giovedì 19 febbraio 2015

La corda e il nodo scorsoio

Riccardo Bernini - febbraio 2015

Storia che parla al presente

La corda e il nodo scorsoio 

[Clicca sul titolo se vuoi scaricare l'articolo in formato PDF, corredato di foto, vignette, grafici e riquadri.]

Breve viaggio alle origini dei debiti d'Italia. Le politiche delle élites per strutturare l'attuale Europa delle asimmetrie sociali e territoriali. Ne è nato un potere centrale, a moneta unica, sovrapposto alle sovranità democratiche. Popoli con il cappio al collo?

Il racconto storico muta con lo scorrere del presente. Nel corso degli ultimi anni s'è discusso molto sulle cause della grande crisi che ha investito l'Occidente. Ma più di cento convegni e testi della triste scienza (e, volendo, per permetterci di rileggerli con maggiore distintiva lucidità), poté l'effetto chiarificatore della vicenda politica nel suo pratico svolgersi.

Grecia chiama Italia
Europa ed Eurozona sono di fronte ad un vero e proprio "semestre greco".1 Va colta l'occasione per scavare tra le motivazioni di fondo del nuovo governo Tsipras, ponendole in relazione sia al caso italiano sia alle asimmetrie strutturali europee affermatesi negli ultimi decenni.
Di fronte abbiamo la richiesta della Grecia di ricontrattare il debito, detenuto per il 68% dall'Europa2 e per il 12% dal Fondo Monetario Internazionale. La soluzione di questo problema è ritenuta essenziale per rimediare alla crisi umanitaria e, con maggior respiro, porre mano alla ricostruzione delle basi economiche del Paese.
Senza liberarsi dall'austerità imposta dalla Troika e dal peso della restituzione degli interessi sul debito (se non di parte del debito medesimo), la Grecia non ha futuro, perché le vengono sottratte le risorse necessarie agli investimenti. Senza investimenti pubblici e privati non può riprendere fiato l'economia; non possono ripartire il mercato interno, l'occupazione, le retribuzioni e la domanda aggregata. A queste ultime è collegata la ripresa delle produzioni territoriali, nazionali, in grado di ribilanciare gli squilibri degli scambi con l'estero intra-europei ed internazionali, all'origine del debito.
Eccoci al punto: la Grecia deve invertire la tendenza alla deindustrializzazione e alla distruzione delle proprie produzioni, fenomeno di cui sono vittime tutte le periferie, Italia compresa.
Quando il ministro dell'economia Yanis Varoufakis dichiara che un "problema di insolvenza è stato trattato come un problema di liquidità", cosa intende dire a tutti, rivolgendosi ai governi europei?
A suo tempo non avete preso atto del default e dello stato di insolvenza della Grecia per mettere al riparo le banche private del Nord creditrici (piene di nostri titoli classificati spazzatura) e non affrontare gli scompensi strutturali a monte. Quindi avete scaricato il rischio del credito sulle casse pubbliche, ridandoci liquidità in cambio di un debito, rinnovato su diritto estero,3 che non possiamo ripagare alle condizioni ingiunte. Anche grazie alle riforme recessive a cui ci avete obbligati. Dovete riparare ad un vostro "errore".
Dimentichi delle lezioni della storia, dalle gravose riparazioni imposte alla Germania dal trattato di Versailles, oggetto delle critiche del giovane J.M. Keynes, al dimezzamento dei debiti tedeschi nel secondo dopoguerra (Londra, 1953), Berlino e Francoforte si trincerano dietro regole e contratti, mandando in avanscoperta tecnocrati e commis de rang. Mostrando affabile flessibilità, stringono i cordoni della borsa e si preparano a trattare convinti di potersi imporre.
L'Italia, pur in condizioni diverse dalla Grecia, è considerata periferia dai mercati.
Da che parte deve stare il Belpaese? Con le periferie o contro di esse?
Riesaminiamo le condizioni diverse.
