Riccardo Bernini - febbraio 2015
Gramigna Pianta infestante. Può essere usata a scopi terapeutici.
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Mi
è stata chiesta maggiore chiarezza a proposito dell'immigrazione.
Provo a farla in modo sintetico, rimandando, per il discorso esteso,
a quanto già scritto.
Rifiuto
xenofobo e "umanitarismo" sono, a mio avviso, due facce
della stessa medaglia politica. Entrambe negano la radice del
fenomeno, perché esprimono un'unica tendenza conservatrice degli
assetti sistemici attuali, anche a costo di guerre ed avventure
autoritarie.
Alla
radice dei grandi flussi migratori verso i Paesi ricchi (in primis
Stati Uniti ed Europa) c'è la penetrazione su grande scala del
capitalismo nelle campagne dei Paesi poveri del mondo, sull'onda
della globalizzazione. Espulsi dalle aree rurali, in cerca di
sostentamento, milioni di persone si addensano nelle città, dando
vita a immense bidonvilles, periferie spesso degradate, più
estese e popolate dei nuclei urbani originari. Al tempo stesso, la
disgregazione delle società tradizionali (e pure degli Stati)
produce aspri conflitti interni, sicché alla povertà si aggiunge
ogni possibile devastazione umana. Inevitabile la fuga alla ricerca
di una via di scampo e/o di un futuro vivibile. Negli anni, se anche
solo una percentuale ridotta di questa umanità raggiungerà Paesi
come l'Italia, l'attuale impatto sarà poca cosa...
Nessuna
società può reggere intatta ad un grande flusso immigratorio.
Le
forze politiche xenofobe, razziste e fasciste vogliono erigere un
filo spinato attorno ai territori nazionali e continentali. Non è
una soluzione e conduce, nel migliore dei casi, a stragi d'ignavia
(per annegamento, fame, assideramento).
I
poteri costituiti d'Europa e d'Italia, sociali e politici, oscillano
tra una limitazione dei flussi, che vorrebbero graduali e ordinati,
pratiche escludenti e pelose accoglienze. Si vestono di un manto
umanitario per nascondere, malamente, l'interesse ad approfittare dei
flussi per allargare l'esercito della mano d'opera di riserva e
mettere poveri residenti contro poveri immigrati. Cianciano di
coesione territoriale, ma praticano la stratificazione conflittuale
delle esclusioni.
Per
entrambi l'importante è non mettere in discussione il sistema
internazionale che genera il problema e preservare le proprie "isole
felici". Infatti, quando si tratta di ricorrere
all'interventismo armato, nel vano tentativo di ripristinare il loro
traballante ordine mondiale, sfuma la differenza tra le componenti
politiche di "destra" e di "sinistra", sino a
sparire. Senonché questi interventi si traducono in nuova
disgregazione e disperazione, accentuando l'impeto dei flussi... È
la storia recente dei nostri rapporti con il Corno d'Africa ed il
Medio Oriente.
Registrando,
sul piano europeo, il fallimento dei modelli d'integrazione (Francia)
e multietnici (Regno Unito), chiedo: l'Italia vuole ripetere, seppure
con proprie modalità, l'esperienza di questi fallimenti o voltare
pagina?
Perciò
propugnavo "il doloroso parto": di una nuova identità,
data dalla condivisione piena con i nuovi arrivati e, al contempo,
dall'azione politica per nuovi rapporti internazionali che,
riconoscendo un mondo multipolare e l'esigenza di scambi
riequilibrati delle produzioni agricole, consenta ai popoli di vivere
sulla terra di nascita.
D'altro
canto, non abbiamo avuto nella nostra storia successivi e diversi
modi di vivere l'identità nazionale? E in quelle fasi storiche ad un
nostro modo di riconoscerci, scontrandoci, non abbiamo fatto
corrispondere una diversa visione delle relazioni col mondo?
Certo,
questo significa avviare un radicale cambiamento complessivo,
cominciando con la rottura del modello unico. Ma le alternative che
scorgo non mi sembrano né realistiche, né preferibili, per usare un
eufemismo.
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