Petrolio & Bombe [Clicca sul titolo se vuoi scaricare l'articolo in formato PDF]
Le
questioni energetiche, monetarie e commerciali s'intrecciano con
quelle militari. Siria contesa nel Grande Medio Oriente devastato
dalle guerre. La Russia risponde a Stati Uniti ed Europa, che mancano
di una strategia complessiva e unitaria.
- Dai primi mesi del 2014 il prezzo del barile si è più che dimezzato.[Vedi grafico Prezzo del Petrolio Greggio]La Russia ne ha sofferto per prima; ora è la volta dello shale oil Usa, in forte difficoltà.
- Le grandi immissioni di liquidità (Quantitative easing) sono svalutazioni che favoriscono la competitività della propria economia a scapito di quella altrui. [Vedi grafico Tassi di cambio] Dopo quelle di Usa e Giappone, è in corso quella della Bce di Mario Draghi.
- In controtendenza, la Banca centrale cinese ad agosto, per difendere il cambio, ha ridotto la liquidità sui
Tassi di cambio euro-dollaro ed euro-sterlina
Variazioni percentuali - Anche il settore dell'auto è coinvolto
Petrolio,
as usual?
Trainato
dai consumi interni e dagli investimenti, il Pil statunitense è dato
a +3,9% nell'anno. Tutto bene? Non proprio. Atteso a settembre, il
rialzo del tasso d'interesse di base (al momento pari allo 0,25%), da
cui dipende il costo del denaro, è stato posticipato a fine 2015
dalla Fed, la banca centrale federale.
Pesano
l'andamento dell'inflazione negli States
che, al netto dell'energia, è quasi a zero, ma pure l'incognita
della politica finanziaria e valutaria di Pechino. Ai diversi fattori
d'instabilità partecipa il calo generale delle materie prime ed in
particolare del petrolio, sceso attorno ai 50 dollari al barile.
A
fronte ad un'offerta globale di greggio sovradimensionata, rispetto
ad una domanda complessivamente debole, l'Arabia Saudita ha rifiutato
di abbassare la propria produzione, trascinando sulla propria linea
l'OPEC (Organization of the Petroleum
Exporting Countries).
Il
reame arabo, con 10,3 milioni di barili estratti giornalmente, è al
terzo posto nella graduatoria mondiale, dopo gli Usa, saliti
repentinamente negli ultimi anni a 12,6 milioni di barili al giorno,
e la Russia a quota 11. La linea dell'OPEC rischia di creare seri
problemi agli Stati Uniti.
«Lo
zio Sam costretto a spegnere le trivelle.»2
Causa il barile a basso prezzo sul mercato mondiale, la produzione
Usa è scesa di 200 mila barili/giorno e nel 2016 la contrazione
attuale potrebbe arrivare a -400 mila barili/giorno: è in corso la
crisi dello shale oil.
Il
fracking, l'estrazione
di carburante e gas da frantumazione delle rocce, ha registrato il
fallimento di 16 aziende del settore petrolifero. Sicché la miriade
di micro-imprese dei cowboys della trivellazione, già
sottoposta alla “selezione naturale del mercato” ossia ad un
processo di concentrazione “dei più adatti” sul piano
finanziario e tecnologico, vede vieppiù assottigliarsi le proprie
file.
Ne
può risentire l'occupazione ed il programma di stabilizzazione di
Janet Yellen a capo della Fed.
A
livello globale la caduta del prezzo del petrolio fu vista quasi
unicamente per le sue conseguenze sull'economia russa. Finché Paesi
come l'Italia ne approfittavano ed era Mosca a patirne, tutto andava
bene; ora il problema diventa anche europeo per l'importanza della
ripresa Usa ai fini del superamento della stagnazione del vecchio
continente.
Dato
l'enorme accumulo di riserve petrolifere ed il surplus produttivo,
gli Stati Uniti potrebbero essere indotti ad abolire una legge del
1975, che vieta le esportazioni di prodotti petroliferi non
raffinati. Ma i prezzi dovrebbero risalire, pagati da nuovi clienti
esteri disposti a comprare. Quali? L'Europa, l'America Latina, il
Giappone, l'India, la Cina?3
Una
platea vasta quanto indeterminata.
Come
conseguire un rialzo del prezzo del barile e al contempo l'acquisto
del proprio barile? Come correlare la spinta commerciale alle
strategie politiche di Obama in zone nevralgiche del pianeta?
Connessioni.
Contrariamente
a quanto è successo negli anni sessanta e novanta, all'attuale fase
di caduta del prezzo delle materie prime (commodities) non
corrisponde un'adeguata espansione dell'economia mondiale. La
ragione risiede nella flebile domanda generata dalla crisi o dalla
minore crescita, rispetto alle attese, di Paesi quali Cina, Russia e
Brasile.