Il debito pubblico italiano
In termini nominali e percentuali sul Pil, non ha raggiunto i livelli ellenici, ma è assai elevato [vedi grafico a fianco]. Ricostruirne le origini nella recente storia patria. serve a capire parecchie cose. Sempre ché non lo si disgiunga da quello privato,4 né dalla constatazione che abbiamo perso nel corso della crisi circa un quarto delle nostre attività produttive.
Per limitarci al secondo dopoguerra, in base agli studi e alla serie storica della Banca d'Italia, notiamo un vigorosa crescita in termini assoluti del debito pubblico nei lustri degli anni Ottanta e Novanta dello scorso secolo. Una crescita conseguente all'esplodere degli interessi su tale debito.
Cosa dette l'avvio al tutto?
Difficile controbattere la tesi di chi individua il punto di partenza nel famoso divorzio tra Tesoro e Banca d'Italia del 1981 [vedi inserto sotto]. Occasione nella quale le élites italiane dimostrarono un certo spirito pionieristico.
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Divorzio all'italiana (1)
(...) "L'accordo prevedeva che a ogni asta indetta per la vendita dei Buoni del tesoro (Bot) si sarebbe presentata anche la Banca d'Italia che a fine seduta avrebbe acquistato l'eventuale invenduto. Il che indeboliva fortemente le banche private che si trovavano costrette ad accettare il tasso di interesse imposto dal governo." (...)
"Ma sul finire degli anni settanta Carlo Azeglio Ciampi, governatore della Banca d'Italia, contestò l'accordo e nel luglio 1981 l'allora ministro del Tesoro Beniamino Andreatta lo abrogò. Si consumò, così, quello che è passato alla storia come il 'divorzio fra stato e Banca d'Italia', con conseguenze disastrose. Senza un salvatore alle spalle, lo stato non aveva altra scelta se non quella di accettare le condizioni imposte dal mercato, ossia dalle banche. La spesa per gli interessi si impennò, lo stato perse il passo dei pagamenti e il debito prese a moltiplicarsi. Il disastro era servito."
[Dal libro di Francesco Gesualdi, Le catene del debito, Feltrinelli, 2013, pagg. 17-18.]

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Lo spunto lo diede la lotta all'inflazione. Si propagandò l'idea che la causa del male fosse la scala mobile che adeguava le retribuzioni, a posteriori, all'aumento dei prezzi. In un'ottica tipicamente monetarista, di diede inizio al lungo periodo della "stabilità monetaria", al "contenimento del debito pubblico" e alla deflazione salariale come pre-condizione per reggere l'insieme. In tal senso si può affermare che le nostre élites dirigenti non abbiano aderito ad un contesto economico-finanziario europeo precostituito, ma fattivamente operato per determinare questo contesto.

Gli artefici del divorzio all'italiana furono il ministro del Tesoro Beniamino Andreatta e il governatore di Bankitalia Carlo Azeglio Ciampi. Per ammissione dello stesso Andreatta:
  • furono mossi da un intento redistributivo a sfavore del lavoro (colpire la scala mobile);
  • diedero coscientemente avvio alla esplosione del debito pubblico rispetto al Pil [vedi riquadro e grafico sotto];
  • propiziarono un gigantesco trasferimento di denaro per interessi dalle tasche dei contribuenti alle casse delle banche (poi del tutto privatizzate) e di altre istituzioni finanziarie che sono le principali detentrici dei titoli di Stato.5
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Divorzio all'italiana (2)
"Nel 1980 il debito rappresentava meno del 58 per cento del Pil; nel 1994 era giunto a superare il 124 per cento." (...)
"Le cause reali dell'eccezionale aumento del debito tra il 1980 e il 1994 sono di ordine finanziario e politico. Fra le più rilevanti va collocata la decisione della Banca d'Italia, attuata nel 1981, (...). Ciò avveniva, va evidenziato, molti anni prima che il Trattato Ue imponesse a tutte le banche nazionali un comportamento analogo. Come avrebbe spiegato lo stesso Andreatta dieci anni dopo, il loro intervento intendeva da un lato ridare a Bankitalia il controllo dell'offerta di moneta, dall'altra spezzare «il demenziale rafforzamento della scala mobile [dei salari]»."
