misure protezionistiche già da anni attive, gli Stati
Uniti detengono il primato globale: nove volte più numerose di
quelle volte a liberalizzare il commercio internazionale.15
Mentre il famigerato muro al confine con il Messico fu iniziato nel
1990 durante la presidenza di George H. W. Bush e sviluppato da Bill
Clinton nel 1994. Chi attacca Barack Obama ha buon gioco nel rilevare
che dal 2009 al 2015 gli Usa hanno espulso 2 milioni e 427 mila
immigrati.16
La
discontinuità consiste piuttosto nella strategia generale politica.
Obama puntava a ripristinare la “leadership
benevola” di Washington su una globalizzazione oramai sfuggita di
mano, attraverso i trattati di libero scambio
transpacifici-transatlantici (TTP e TTIP) ed il parallelo
rafforzamento delle alleanze militari, nascondendo il manganello
dietro la schiena. Trump, invece, opta direttamente per il
nazionalismo economico e sbatte il manganello sul tavolo, preferendo
i rapporti bilaterali alle “pastoie” multilaterali. Esercita una
politica di potenza in proprio, senza mediazioni. La strategia di
Obama, muovendo da alleanze economico-militari con Giappone e Unione
Europea, cercava di isolare Cina e Russia. Quella di Trump vorrebbe
separarle, concentrando il tiro sulle grandi esportatrici, Cina e
Germania, e puntando a disgregarne gli “involucri”, ossia gli
emergenti BRICS e l'Unione europea, in sé alquanto malmessa.
Quanto
al rapporto privilegiato con Tokio, sembra esserci più continuità
che discontinuità. Anche la Clinton era arrivata alla conclusione
che il TTP non potesse costituire un sistema adeguato a contenere la
potenza cinese. Come Donald Trump avrebbe rafforzato i legami con il
Giappone in via di riarmo...
Ora
non mi soffermerò sul conflitto in corso tra libero-scambisti e
protezionisti, né sul relativo stucchevole dibattito, se non per un
necessario appunto.
I
“mondialisti” affermano che la fine della globalizzazione della
belle
époque
condusse il mondo verso le successive due guerre mondiali, paventando
disastri analoghi qualora la stessa sorte toccasse all'attuale.
Ad
una siffatta ricostruzione si possono muovere mille argomentate
critiche. Ma non sono né Trump né la Brexit ad innescare la crisi
della globalizzazione contemporanea, di cui costituiscono solo una
variante politica. Essa, in realtà, è da alcuni anni in preda alle
sue connaturate esplosive contraddizioni, essendosi basata sui
processi di liberalizzazione, concentrazione oligarchica,
finanziarizzazione dell'economia, sfruttamento dei popoli,
depredazione delle risorse dei Paesi alla ricerca del proprio
sviluppo, asimmetrie tra aree del mondo. Da tali processi
scaturiscono i fallimenti, le disgregazioni, le insorgenze
fondamentaliste e nazionalistiche. Ragione per cui nel reiterarne le
cause non c'è rimedio alcuno. Tanto più se vediamo da vicino il
rapporto tra mondializzazione e guerra.
Infausti
connubi
Ora,
giustamente, l'opinione pubblica è spaventata dalle dichiarazioni di
Trump sul riarmo atomico e dal programma di Marine Le Pen sulla force
di frappe. È
preoccupata dalla richiesta nord-americana di rispettare i paramatri
di spesa militare, ripresentata da Trump a livelli fissati prima di
lui: ciascuno dei Paesi della Nato dovrebbe spendere almeno il 2% del
Pil per la difesa. Per l'Italia un ulteriore vincolo esterno che
verrebbe a sommarsi ai pressanti vincoli europei sui nostri bilanci
pubblici.
Programmata
dal governo Renzi, la spesa militare italiana del 2017 supererà i 23
miliardi di euro, situandosi all'1,5% del Pil e registrando un
incremento in 10 anni del 21%. Sarebbe un modo per promuovere
l'ulteriore rafforzamento del nostro export di armi, triplicato nel
2015 e diretto verso Paesi in guerra, tra i quali l'Arabia Saudita.