Secondo
alcuni analisti, per i Paesi del mondo post-industriale le speranze
sarebbero riposte in «un'ondata
di innovazioni tecnologiche»4,
non potendo le banche centrali continuare all'infinito nella pratica
di sostegno basata su forti immissioni quantitative di liquidità.
Al
momento si registrano due fenomeni in qualche modo connessi:
-
la corsa di Wall Street, con continui rialzi da 78 mesi, ha subito un
tonfo nel terzo trimestre (luglio-settembre), secondo misurazione dei
vari indici attorno a -7%;
-
«Dall'Arabia Saudita al Kuwait, dal Qatar alla Norvegia i fondi
sovrani vedono bruciare miliardi dei loro portafogli. Colpa della
discesa dei prezzi delle materie prime, della crisi cinese e dei
tassi ai minimi. E ora anche della Volkswagen.»5
A
tutti è nota l'importanza del Golfo per il controllo delle riserve
energetiche globali.6
Come ben nota è la motivazione materiale delle guerre dei Bush
contro Saddam Hussein.
Meno
nota, forse, è la connessione tra l'elevata produzione (e la
raggiunta autosufficienza) petrolifera degli Stati Uniti ed il loro
proposito di progressivo disimpegno militare diretto dal Grande Medio
Oriente, all'interno del quale il Golfo gioca un ruolo chiave.
Ambiguità.
Ciò
può contribuire ad interpretare l'attivismo di tradizionali alleati
come i reami arabi. Questi ultimi sentono la necessità di difendere
la loro posizione sia economica che politico-strategica. Il che
spiega l'atteggiamento dell'Arabia Saudita sul fronte del prezzo
dell'oro nero e all'interno del cosiddetto fondamentalismo islamico,
in particolare nella crisi siriana [vedi
Scheda SIRIA a parte]. Se
appare chiara la prima (business is business!), assai più
“ambigua” è la seconda.
A
Ryad governa un regime assoluto wahabita, che, avversando in primo
luogo la “mezzaluna crescente sciita”7,
manovra da anni all'interno delle fazioni sunnite passatiste8.
In Siria finanzia il Fronte Islamico che collabora con al-Nusra
(aderente ad al-Qaeda), con l'obiettivo comune di crearvi un Emirato
islamico nazionale.
La
fazione di al-Baghdadi deriva da una scissione di al-Nusra in Siria.
Inizialmente fece parte dell'alleanza, supportata dagli Stati Uniti9,
per rovesciare il regime di al-Assad. Entrò in rotta di collisione
con essi quando, incapace di sfondare in territorio siriano, le sue
milizie dilagarono in Iraq e si impossessarono di alcuni importanti
pozzi petroliferi, dando vita allo Stato Islamico dell'Iraq e del
Levante (ISIL o ISIS) e scindendosi da al-Qaeda, contraria al
Califfato transnazionale. La sua presenza in Libia è successiva.
L'ISIL
non avrebbe potuto avere successo senza molte connivenze,
specificatamente di Turchia ed Arabia Saudita, ma anche di almeno una
parte dell'establishment nordamericano, dati gli stretti
legami finanziari di Wall Street con le monarchie dei petrodollari. A
di là di complotti ed operazioni sotto copertura, rimangono fatti
accertati e pubblici:
- ben 30mila foreign figthers si sono trasferiti in zona, grazie a Stati più interessati a liberarsi di potenziali terroristi interni che di impedire il reclutamento jihadista;
- il commercio di petrolio ed armi per la Jihad si avvale di vie e piazze internazionali protette;
- forti finanziamenti raggiungono milizie jihadiste sunnite che sono contigue, giacché pur divise confluiscono su obiettivi comuni.
In
ogni caso, il Califfato, combattendo contro il regime di Damasco e la
“mezzaluna crescente sciita”, portava acqua sia al mulino
dell'Occidente che a quello del governo di Israele.
Vuoto
strategico e bombe.
Le
cose si sono complicate con gli attentati terroristici, come quello a
Charlie Hebdo, e per le esibite brutalità del neonato Stato
Islamico (ISIL), contro il quale si è messa in moto una
poderosa macchina mediatica. Di conseguenza, di fronte all'opinione
pubblica internazionale, è diventato assolutamente prioritario
eliminare l'”incombente minaccia”, rispetto all'obiettivo
precedente di rovesciare in primis Bashar al-Assad.
Nella
palese contraddizione si è inserito Putin.
Il
cambio di priorità è facilitato dal recente accordo di Washington
con l'Iran10
sulla questione del nucleare ed introduce la possibilità di una
seppur transitoria collaborazione con la Russia, che ha “rinvigorito”
la propria presenza militare diretta.
Contrario
all'accordo con l'Iran e contrariato dalla piega presa dagli eventi,
Benjamin Netanyahu ha dovuto recarsi a
Mosca per sondare le intenzioni di Putin, ufficialmente solo per le
alture del Golan occupate.