"(...) I 2000 miliardi di debito superati nel 2012 sono costituiti in gran parte dall'accumulo degli interessi, dato che ogni anno lo Stato deve emettere nuove obbligazioni o altri titoli di debito per parecchie decine di miliardi, il cui totale supera quello dei titoli rimborsati. (...) gli 85 miliardi l'anno di interessi sul debito giovano però alle banche. Infatti esse reinvestono in titoli di Stato, che rendono mediamente il 4 per cento, una quota consistente dei prestiti che la Bce concede loro al tasso del'1 per cento. (...)"

[Dal libro di Luciano Gallino, Il colpo di Stato di banche e governi, Einaudi, 2013, pagg. 179-181.]
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Antefatto
Prima del divorzio tra Bankitalia e Tesoro, sempre per combattere l'inflazione, il nostro Paese aveva aderito, nel marzo del 1979, alla prima versione dello Sme.6 Sebbene il prezzo del petrolio dal 1980 al 1986 fosse sceso del 75%, cadendo ai livelli dei primi anni settanta, il merito di aver portato l'inflazione al 6% (1987) "se lo presero il divieto di finanziamento monetario della spesa pubblica, e la stabilità del cambio acquistata con lo Sme. Nel frattempo la disoccupazione in Italia cresceva fino a raddoppiare."7
Nel 1987 venne varata la seconda versione dello Sme che, togliendo di mezzo la possibilità alle monete di riallinearsi (sul modello di Bretton Woods), ingessava i cambi prefigurando la moneta unica.
Si tenga bene a mente: né il divorzio, né il secondo Sme vennero decisi in Parlamento e in Consiglio dei ministri.
Il governo Amato, dopo aver firmato con sindacati e confindustria la definitiva abolizione della scala mobile (31 luglio 1992), venne colto da una crisi valutario-speculativa. L'Italia fu costretta ad uscire dallo Sme e svalutare del 20% la lira. Ma l'inflazione, invece di salire come aveva previsto l'allora professor Monti, scese dal 5 al 4%: una pratica dimostrazione che "le relazioni fra svalutazione e inflazione sono meno meccaniche di quanto ti vogliono far credere (...)".8
A gennaio del 1999 nacque l'euro.
Risparmio contro salari
Va d'altronde ricordato che il debito fu ed è sottoscritto anche da una vasta platea di piccoli risparmiatori, a quel tempo chiamati "BOT people", resi partecipi del business, cointeressati ai processi più generali anche in qualità di elettori. Al fenomeno non appartiene solo il popolo dei BOT, ma pure quello i cui risparmi sono stati indirizzati verso i Fondi di investimento ed i Fondi Pensione (in Italia giunti più tardi).
Nei Paesi ricchi d'Occidente i lavoratori più benestanti e appartenenti alla middle class hanno potuto così beneficiare di rendite finanziarie a sostegno dei propri consumi, rimediando al calo di potere d'acquisto delle loro retribuzioni. Mentre la grande finanza con quei soldi ("degli altri"9) spadroneggiava, la middle class si è sentita legata alla sua logica anche quando essa ha distrutto posti di lavoro nelle attività produttive in cui una parte della stessa middle class era impiegata.
Indebitamento e debito estero
Come la crisi greca, la nostra non nasce come crisi da debito pubblico, ma da debito estero.
In rapporto percentuale al Pil, dal 1980 ad oggi il nostro Paese è sempre stato debitore netto verso l'estero. In questo lasso di tempo, definibili "ingloriosi trenta" se paragonati ai "trenta gloriosi" precedenti, l'Italia ha conosciuto solo un periodo in controtendenza. Dal 1993 al 1999 ha potuto ridurre il debito grazie ad un surplus delle partite correnti10 della bilancia dei pagamenti. Il surplus venne a situarsi tra due episodi di deterioramento strutturale: entrambi legati all'adozione di un cambio fisso, corrispondenti: alla seconda versione dello SME (1986-1992); alla fase di preparazione ed entrata in pieno vigore dell'euro (1996-2011). Senonché, a dispetto del miglioramento del saldo delle partite correnti, in seguito alle misure del governo Monti, assistiamo ad vero e proprio sprofondamento del debito netto accumulato [vedi grafico sotto].