Appresso cresce l'intermediazione finanziaria delle principali banche
italiane, tra le quali Unicredit, ed il peso specifico della vendita
di armi nel complessivo export del Paese.
Secondo
il SIPRI (Stockholm
International Peace Research Institute)
le spese militari mondiali hanno registrato un calo decennale dal
1989 (anno di caduta del muro di Berlino) in poi, per risalire
potentemente tra il 2009 ed il 2015, fino a superare i livelli
raggiunti nel 1988. Globalizzazione non fa rima con disarmo e la sua
crisi coincide con la corsa agli armamenti.
Gli
Stati Uniti detengono il primato assoluto sia nella propria spesa
militare che nelle esportazioni, nonostante il forte sbilancio
commerciale prima evidenziato. Per sé spendono più dell'insieme di
Cina, Russia, Arabia Saudita, Francia, Regno Unito, India e Giappone.
Detengono il 33% del mercato bellico mondiale. Pur posizionandosi al
secondo posto per budget interno, la Cina è solo al 5,9%
nell'export, mentre, viceversa la Russia, in rapporto alla spesa
interna è assai rivolta all'export (25%). L'India tende ad
accrescere le proprie spese in armi, importandole.
Se
consideriamo la spesa aggregata e le esportazioni della triade
Usa-Ue-Giappone non c'è confronto con il resto del mondo [vedi riquadro "Export mondiale di armi" e grafico “Visuale delle spese militari globali”].
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Export
mondiale di armi
Secondo
lo Stockholm
International Peace Research Institute (SIPRI),
la mappa
dei 10 paesi che hanno esportato la maggior quantità di armi,
nel periodo che va dal 2011 al 2015, è la seguente.
- STATI UNITI (33% del mercato). I principali clienti sono, nell’ordine: Arabia Saudita, Emirati Arabi e Turchia.
- RUSSIA (25% del mercato). I principali clienti sono, nell’ordine: India, Cina e Vietnam.
- CINA (5,9% del mercato). I principali clienti sono, nell’ordine: Pakistan, Bangladesh e Myanmar.
- FRANCIA (5,6% del mercato). I principali clienti sono, nell’ordine: Marocco, Cina e Egitto.
- GERMANIA (4,7% del mercato). I principali clienti sono, nell’ordine: Stati Uniti, Israele e Grecia.
- REGNO UNITO (4,5% del mercato). I principali clienti sono, nell’ordine: Arabia Saudita, India e Indonesia.
- SPAGNA (3,5% del mercato). I principali clienti sono, nell’ordine: Australia, Arabia Saudita e Turchia.
- ITALIA (2,7% del mercato). I principali clienti sono, nell’ordine: Emirati Arabi, India e Turchia.
- UCRAINA (2,6% del mercato). I principali clienti sono, nell’ordine: Cina, Russia e Etiopia.
- OLANDA (2% del mercato). I principali clienti sono, nell’ordine: Marocco, Giordania e Stati Uniti.
Tra
i Paesi che comprano tutte queste armi svettano: Arabia
Saudita e
India.
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Visuale
delle spese militari globali
|
Dal
quadro possiamo agevolmente ricavare che:
- la globalizzazione non ha affatto disarmato il mondo e soprattutto gli Stati-nazione più forti;
- i Paesi più ricchi presidiano la propria posizione e ricchezza con una spesa militare soverchiante;
- gli emergenti occupano posizioni rilevanti, tuttavia assai inferiori a quelle del primo mondo;
- la Germania, rispetto alla propria potenza economica e mercantile, nutre un basso profilo militare, peraltro organizzato nella Nato a predominio Usa;
- l'Arabia Saudita è prima compratrice di armi e dai Paesi occidentali, i quali non possono ignorarne il suo ruolo nel fondamentalismo islamico e nelle guerre medio-orientali.
