lunedì 24 ottobre 2016

Mesopotamica


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Mesopotamica

Ancora una volta il popolo curdo rischia di pagare per il gioco di dominio occidentale.
Nella crisi della globalizzazione, i riassetti geopolitici non sono in grado di risolvere i problemi e dare stabilità.


Dabiq, Rojava, Kurdistan
Il 16 ottobre da Dabiq, piccolo centro siriano ai confini con la Turchia, è stato cacciato lo Stato Islamico (Isis). Alla liberazione della cittadina hanno partecipato l'Esercito Siriano Libero (ESL) e le forze armate turche, nell'ambito queste ultime dell'operazione “Scudo dell'Eufrate”. La campagna ebbe inizio ad agosto, quando l'esercito turco entrò in Siria contro il Califfato di Abu Bakr al-Baghdadi, ma prioritariamente per combattere i “terroristi” curdi siriani delle Unità di protezione del popolo, le Ypg (Yekîneyên Parastina Gel), armate anche da Washington contro l'Isis. L'obiettivo dichiarato del governo Erdogan è di impedire la sovranità curda sul territorio riunificato della Rojava e la creazione ai propri confini siriani di uno Stato curdo.
Messo alle strette, Obama tra i due alleati aveva scelto quello strategico turco e voltato per l'ennesima volta le spalle ai curdi1, costretti a ritirarsi ad est dell'Eufrate. D'altro canto Erdogan era appena scampato ad un tentativo di golpe ed imputava gli Stati Uniti, minacciando la solidità stessa della Nato, di avere avuto parte in causa nella fosca faccenda.
Tutti presi dalla “profezia islamica”2 e dal luogo simbolico3, i media italiani si sono “dimenticati” che Dabiq è in Rojava [vedi cartine geografiche in pagina], territorio curdo. La questione non è di poco conto, perché riguarda una lotta popolare di liberazione a carattere nazionale e, di converso, il ruolo dell'ESL.
L'Esercito Siriano Libero, presentato dall'Occidente come la componente più democratica ed affidabile del fronte anti-Assad, tende a radunare le sue residue forze nella “zona cuscinetto” stabilita in Siria dall'intervento militare turco, trasformandosi, di conseguenza, da forza di liberazione contro il regime siriano, in forza di occupazione, per conto di Ankara, di un territorio rivendicato dalla nazione curda.
Realismo
Sui media occidentali si è fatta strada l'idea che i confini di Siria Iraq Yemen e Libia (i cosiddetti “Stati falliti”4), tracciati dalle grandi potenze sulle ceneri dell'Impero ottomano, siano obsoleti e debbano essere ridisegnati.
Amano sfoggiare un encomiabile realismo.
I più critici riconoscono che sono stati commessi degli “errori”, con riferimento alle guerre dei Bush ed ai vari interventi militari nell'area, tra i quali quello in Libia, ma sorvolano bellamente sul fatto che la politica di Usa ed alleati al seguito ha voluto far fallire questi Stati, puntando espressamente sulla disgregazione interna e sull'inasprimento delle rivalità etniche, tribali e religiose. Hanno seguito il vecchio motto: divide et impera.
Allo scopo sono serviti anche i governi amici di Turchia ed Arabia Saudita, salvo poi rimproverare loro, ipocritamente, pesanti “ambiguità” nelle vicende che hanno consentito la nascita e l'affermazione dello stesso Stato Islamico. Appare davvero “strano” che governi abituati ad imporre micidiali misure di embargo, si siano trovati improvvisamente impotenti di fronte a consistenti flussi di denaro, armi e foreign figthers, a commerci di petrolio e reperti archeologici, vitali per l'esistenza dell'Isis.
Ora, però, si deve prendere atto della realtà e “pacificare”. Come? Ovviamente riconoscendo quella “realtà” che si è voluta determinare e cercando di ricomporre il puzzle, ritagliando pezzi che altrimenti non si incastrano.
Anche Angelo Panebianco, già fautore dell'Europa dei cannoni5, dalla prima del Corriere della sera6 auspica che una futura Conferenza di pace dia luogo ad una risistemazione estesa a tutta l'area mediorientale. Vinto il Califfato, alla Conferenza il compito di separare, su basi tribali e religiose, la popolazione araba che vive in Siria-Iraq, dando a ciascuna delle “comunità confessionali”, un proprio Stato.
A conti fatti, curdi a parte, i nuovi Stati sarebbero tre: uno sciita-alawita nella Siria costiera; uno sunnita, di mezzo, ad includere parti della Siria e dell'Iraq attuali7; uno sciita nell'Iraq centro-meridionale. In questa pacificazione mesopotamica andrebbe risolta anche la secolare questione nazionale curda, sicché ai tre se ne aggiungerebbe un quarto.
Questo criterio divisorio, secondo Panebianco, varrebbe anche per lo Yemen, situato a sud della penisola arabica, affacciato tra Mar Rosso e Golfo di Aden sulla rotta del Canale di Suez. Il Paese è a maggioranza sciita (famiglia zaidita) e viene da mesi bombardato dell'Arabia Saudita in appoggio ai sunniti locali.
Afghanistan (20-25% di sciiti) e Libano (due quinti) non figurano nella ridefinizione dei confini e resta da capire a quale futuro sarebbe destinato il piccolo ma strategico Bahrein, sul Golfo Persico, dove la maggioranza sciita è oppressa e repressa, con la benevolenza occidentale, da un re sunnita sotto protezione saudita.
In Libia, divisa da appartenenze “solo” tribali, sponsorizzate però da vari Stati e da multinazionali dell'energia, par di capire si potrebbe arrivare ad una soluzione condivisa da tutte le componenti in campo, con una mediazione internazionale a cui contribuirebbe l'indaffarato governo italiano.