Cosa è successo?
L'austerità di Monti ha incrementato le esportazioni, facendo crollare le importazioni. In sequenza negativa, queste ultime furono generate dalla distruzione della domanda interna a sua volta originata dall'impoverimento della popolazione e dal contenimento della spesa pubblica. Essendo meno ricco "il paese smette sì di indebitarsi (il saldo torna a zero), ma per lui diventa più difficile pagare il debito pregresso (il rapporto debito/Pil aumenta)."11
Prendersela con la spesa pubblica, dopo averla usata come grande discarica di ogni rifiuto, anche il più tossico, è un esercizio tanto demagogico quanto inutile.
Dopo il riconosciuto fallimento dell'austerity di Monti, il governo Renzi ha annunciato un cambio di registro attraverso una strategia volta ad associare al mantenuto rigore una maggiore crescita. Nonostante le declamate intenzioni e circostanze esterne favorevoli (ribasso dei prodotti energetici), tuttavia, il Paese non sembra uscire dalle sue contraddizioni di fondo.
Neo-mercantilismo
Forse la Germania era poco propensa ad adottare la moneta unica e, narrano le cronache, vi fu indotta da Jacques Delors12 e dalla Francia. Una volta presa la decisione di dar vita all'euro, occorre riconoscerle una certa capacità di predisporre una strategia a proprio vantaggio, anche se non molto lungimirante.13 Attuò per tempo riforme interne del lavoro, di deflazione salariale competitiva, riorganizzando la propria struttura produttiva in funzione esportativa. La moneta unica consentiva di fare perno sugli scambi commerciali nella zona euro per accumulare vantaggi, poiché inchiodava i concorrenti alla lievitazione dei costi per unità di prodotto14 senza poter ricorrere ad aggiustamenti dei tassi di cambio. Al contempo, gli allargamenti dell'Unione le offrivano nuovi mercati di sbocco sia delle merci e dei capitali, sia per le delocalizzazioni delle filiere produttive, disponendo di forza-lavoro a basso costo in particolare dei Paesi più periferici.
D'altro canto, l'assenza di uno Stato federale europeo non la esponevano a "solidarietà" politica e a condivisioni finanziarie. Le bastava (qui si palesa la poca lungimiranza) ingabbiare i singoli Stati in vincoli esterni a cui le politiche interne avrebbero dovuto attenersi sotto il bastone di opportune sanzioni e di "stratagemmi" quali il trasferimento del debito su diritto estero prima accennato. A questo specifico scopo doveva servire la cosiddetta governance.
Il modello neo-mercantile tedesco, strutturando crescenti dicotomie, era destinato a lasciare "il cerino in mano" a qualcuno, poiché ad un surplus corrisponde necessariamente un deficit e "un deficit della bilancia commerciale può sussistere solo se contemporaneamente vengono importati capitali per il suo finanziamento, diminuendo il credito con l'estero oppure chiedendo un prestito."15
Da questi squilibri deriva un cumulo di debiti che non sono redimibili, pur trasferiti dall'ambito in cui sono generati e dal privato al pubblico. É esattamente il punto a cui siamo arrivati: un rischio boomerang per la Germania stessa e per la pattuglia dei Paesi centrali ad essa associati.
D'altronde il modello esportativo, imitato da tutti i Paesi della zona euro e della Ue, potrebbe reggere solo a condizione che il "cerino" fosse trasferibile per intero all'esterno, dall'Europa al resto del mondo. Una possibilità piuttosto remota, per usare un eufemismo, a cui però mostra di credere una parte degli opinion makers di casa nostra.
Ritorniamo al caso italiano.
Pèso el tacòn del buso
Si tratta di un'attitudine che non appartiene solo a Mario Monti, sponsorizzato dai creditori europei.
Luigi Spaventa sostenne che dalla soppressione della liretta e dall'adesione all'euro l'Italia aveva tratto grande vantaggio, potendo godere di un forte abbattimento dei costi per interessi sul debito pubblico connesso alle virtù della moneta unica.16 Così meglio si comprenderebbero tutti gli sforzi profusi da Carlo Azeglio Ciampi e da Romano Prodi, come da tutto il centro-sinistra, per rientrare nei suoi parametri. In questo modo, però, divenimmo schiavi dello spread,17 delle agenzie di rating e dei mercati finanziari.
