Ancora
una volta il popolo curdo rischia di pagare per il gioco di dominio
occidentale.
Nella
crisi della globalizzazione, i riassetti geopolitici non sono in
grado di risolvere i problemi e dare stabilità.
Dabiq,
Rojava, Kurdistan
Il
16 ottobre da Dabiq, piccolo centro siriano ai confini con la
Turchia, è stato cacciato lo Stato Islamico (Isis).
Alla liberazione della cittadina hanno partecipato l'Esercito
Siriano Libero (ESL) e le forze armate turche, nell'ambito queste
ultime dell'operazione “Scudo dell'Eufrate”. La campagna ebbe
inizio ad agosto, quando l'esercito turco entrò in Siria contro il
Califfato di Abu
Bakr al-Baghdadi,
ma prioritariamente per combattere i “terroristi” curdi siriani
delle Unità di protezione del popolo, le Ypg (Yekîneyên Parastina
Gel), armate
anche da Washington contro l'Isis. L'obiettivo dichiarato del governo
Erdogan è di impedire la sovranità curda sul territorio riunificato
della Rojava e la creazione ai propri confini siriani di uno Stato
curdo.
Messo
alle strette, Obama tra i due alleati aveva scelto quello strategico
turco e voltato per l'ennesima volta le spalle ai curdi1,
costretti a ritirarsi ad est dell'Eufrate. D'altro canto Erdogan era
appena scampato ad un tentativo di golpe ed imputava gli Stati Uniti,
minacciando la solidità stessa della Nato, di avere avuto parte in
causa nella fosca faccenda.
Tutti
presi dalla “profezia islamica”2
e dal luogo simbolico3,
i media italiani si sono “dimenticati” che Dabiq è in Rojava
[vedi
cartine geografiche in pagina],
territorio curdo. La questione non è di poco conto, perché riguarda
una lotta popolare di liberazione a carattere nazionale e, di
converso, il ruolo dell'ESL.
L'Esercito
Siriano Libero, presentato dall'Occidente come la componente più
democratica ed affidabile del fronte anti-Assad, tende a radunare le
sue residue forze nella “zona cuscinetto” stabilita in Siria
dall'intervento militare turco, trasformandosi, di conseguenza, da
forza di liberazione contro il regime siriano, in forza di
occupazione, per conto di Ankara, di un territorio rivendicato dalla
nazione curda.
Realismo
Sui
media occidentali si è fatta strada l'idea che i confini di Siria
Iraq Yemen e Libia
(i cosiddetti “Stati falliti”4),
tracciati dalle grandi potenze sulle
ceneri dell'Impero ottomano, siano obsoleti e debbano essere
ridisegnati.
Amano
sfoggiare un encomiabile realismo.
I
più critici riconoscono che sono stati commessi degli “errori”,
con riferimento alle guerre dei Bush ed ai vari interventi militari
nell'area, tra i quali quello in Libia, ma sorvolano bellamente sul
fatto che la politica di Usa ed alleati al seguito ha voluto far
fallire questi Stati, puntando espressamente sulla disgregazione
interna e sull'inasprimento delle rivalità etniche, tribali e
religiose. Hanno seguito il vecchio motto: divide et impera.
Allo
scopo sono serviti anche i governi amici di Turchia ed Arabia
Saudita, salvo poi rimproverare loro, ipocritamente, pesanti
“ambiguità” nelle vicende che hanno consentito la nascita e
l'affermazione dello stesso Stato Islamico. Appare davvero “strano”
che governi abituati ad imporre micidiali misure di embargo,
si siano trovati improvvisamente impotenti di fronte a consistenti
flussi di denaro, armi e foreign figthers, a commerci di
petrolio e reperti archeologici, vitali per l'esistenza dell'Isis.
Ora,
però, si deve prendere atto della realtà e “pacificare”. Come?
Ovviamente riconoscendo quella “realtà” che si è voluta
determinare e cercando di ricomporre il puzzle,
ritagliando
pezzi che altrimenti non si incastrano.
Anche
Angelo Panebianco, già fautore dell'Europa dei cannoni5,
dalla prima del Corriere
della sera6
auspica che una futura Conferenza di pace dia luogo ad una
risistemazione estesa a tutta l'area mediorientale. Vinto il
Califfato, alla Conferenza il compito di separare, su basi tribali e
religiose, la popolazione araba che vive in Siria-Iraq, dando a
ciascuna delle “comunità confessionali”, un proprio Stato.