Bombe amiche
Le cronache quotidiane ci consegnano immagini strazianti di bambini e civili colpiti dall'aviazione russa che opera in appoggio alle truppe di Damasco. Per snidare dai quartieri orientali di Aleppo le milizie ribelli, Putin ed Assad fanno tabula rasa compiendo stragi tra la popolazione intrappolata negli scontri.
Senonché in questo giorni gli stessi media, nei reportages sull'offensiva dell'esercito di Baghdad e dei peshmerga curdo-iracheni per sottrarre Mosul all'Isis, informano che i raids aerei ed i colpi delle artiglierie, di Usa ed alleati in loro appoggio, “potrebbero” fare vittime civili. Questo perché il Califfato usa le popolazioni come “scudi umani” ed i trafficanti hanno alzato il “prezzo della fuga” per coloro che possono pagarlo.
Se ne deduce che le milizie fondamentaliste islamiche (tra le quali quelle dell'Isis e di al-Nusra) ad Aleppo est si stanno comportando in modo diverso da quelle del Califfato in Iraq.
Solo così sarebbe spiegabile il motivo per cui le vittime civili dei “nostri” bombardamenti sarebbero effetti collaterali non voluti, mentre i bombardamenti “loro” (dei russi) sarebbero, quelli sì, i soli ad essere cinici e sanguinari.