Un esito non voluto?
Alla esplosione dello spread nel 2011 contribuì in modo decisivo l'adesione alla modifica del Patto di stabilità di Maastricht da parte del governo Berlusconi-Tremonti (che poi ne fu vittima), in forza della quale l'obiettivo del debito pubblico al 60% del Pil assurgeva alla stessa imperativa importanza del limite massimo di deficit annuale al 3%. Un'adesione pubblicamente condivisa da Tommaso Padoa-Schioppa, ex ministro del precedente governo Prodi.
L'Italia ha conseguito avanzi primari18 dovuti più ai governi di centro-sinistra, assai "responsabili" nel tagliare il welfare pubblico, che di centro-destra,19 impediti nel farlo dall'opposizione di centro-sinistra.
Per brevi periodi il debito pubblico rispetto al Pil è leggermente diminuito, per poi riprendere a crescere vigorosamente. Benché i governi italiani abbiano realizzato avanzi primari da record, il peso degli interessi sul debito pubblico cumulato rimane troppo elevato per consentire una sua riduzione al 60% del Pil nei prossimi anni.20
Tanto più che il "rovescio" degli avanzi di bilancio è stata la decrescita del Pil.
L'austerità ci caccia in un circuito vizioso, tagliando l'erba sotto i piedi alla crescita.
Essa, pur incentivata da misure finanziarie non convenzionali (il Quantitative Easing della Bce di Draghi) e dalla caduta dell'euro nel cambio rispetto al dollaro e del prezzo del petrolio, secondo le stesse previsioni della Commissione europea21 sarà piuttosto bassa e non si rifletterà positivamente sull'occupazione.
Cinismo finanziario, in moneta unica
Decida il lettore se inserire anche queste due storie "minori" tra le pezze peggiori dei buchi.
I. All'opinione pubblica italiana la comunicazione prevalente non smette di ricordare che il governo Tsipras, nel voler ricontrattare il proprio debito, mette in forse il corrispondente credito non solo di Germania, Francia ed altri Paesi, ma anche dell'Italia, a cui costa, solo in termini di interessi passivi, assai di più. Secondo alcuni calcoli ammonterebbe a "Quaranta miliardi di euro. Una cifra non indifferente. È il credito che l'Italia vanta nei confronti della Grecia, tenendo conto non solo dei prestiti bilaterali ma anche delle quote di partecipazione del nostro Paese nel fondo salva Stati (Esm), nella Bce e nel Fmi."22
Complessivamente, secondo la Banca d'Italia, questo genere di salvataggi di Paesi dell'Eurozona, effettuato a vario titolo, porta la esposizione italiana a 60 miliardi. "In altre parole, dell'aumento del debito pubblico di 12 punti di Pil sperimentato dall'avvento del governo Monti, circa un terzo (3,8 punti di Pil) è dovuto a spese effettuate dallo Stato italiano per salvare gli altri «Stati »."23 Questi ultimi, come nel caso greco il cui debito dal 2012 è stato mutualizzato nelle mani degli Stati, della Bce e del Fmi, sono semplicemente delle casse di transito. I destinatari reali sono gli istituti bancari privati del Nord.
Sintesi del giro-cassa: le imposte dei contribuenti italiani, di chi non ha paradisi fiscali in cui rifugiarsi, finiscono per rimpinguare le finanze dei poteri forti centrali!
II. Nel recente Quantitative Easing la Bce di Draghi pratica una politica fiscale pro-Germania, con un particolare importante "passaggio", implicito nella garanzia delle banche nazionali (all'80% del totale) a fronte degli acquisti di titoli di Stato da parte della Bce. Si stabilisce che, ad esempio, la "Banca d'Italia acquistando 100 miliardi di titoli di Stato li trasformerà de facto in titoli sottoposti a legge di diritto estero e quindi l'Italia non potrà ridurne il valore ridenominandoli in lire e poi svalutandoli ma sarà chiamata a restituirne alla Bce l'intero controvalore in euro."24
Caso mai a qualcuno saltasse in mente di farne a meno dell'euro...