Davvero
si può credere al de-potenziamento di
tutti gli Stati
derivante dalla globalizzazione?
Davvero
si può credere in un Impero universale senza imperialismo?
Commercio
armato
Per
Jack Ma lo sviluppo del commercio si opporrebbe validamente alla
guerra.
Nulla
da ridire sulla funzione degli scambi nell'aprire alla comunicazione.
Non altrettanto direi del commercio come antidoto alla guerra.
Una
lunga storia contraddice i suo assunto: da cinquecento anni il
commercio mondiale d'Occidente è commercio armato. E proprio in
Estremo Oriente ebbe modo di sperimentare la sua straordinaria
“efficacia”, laddove il “mostruoso attrezzo”, come lo definì
lo storico Fernand Braudel, derivante dall'unione del capitalismo con
la forza armata dello Stato, soggiogò un fiorentissimo commercio
disarmato, dissanguandolo [vedi
riquadro “La galea veneziana”].
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La
galea veneziana
Nel
Mediterraneo l'impresa privata mercantile e l'apparato militare dello
Stato si erano emblematicamente fusi nella galea veneziana. Era una
nave mercantile a vela che, alla bisogna, manovrava agilmente
sospinta ai remi da galeotti (uomini ridotti in schiavitù),
assumendo l'assetto di una nave da guerra, appositamente armata
nell'Arsenale della Serenissima. I convogli di galee, le famose mude,
assicuravano trasporti di merci e passeggeri su rotte garantite dalla
Repubblica, sicché espansione commerciale privata e dominio militare
di Stato procedettero di pari passo.
Alla
fine del '400 il regno del Portogallo emulò Venezia sulle rotte
transoceaniche.
Ha
scritto David Graeber:
«Nel
momento in cui Vasco de Gama entrò nell'Oceano Indiano nel 1498, il
principio per cui i mari erano zona di commercio pacifico fu
immediatamente eliminato. Le flottiglie portoghesi iniziarono a
saccheggiare ogni porto che arrivava loro a tiro, prendendo poi il
controllo di punti strategici ed estorcendo denaro in cambio di
protezione ai mercanti disarmati dell'Oceano Indiano, che non avevano
altra scelta se volevano continuare nella loro attività senza essere
molestati.»*
Chi
volesse, poi, rintracciare nella prima globalizzazione del '500 una
connessa funzione della finanza, troverebbe l'incredibile
arricchimento dei banchieri d'investimento italiani, olandesi e
tedeschi che ne detenevano le leve, in seno ai rapporti mercantili
(armati) tra Nuovo Mondo, Cina ed Europa.
*David
Graeber, “Debito”, il Saggiatore, 2012 (2011), pag. 302.
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Alla
lezione devono aver prestato grande attenzione i governi della Cina e
dell'India, a dispetto delle convinzioni del capo di Alibaba, quando
hanno ritenuto di doversi dotare di portaerei con l'ansia di
difendere le proprie rotte mercantili da minacce altrui...
Post
globalizzazione
Il
“gioco” è scompigliato da chi lo ha promosso.
Lo
Stato cedeva sovranità ai trattati internazionali, i quali, a loro
volta, tramite il sistema degli “arbitrati”, decretavano il
prevalere del diritto privato sul diritto pubblico di Paesi, regioni
e città. Tutto bene finché era la sovranità altrui a venire
manomessa, a proprio esclusivo vantaggio. Non più, quando l'unica
superpotenza vede intaccato il proprio ruolo dominante.
Perciò
il Grande Leviatano statunitense esce dalle quinte per mostrarsi
sulla scena globale, inducendo tutti gli Stati-nazione a ripensare
alla propria sovranità, a recuperare, se vogliono e possono, quella
ceduta. Per questo la riforma democratica della globalizzazione
appare tanto illusoria quanto velleitaria.