...e Realpolitik
Sulla via della “pacificazione” ci sono però parecchi ostacoli, superabili con una sorta di Realpolitik.
Non si tratta solo di eliminare l'Isis, ma, secondo Panebianco, di affidare alle “grandi potenze” la prima mossa, lasciando l'ultima agli attori locali, ai quali le soluzioni non possono essere imposte.
Tra gli attori locali figurano i vari raggruppamenti etnici, tribali e confessionali, sortiti dalla disgregazioni degli “Stati falliti”, ma pure potenze di teatro quali la Turchia, l'Arabia Saudita e l'Iran.
Su come “sistemare” il conflitto tra queste ultime due il columnist del Corriere tace. E neppure menziona la questione israelo-palestinese, incontestabilmente uno dei punti nevralgici se non la madre della crisi mediorientale. In tal modo disegna una geopolitica mesopotamica ristretta su misura per la propria idea di risistemazione.
Invece la Turchia, forse perché, oltre ad occupare la menzionata “zona cuscinetto” in Rojava, è direttamente impegnata pure in Iraq, dovrebbe ricevere delle “ricompense” non meglio precisate ed in particolare da chi sarebbero pagate. Al momento sembrano i curdi a doverlo fare, in contraddizione con la soluzione per loro prospettata nell'articolo.8
In qualsiasi modo in quest'area così definita (e ristretta), una Realpolitik non comporterebbe solo il coinvolgimento consensuale delle forze locali, ma anche l'adozione di una strategia che sappia cointeressare i russi riducendoli, al contempo, alla ragione. Pertanto Panebianco sostiene: «Con un “falco” antirusso come Clinton alla Casa Bianca, potrebbero calmarsi, ridurre l'attuale eccesso di aggressività. Per paradosso, proprio un presidente tutt'altro che compiacente verso i russi potrebbe allettarli riconoscendo loro lo status internazionale che essi vogliono.»
Giovanni Battista Piranesi, Arco gotico
Geopolitiche del dominio
Non ripeterò qui i motivi per cui la Federazione Russa “eccede in aggressività”.
Se, per un verso, un braccio di ferro tra “falchi” alla Casa Bianca ed al Cremlino rischia di precipitare il mondo in una pericolosa escalation, per l'altro è dar prova si scarso realismo pensare che Putin si possa accontentare di un formale riconoscimento di status, senza chiedere dimostrazioni concrete di abbandono della nuova guerra fredda che, in Siria come in Ucraina, è divenuta furiosamente calda.
È questa la direzione in cui vorrà andare la futura presidenza degli Stati Uniti? Cosa significherebbe per l'espansionismo della Nato in Europa? E quali corrispondenze avrebbe nel Pacifico rispetto alla Cina e, più ampiamente, con il reiterato tentativo di tenere i Paesi emergenti (non solo i BRICS) in posizione subalterna?
Inoltre, la soluzione geopolitica mesopotamica, per quanto focalizzata, non fa i conti con le irrisolte criticità interne all'area.
Quanto reggerebbe il Regno Saudita se smettesse di fungere da centro propagatore del fondamentalismo jihadista salafita, in contrasto con l'Iran sciita?
Per “rassicurare” Erdogan, il futuro Kurdistan dovrebbe limitarsi al nord dell'odierno Iraq, escludendo la Rojava ed i diritti della minoranza curda in Turchia.
I nuovi “staterelli”, fondati sull'appartenenza religiosa e tribale, sarebbero comunque instabili, in perenne conflitto interno ed esterno perché alla continua ricerca della “omogeneità identitaria” e dediti, di conseguenza, all'esercizio della “pulizia etnica” in reciproco contrasto.
A ben vedere e nonostante gli sforzi per presentarla come innovativa, una pacificazione siffatta si fonda su vecchie logiche spartitorie, su giochi di equilibrio tra potenze grandi e piccole, nonché sulla riesumazione delle rivalità identitarie tanto care al fu colonialismo. In questo generale tripudio di “passatismo” ogni riassetto geopolitico mesopotamico in Medio Oriente risulterà precario, solo un momentaneo passaggio tra questa crisi e la prossima.
Occorre andare oltre.
In generale va bandito lo strumento della guerra ed il reiterato ricorso al diktat delle armi per la soluzione delle controversie internazionali.
In particolare, semmai non sia venuto ancora una volta in chiaro, va rovesciata innanzitutto la pretesa unipolare di dominare il mondo restando al timone di una globalizzazione in piena crisi. Magari cercando soluzioni geopolitiche locali, tanto funzionali a tale pretesa quanto illusorie di stabile pace.

Note
1 Sui voltafaccia Usa verso il popolo curdo vedi anche http://znetitaly.altervista.org/art/19322.
2 La profezia si ritrova nell'Hadith (Racconto), parte della Sunna, l'insieme dei testi della dottrina. L'Hadith 6924 recita: "L'ultima ora suonerà solo quando i Romani arriveranno a Dabiq. Allora verrà da Medina per contrastarli un esercito formato dagli uomini migliori dei popoli della terra".
3 Tanto che il Califfato pubblica una rivista intitolata, appunto, “Dabiq”.
4 Si noti che dall'elenco viene sistematicamente derubricato l'Afghanistan.
5 In questo Blog, vedi il post “Cul de sac”, febbraio 2016.
6 Angelo Panebianco, “L'illusione di poter salvare i confini di Iraq e Siria”, Corriere della sera, 17 ottobre 2016.
7 Territorio sul quale si è installato l'ISIS (Islamic State of Iraq and Syria).
8 Nell'articolo citato Panebianco scrive: «Ai turchi dovranno essere date, certamente, compensazioni varie ma ciò che non trovò soluzione, uno sbocco accettabile, al termine della Prima guerra mondiale, dovrà trovarlo (a beneficio dei curdi ma anche della stabilizzazione dell'area) un secolo dopo.»

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