Per meglio sottomettere le periferie al centro e agli interessi delle sue oligarchie finanziarizzate si contrappone una periferia all'altra (nell'esempio, Italia contro Grecia) a seconda del grado di difficoltà e di degrado.25 Inoltre, per vincolare dall'esterno sempre più gli Stati nelle loro scelte, si sancisce sistematicamente, in punta di diritto estero, che i debiti devono in ogni caso essere saldati in euro, il rigido nodo in cui scorre la corda del debito.
Qualche punto di sintesi
Il racconto storico non può svolgersi a dispetto della concreta cronologia dei fatti. Interpretati in sequenza, essi ci dicono che alla crisi intervenuta nella seconda metà degli anni Settanta del secolo scorso, il mondo atlantico occidentale rispose, in definitiva, con la finanziarizzazione. Se questo processo appare tipico delle fasi decadenti di un sistema, la finanza implica, sempre e comunque, la creazione di debito a cui corrisponde un potere dei creditori, nonché la gestione di tale potere corredata di specifici mezzi.
Tra essi risaltano "le riforme" essenzialmente rivolte: alle privatizzazioni (fino a comprendere ogni bene vitale); alla libera circolazione dei capitali; all'abbassamento dei salari e delle protezioni del lavoro; alla riduzione del welfare.
Tali riforme sono pretese in cambio dei programmi di credito, anche se possono venire presentate dai governi nazionali come libere scelte.
Dal breve viaggio intrapreso tra i diversi debiti e le loro origini possiamo trarre alcune conclusioni per quanto riguarda il nostro Paese, senza pretese di compiute sintesi. Anche perché il disvelarsi della natura politica della crisi impatta con le "variabili geo-politiche", tenute in disparte quasi fossero un'intrusione "esterna" alla costruzione europea, non connaturate ad essa, per come si è venuta solidificando prima e, in modo più sostenuto, dopo la caduta del muro (vedi guerre nella ex-Jugoslavia). Il solo accenno all'intreccio tra caso greco e guerra in Ucraina può rendere l'idea, senza inoltrarci nella disamina (altrove intrapresa e non oggetto di questo scritto) del ruolo della Nato e degli Stati Uniti.
Pertanto, assumendo come presupposto che la crisi attuale sia strutturale e quella finanziaria e del debito da essa tragga origine (la base produttiva capitalistica non è l'ingenuo cappuccetto rosso, vittima della finanza lupo cattivo)26 circoscrivo l'attenzione conclusiva a sei punti.
  1. L'architettura europea che ci colloca nella prima periferia, non è casualmente asimmetrica, sia in senso sociale che territoriale; è stata politicamente voluta per affermare e concentrare il potere di strati privilegiati e di oligarchie finanziarizzate, sovrapposto alle sovranità democratiche territoriali-nazionali e alle classi popolari che nelle sovranità trovano espressione e forza.
  2. Il neo-mercantilismo tedesco conforma l'interno Europa, pur non avendo essa, nel suo insieme, la possibilità di divenire una sorta di mega-Germania, sì da poter riversare sul resto del mondo le proprie contraddizioni.
  3. L'economicismo, come il monetarismo e tanto più il neo-mercantilismo, non sono impolitici né privi di una loro razionalità, ma la forma della politica (e la ragione) adottata dal costituirsi degli attuali poteri forti centrali. Come non esiste un mercato a sè, indistinto, unitario ed autoregolato, non esiste un potere del mercato avulso, distinto e contrapposto a quello politico.
  4. Le élites dirigenti italiane dell'ultimo scorcio della prima e di tutta la seconda repubblica, destra e sinistra istituzionali consociate, si sono rese corresponsabili dell'attuale architettura europea, rispondendo a precisi interessi sociali di classe e propri di ceto politico e tecnocratico (non di rado passando per "le porte girevoli" tra alti incarichi nell'economia e nella politica).