A
conti fatti, curdi a parte, i nuovi Stati sarebbero tre: uno
sciita-alawita nella Siria costiera; uno sunnita, di mezzo, ad
includere parti della Siria e dell'Iraq attuali7;
uno sciita nell'Iraq centro-meridionale. In questa pacificazione
mesopotamica
andrebbe risolta anche la secolare questione nazionale curda, sicché
ai tre se ne aggiungerebbe un quarto.
Questo
criterio divisorio, secondo Panebianco, varrebbe anche per lo Yemen,
situato a sud della penisola arabica, affacciato tra Mar Rosso e
Golfo di Aden sulla rotta del Canale di Suez. Il Paese è a
maggioranza sciita (famiglia zaidita) e viene da mesi bombardato
dell'Arabia Saudita in appoggio ai sunniti locali.
Afghanistan
(20-25% di sciiti) e Libano (due quinti) non figurano nella
ridefinizione dei confini e resta da capire a quale futuro sarebbe
destinato il piccolo ma strategico Bahrein, sul Golfo Persico, dove
la maggioranza sciita è oppressa e repressa, con la benevolenza
occidentale, da un re sunnita sotto protezione saudita.
In
Libia, divisa da appartenenze “solo” tribali, sponsorizzate però
da vari Stati e da multinazionali dell'energia, par di capire si
potrebbe arrivare ad una soluzione condivisa da tutte le componenti
in campo, con una mediazione internazionale a cui contribuirebbe
l'indaffarato governo italiano.
Bombe amiche
Le cronache quotidiane ci consegnano immagini strazianti di bambini e civili colpiti dall'aviazione russa che opera in appoggio alle truppe di Damasco. Per snidare dai quartieri orientali di Aleppo le milizie ribelli, Putin ed Assad fanno tabula rasa compiendo stragi tra la popolazione intrappolata negli scontri.
Senonché in questo giorni gli stessi media, nei reportages sull'offensiva dell'esercito di Baghdad e dei peshmerga curdo-iracheni per sottrarre Mosul all'Isis, informano che i raids aerei ed i colpi delle artiglierie, di Usa ed alleati in loro appoggio, “potrebbero” fare vittime civili. Questo perché il Califfato usa le popolazioni come “scudi umani” ed i trafficanti hanno alzato il “prezzo della fuga” per coloro che possono pagarlo.
Se ne deduce che le milizie fondamentaliste islamiche (tra le quali quelle dell'Isis e di al-Nusra) ad Aleppo est si stanno comportando in modo diverso da quelle del Califfato in Iraq.
Solo così sarebbe spiegabile il motivo per cui le vittime civili dei “nostri” bombardamenti sarebbero effetti collaterali non voluti, mentre i bombardamenti “loro” (dei russi) sarebbero, quelli sì, i soli ad essere cinici e sanguinari.
...e
Realpolitik
Sulla
via della “pacificazione” ci sono però parecchi ostacoli,
superabili con una sorta di Realpolitik.
Non
si tratta solo di eliminare l'Isis, ma, secondo Panebianco, di
affidare alle “grandi potenze” la prima mossa, lasciando l'ultima
agli attori locali, ai quali le soluzioni non possono essere imposte.
Tra
gli attori locali figurano i vari raggruppamenti etnici, tribali e
confessionali, sortiti dalla disgregazioni degli “Stati falliti”,
ma pure potenze di teatro quali la Turchia, l'Arabia Saudita e
l'Iran.
Su
come “sistemare” il conflitto tra queste ultime due il columnist
del Corriere
tace. E neppure menziona la questione israelo-palestinese,
incontestabilmente uno dei punti nevralgici se non la madre della
crisi mediorientale. In tal modo disegna una geopolitica
mesopotamica
ristretta su misura per la propria idea di risistemazione.
Invece
la Turchia, forse perché, oltre ad occupare la menzionata “zona
cuscinetto” in Rojava, è direttamente impegnata pure in Iraq,
dovrebbe ricevere delle “ricompense” non meglio precisate ed in
particolare da chi sarebbero pagate. Al momento sembrano i curdi a
doverlo fare, in contraddizione con la soluzione per loro prospettata
nell'articolo.8
In
qualsiasi modo in quest'area così definita (e ristretta), una
Realpolitik non comporterebbe solo il coinvolgimento
consensuale delle forze locali, ma anche l'adozione di una strategia
che sappia cointeressare i russi riducendoli, al contempo, alla
ragione. Pertanto Panebianco sostiene: «Con un
“falco” antirusso come Clinton alla Casa Bianca, potrebbero
calmarsi, ridurre l'attuale eccesso di aggressività. Per paradosso,
proprio un presidente tutt'altro che compiacente verso i russi
potrebbe allettarli riconoscendo loro lo status internazionale che
essi vogliono.»