Intanto
Angela Merkel ha sostenuto che «Assad
deve essere coinvolto nei negoziati»11
e il governo Renzi avverte di non ripetere in Siria
l'esperienza libica, quando i soliti “volenterosi” eliminarono
Gheddafi alla cieca. In Europa prevale su tutto la preoccupazione
energetica.
In
questo contesto Putin ha preso l'iniziativa dal pulpito dell'ONU,
mettendosi “legalmente” alla testa della “lotta internazionale
al terrorismo” già dichiarata dall'Occidente. Ben sapendo che la
partita locale è sì collegata a quella ucraina, ma assai più
complessiva.
Pressata
ai confini dalla Nato, sanzionata dall'Occidente, colpita dalla
caduta del prezzo del barile, fuori dal G7 (ex G8) e dal TTIP, il
Transatlantic Trade and Investment Partnership
(tra Usa e Ue, un trattato in superficie “appena” commerciale e
finanziario) da cui è deliberatamente esclusa, la Russia
cerca di uscire dall'angolo e sembra avere spazio ed idee chiare per
farlo.
Infatti,
l'intervento militare russo gode di uno specifico vantaggio
strategico: i suoi bombardamenti coinvolgono in modo devastante
inermi popolazioni civili, al pari di quelli occidentali, ma, a
differenza di queste, sono disposti a supporto di forze armate
operative sul terreno più compatte, in grado di potersene
avvantaggiare. Putin, quando chiede di coordinare tutti i
bombardamenti, sa che Washington non può definire alcune forze
jihadiste sul terreno come “al 100%” terroristi.12
In
quale strategia militare può situarsi la corsa ai bombardamenti
aerei degli Stati Uniti, della Francia e, forse, dell'Italia? Su
quali forze politiche, nella complicata situazione siriana, possono
effettivamente contare in futuro? Non si rischia di ripetere
l'esperienza fallimentare dell'Iraq?
Cosa
rimane di tanto cianciare “umanitario” sui destini delle
martoriate popolazioni civili?
Un rapporto difficile |
Considerazioni
non finali.
Nell'agone
economico globale piuttosto instabile e perturbato irrompono gli
Stati.
La
pretesa liberista e liberale di consegnare al (il) mondo (ad)
un'economia di mercato a cui assegnare regole neutrali che esonerino
gli Stati dall'interventismo egemonico e, al contempo, rendano
superflua l'autodifesa nell'esercizio politico della sovranità
popolare, democratica e nazionale, si rivela un'utopia deleteria se
non una funzionale coperta ideologica.
Nel
concreto svolgersi delle contraddizioni (nell'intreccio sommariamente
sopra descritto) sopravviene l'egemonismo degli Stati e la messa in
campo della loro potenza bellica. Ad essa dovrà necessariamente
contrapporsi la resistenza di Paesi, nazioni e popoli nella ripresa
della loro sovranità, sia coinvolti nelle guerre, e tanto più come
“oggetti”, vittime designate, che come presunti “soggetti
dominanti” (come suppone di essere l'Italia) delle avventure
belliche.
Tuttavia,
va sottolineato, sinora l'esercizio della potenza militare nell'area
ha comportato più problemi di quanti ne abbia risolti, mostrando il
volto del fallimento. Insistere è estremamente rischioso.
Nel
generale disordine, in cui divampano conflitti valutari commerciali e
militari, tenere sotto controllo tutti i fattori del vecchio dominio,
compreso il primato del dollaro, per ricondurli ad un piano unitario
a sé favorevole, diviene, per la massima superpotenza globale ed i
suoi amici europei, sempre più una missione impossibile.
1
Marcello Minenna, Corriere Economia, pag. 7, 28/09/2015; scrive di
“Quantitative Tightening”: “Quantitative easing” al
contrario.
2
Maria Teresa Cometto, Corriere Economia, pag. 2, 22/09/2015.
3
Andrea Montanino, Corriere Economia, pag. 3, 22/09/2015.
4
Leonardo Maugeri, La Repubblica Affari&Finanza, pag. 10,
5/10/2015.
5
Paola Jadeluca, La Repubblica Affari&Finanza, pag. 12,
5/10/2015.
6
I
Paesi del Golfo detengono il 48 per cento delle risorse globali
accertate di petrolio e il 43 per cento di quelle di gas.
7
Governo siriano, Iran, sciiti iracheni ed Hezbollah libanesi.
8
Forze volte, tramite la Jihad, al ripristino di un Islam e di
istituzioni politiche (sharia, emirati, califfati, ecc.) portando la
storia a ritroso nel passato.
9
Circolò foto di riunione con Mc Cain, partecipe al Baghdadi.
10
Il quale permette al'Iran (produttore di petrolio) il definitivo
sblocco finanziario e commerciale, già iniziato nel gennaio 2014.
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