  5. L'uso del debito e della moneta unica, assunta al ruolo di metodo di governo europeo, sono consustanziali al potere così costituito.
  6. Il debito nazionale resta sovrano, ma privo della sovranità sulla moneta con cui pagarlo.
Un cappio al collo
Per usare un'immagine spesso evocata per descrivere il rapporto tra debitore e creditore, i popoli sono tenuti con il cappio al collo, dalla corda del debito che scorre in un particolare nodo scorsoio: la moneta unica intesa non solo come simbolo, ma come potere e metodo di governo.
Alla stretta (insopportabile per i popoli soprattutto delle periferie) a cui siamo giunti, una parte degli avversari della corda-debito sostiene che essa possa venire sfilata dal nodo-euro, tramite accordi e compromessi imposti dalle espressioni democratiche territoriali e nazionali. A questa parte attengono Syriza, Podemos ed altre nuove forze politiche. Un'altra parte, comprendente M5S, la minoranza interna a Syriza, il Fronte Nazionale della Le Pen, la Lega di Salvini, s'è invece pronunciata per l'uscita dall'euro.
L'euro non è irreversibile.27
La stretta al collo potrebbe venire temporaneamente allentata. Stante i poteri centrali dominanti, assai difficilmente il cappio verrà sciolto. In ogni caso, senza l'avvio di una stabile soluzione dei problemi strutturali alla radice dei debiti, non rimarrebbe che l'alternativa di recidere il nodo. Procrastinare ogni soluzione potrebbe condurre al collasso non solo dell'Eurozona ma di tutta l'impalcatura dell'Unione Europea.
Pur tuttavia, se è impressionante il rapido succedersi degli eventi e palese il fallimento della "poliarchia europea", non appare imminente la caduta della "maschera democratica dell'oligarchia". Forse per le oligarchie è ancora possibile "guadagnare tempo", magari avvalendosi di una temporanea ripresa, in attesa di "un piano credibile per mettere a posto e problemi dell'eurozona", di cui a tutt'oggi non si intravvede traccia [vedi inserto sotto].
Mentre si addensano nere nubi di guerra, in Europa e ai suoi limiti, corre l'obbligo di un avvertimento che rischia di suonare scontato: la democrazia delle assemblee elettive non può esercitare alcun potere senza sovranità territoriale, ma il recupero della sovranità può fare a meno della democrazia.
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In attesa di un piano credibile
"L'eurozona non ha alcun piano credibile per mettere a posto i problemi dell'eurozona, a parte la richiesta di maggiore austerity: non ci sarà nessuna unione fiscale, finanziaria o politica; e non ci sarà alcun meccanismo bilanciato di aggiustamento economico su entrambi i lati dello spartiacque tra creditori e debitori. La decisione è invece quella di perseverare e insistere con quel patto di stabilità e di crescita che sinora ha fatto fallimento in modo tanto prevedibile quanto regolare (...).
È estremamente difficile eliminare i deficit fiscali in Paesi che sono strutturalmente importatori di capitali in assenza di recessioni prolungate o di enormi miglioramenti nella loro competitività verso l'estero. Ma quest'ultima è relativa, e quindi i miglioramenti necessari nella performance sull'estero dei Paesi deboli dell'eurozona implica o un peggioramento di quella dei Paesi esportatori di capitali dell'eurozona, o un radicale miglioramento della performance esterna dell'eurozona nel suo complesso. La prima cosa richiede che la Germania divenga molto meno tedesca. La seconda che l'eurozona nel suo complesso diventi una mega-Germania. Chi può ritenere plausibili esiti del genere?
Questo fa sì che il risultato più verosimile dell'orgia dell'austerity fiscale sarà un altro: recessioni strutturali di lungo periodo nei Paesi deboli. Per dirla in modo brutale, la moneta unica finirà per significare deflazione salariale, deflazione da debiti e recessioni economiche prolungate. Ora, per quanto grandi siano i costi di una rottura dell'area monetaria, come potrà durare una situazione del genere?"
Martin Wolf, Financial Times, A disastrous failure at the summit, 13/12/2011

[Dal libro di Vladimiro Giacché, Titanic-Europa, Aliberti, pagg. 110-111.]