Geopolitiche del dominio
Non ripeterò qui i motivi per cui la Federazione Russa “eccede in aggressività”.
Non ripeterò qui i motivi per cui la Federazione Russa “eccede in aggressività”.
Se,
per un verso, un braccio di ferro tra “falchi” alla Casa Bianca
ed al Cremlino rischia di precipitare il mondo in una pericolosa
escalation, per l'altro è dar prova si scarso realismo
pensare che Putin si possa accontentare di un formale riconoscimento
di status, senza chiedere dimostrazioni concrete di abbandono
della nuova guerra fredda che, in Siria come in Ucraina, è divenuta
furiosamente calda.
È
questa la direzione in cui vorrà andare la futura presidenza degli
Stati Uniti? Cosa significherebbe per l'espansionismo della Nato in
Europa? E quali corrispondenze avrebbe nel Pacifico rispetto alla
Cina e, più ampiamente, con il reiterato tentativo di tenere i Paesi
emergenti (non solo i BRICS) in posizione subalterna?
Inoltre,
la soluzione geopolitica mesopotamica, per quanto focalizzata,
non fa i conti con le irrisolte criticità interne all'area.
Quanto
reggerebbe il Regno Saudita se smettesse di fungere da centro
propagatore del fondamentalismo jihadista salafita, in contrasto con
l'Iran sciita?
Per
“rassicurare” Erdogan, il futuro Kurdistan dovrebbe limitarsi al
nord dell'odierno Iraq, escludendo la Rojava ed i diritti della
minoranza curda in Turchia.
I
nuovi “staterelli”, fondati sull'appartenenza religiosa e
tribale, sarebbero comunque instabili, in perenne conflitto interno
ed esterno perché alla continua ricerca della “omogeneità
identitaria” e dediti, di conseguenza, all'esercizio della “pulizia
etnica” in reciproco contrasto.
A
ben vedere e nonostante gli sforzi per presentarla come innovativa,
una pacificazione siffatta si fonda su vecchie logiche spartitorie,
su giochi di equilibrio tra potenze grandi e piccole, nonché sulla
riesumazione delle rivalità identitarie tanto care al fu
colonialismo. In questo generale tripudio di “passatismo” ogni
riassetto geopolitico mesopotamico in Medio Oriente risulterà
precario, solo un momentaneo passaggio tra questa crisi e la
prossima.
Occorre
andare oltre.
In
generale va bandito lo strumento della guerra ed il reiterato ricorso
al diktat delle armi per la soluzione delle controversie
internazionali.
In
particolare, semmai non sia venuto ancora una volta in chiaro, va
rovesciata innanzitutto la pretesa unipolare di dominare il mondo
restando al timone di una globalizzazione in piena crisi. Magari
cercando soluzioni geopolitiche locali, tanto funzionali a tale
pretesa quanto illusorie di stabile pace.
Note
1
Sui voltafaccia Usa verso il popolo curdo vedi anche
http://znetitaly.altervista.org/art/19322.
2
La profezia si ritrova nell'Hadith (Racconto), parte della Sunna,
l'insieme dei testi della dottrina. L'Hadith 6924 recita: "L'ultima
ora suonerà solo quando i Romani arriveranno a Dabiq. Allora verrà
da Medina per contrastarli un esercito formato dagli uomini migliori
dei popoli della terra".
3
Tanto che il Califfato pubblica una rivista intitolata, appunto,
“Dabiq”.
4
Si noti che dall'elenco viene sistematicamente derubricato
l'Afghanistan.
5
In questo Blog, vedi il post “Cul de sac”, febbraio 2016.
6
Angelo Panebianco, “L'illusione di poter salvare i confini di Iraq
e Siria”, Corriere della sera, 17 ottobre 2016.
7
Territorio sul quale si è installato l'ISIS (Islamic
State of Iraq and Syria).
8
Nell'articolo citato Panebianco scrive: «Ai turchi dovranno essere
date, certamente, compensazioni varie ma ciò che non trovò
soluzione, uno sbocco accettabile, al termine della Prima guerra
mondiale, dovrà trovarlo (a beneficio dei curdi ma anche della
stabilizzazione dell'area) un secolo dopo.»
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