Per
gli “alleati europei” è uno shock: dovevano essere uniti, ma
hanno costruito solo un continente delle diseguaglianze tra classi,
popoli e Paesi, ad immagine e somiglianza della globalizzazione in
crisi. Mentre la Germania si riscopre troppo grande per l'Europa
eppure troppo piccola per il mondo, le “classi dirigenti”
italiane abbaiano alla luna, in bilico tra un Europa mai esistita ed
un mondo che non c'è più.
Per
nostra fortuna, ai “sovranismi” nazionalistici e fascistizzanti
può contrapporsi la resistenza di una società resa liquida e data
per liquidata, ma insospettabilmente viva ed ancora capace delle
migliori risposte. Come testimoniano gli esiti degli ultimi
referendum costituzionali.
Note
1
Andrea Valdambrini, “Avete sprecato il tesoro della
globalizzazione”, il Fatto Quotidiano, 3 febbraio 2017. Le
citazioni che seguono sono tutte tratte da questo articolo.
2
Traducibile in processo di “esternalizzazione”,
ovvero dare in appalto ad
una società esterna funzioni o servizi, o interi processi
produttivi, mantenendo per sé il core
business,
l'attività fonte dei guadagni. Una pratica possibile sia su scala
locale sia mondiale.
3
Vincendo in alcuni Stati del Midwest, Donald Trump conquistò la
maggioranza dei “grandi elettori”, avendo la meglio sulla
Clinton che pure ebbe la maggioranza dei voti espressi nelle urne.
4
Per il grafico riportato ed il rapporto con le crisi, vedasi:
http://goofynomics.blogspot.it/2013/11/produttivita-salari-crisi-logaritmi.html.
5
La
conferenza di Bretton Woods (1-22 luglio 1944) stabilì le regole
delle relazioni commerciali e finanziarie tra i principali paesi
industrializzati del mondo, da attuare nel dopo-guerra. Diede
origine ad un ordine monetario mondiale, incentrato sul dollaro
statunitense, voluto dagli Usa per governare i rapporti monetari tra
stati nazionali indipendenti.
6
Maria Rosaria Ferrarese, “Promesse mancate. Dove ci ha portato il
capitalismo finanziario”, Il Mulino, 2017, pag. 71. Con
riferimento a A.F.P. Bakker, “The Liberalization of Capital
Movements in Europe; The Monetary Committee and Financial
Integration 1958-1994”, Berlin, Springer, 1996.
7
Vedasi anche éric Laurent, “Le scandale des délocalisations”,
Plon, 2011.
8
Nel
1999, presidente Bill Clinton, negli States fu abrogata la
Glass-Steagall
Act del
1933 che separava le attività propriamente bancarie da quelle
assicurative e d'investimento.
9
Vedasi Milton Friedman, “Capitalismo e libertà”, Studio Tesi,
1987 (1962).
10
Fenomeno su cui si è soffermato Thomas Piketty, “Il capitale nel
XXI secolo”, Bompiani, 2014 (2013).
11
Nonostante gli annunciati disastri della Brexit, l'economia dello UK
sembra reggere proprio grazie al ruolo della City londinese.
12
http://www.ilsole24ore.com/art/notizie/2016-10-05/allarme-calenda-2017-crollo-commercio-mondiale-183418.shtml?uuid=ADMTkgWB
13
http://www.repubblica.it/economia/2017/02/09/news/germania_bilancia_commerciale_al_top_e_nel_2016_l_export_vola_a_1207_miliardi-157902113/.
14
Mi
riferisco alle misure del Dodd–Frank
Wall
Street Reform and Consumer Protection Act.
Divenuta legge federale il 21 luglio 2010, fu voluta da Barack Obama
in seguito al crack finanziario 2007-2008.
15
Enrico Marro, “Protezionismo? Gli Usa sono già al top (anche
prima di Trump)”, il Sole24ore, 23 gennaio 2017.
16
Fausto Biloslavo, “Obama ha il record di espulsi. Il buonista
batte anche Bush”, Il Giornale.it, 31 gennaio 2017.
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