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1 Vedasi il Post: Eurozona in "semestre greco".
2 Il 60% verso Efsf-Esm, acronimi inglesi del vecchio e del nuovo nome del Fondo salva Stati, ossia del Meccanismo Europeo di Stabilità (Mes). L'8% verso la Bce.
3 Non ripagabile in dracme in caso di uscita dall'euro.
4 Debito privato nel 2012 era al 126,4% sul Pil [Dati Eurostat]. Tra il 2007 e il 2014 il rapporto tra debito totale (famiglie, aziende, stato) e Pil è aumentato del 55% [Daniele Manca, Corriere Economia, 9/02/2015].
5 Nei primi mesi del 2014, su oltre 2mila miliardi di euro di debito pubblico, 1.700 miliardi sono rappresentati da titoli di Stato (prevalentemente Btp) in mano soprattutto a banche e istituzioni finanziarie italiane ed estere e, in misura minore, a piccoli risparmiatori (circa il 10% del totale).
6 Acronimo di Sistema Monetario Europeo, detto anche Serpente Monetario Europeo.
7 Alberto Bagnai, Il tramonto dell'euro, Imprimatur, 2012, pag. 17.
8 ibidem, pag. 19.
9 Luciano Gallino, Con i soldi degli altri, Einaudi, 2009.
10 Il saldo delle partite correnti misura la variazione della posizione netta di un’economia nei confronti del resto del mondo. Un saldo positivo si associa a un maggiore credito (minore debito) netto verso il resto del mondo.
11 Alberto Bagnai, L'Italia può farcela, Il Saggiatore, 2014, pag. 375 e seguenti.
12 Jacques Delors presiedette tre Commissioni europee ininterrottamente dal 6 gennaio 1985 al 6 gennaio 1995.
13 Nel marzo del 1999 Oskar Lafontaine si dimise da ministro delle finanze del governo Schröder. In borsa brindarono. Lafontaine era odiato per ragioni fiscali e per aver richiesto un'azione comune per una nuova architettura finanziaria internazionale e la fissazione di "target zones" sui cambi. Un'odio davvero meritato.
14 Leo Sarrazin, L'Europa non ha bisogno dell'euro, Castelvecchi, 2012 (2012), pagg. 63-68.
15 Ibidem, pag. 45.
16 Luigi Spaventa, Corriere della sera, 23 dicembre 2003.
17 Differenza tra gli interessi dei Btp decennali italiani e quelli dei Bund decennali tedeschi.
18 Sono detti primari gli avanzi conteggiati al netto degli interessi.
19 Alberto Bagnai, L'Italia può farcela, Il Saggiatore, 2014, a pag. 218, scrive di "riforme" "sempre affidate a macellai con il grembiule rosso, perché su quello azzurro gli schizzi di sangue si vedono troppo." Direi che ciò vale non solo per la quota salari, diminuita di 10 punti tra la fine degli anni settanta al 2010 (media G7), ma anche per il welfare pubblico.
20 A questo proposito, Vladimiro Giacché, Titanic-Europa, Aliberti, 2012, pagg. 92-97.
21 Commissione europea, previsioni del 4/02/2015 per l'Italia: Pil a +0,6% nel 2015 e +1,3% nel 2016.
22 Raffaello Binelli, il Giornale.it Economia, 26/01/2015. Per un calcolo più analitico vedasi: Isabella Bufacchi, Il Sole24ore, 28/01/2015, http://www.ilsole24ore.com
23 Alberto Bagnai, L'Italia può farcela, Il Saggiatore, 2014, pag.82.
24 Marcello Minella, Corriere Economia, 2/02/2015.
25 In realtà il cinismo finanziario ha messo popolo contro popolo. Se i greci non pagano, il governo tedesco ha già anticipato che l'ammanco ricadrà sui tedeschi, chiamati a tappare il buco.
26 Giovanni La Torre, La comoda menzogna, Dedalo, 2011.
27 Barbara Spinelli definisce la sua pretesa irreversibilità come pensiero magico ne "il Fatto Economico" del 10/02/2015.

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