venerdì 13 marzo 2020

Oltre il limite

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Il corona virus segna il limite superato, oltre il quale un cambio di paradigma diventa vitale.
Prendiamo atto: senza confini si traduce in mille confini; il liberismo globalizzato si svela nemico della salute pubblica e della vita umana stessa; siamo in recessione ed infelice è la decrescita che s'impone.

Senza frontiere
Il nostro ministro della salute ha affermato una verità inoppugnabile: il coronavirus non conosce frontiere. Lode sia alla globalizzazione che ha sovrastato quegli inutili orpelli? Aggiungerei che il microrganismo è cosmopolita per vocazione, al pari del sistema di scambi tramite il quale si sparge per l'intero pianeta.
Sennonché, una volta dichiarata l'inutilità delle vecchie delimitazioni statuali ad impedire la pandemia - quindi, assurdo rimpiangerle -, il governo ha dovuto fronteggiare l'emergenza stendendo cordoni sanitari in seno al territorio nazionale, circoscrivendo zone rosse, decretando un “dentro” ed un “fuori”, con il corredo di differenziati divieti di circolazione e raduno. Una volta rese superflue le fisse membrane tra Stati, abbiamo dovuto ricorrere a quelle provvisorie interne, per poi riconoscere che tutto il Paese è zona rossa. Nel frattempo il trattato di Schengen è diventato di fatto lettera morta.
L'Italia intera è messa in quarantena da molti Paesi e dalle compagnie aeree. Dal circoscritto locale il governo è passato a più radicali misure su tutto il territorio nazionale: i luoghi di assembramento e di contatto diretto sono chiusi, dalle scuole agli stadi, a tutte le attività commerciali non essenziali. Rimangono in bilico trasporti pubblici e luoghi di lavoro. Fino a che punto potranno rimanere attivi?
Alla prova dei fatti, i sanciti contenimenti paiono sempre un passo indietro rispetto all'espandersi del morbo. Quanti sono coloro che si sono trasferiti da Nord a Sud, mettendo a rischio le aree meno attrezzate all'emergenza sanitaria? Certo più dei 40 mila che si sono autodichiarati.
Dal momento che l'epidemia è diventata pandemia, ci si potrebbe fare qualche domanda su questo contrappasso per cui il “senza frontiere” commina “mille frontiere”.
Improvvisamente, da un mondo che viveva l'esaltazione della veloce mobilità di capitali, merci e persone, siamo precipitati nella paura dello starnuto del vicino e nell'abolizione dell'abbraccio. Non sarà che l'una implichi le altre? Moderni Icaro, dal pullulare nei cieli cadiamo sulla terra delle deserte città.
Non sarà che invece del promesso passe-partout universale, costituito dal nostro stesso volto digitalizzato in un istantaneo “riconoscimento facciale”, sotto il vigile occhio delle polizie dall'alto della nube securitaria, finiremo per doverci dotare di autorizzazioni, nullaosta ed attestati, e di altro ancora, tali da rimpiangere la semplicità di un passaporto?
Sorge il dubbio che in mancanza di osmotiche membrane tra popoli e nazioni, in una globalizzazione a misura delle multinazionali e della fluidità accumulativa del capitale, rischiamo di venire divisi da innumerevoli muri, imposti da impensate emergenze non solo sanitarie.

Ripenso a Régis Debray.1 Dieci anni fa ci ammoniva a non cullare l'illusione di un mondo privo di limiti: «Limen, da cui provengono il nostro limitare, e i nostri preliminari, è contemporaneamente la soglia e la barriera, così come limes dice insieme la strada e il confine. Giano, dio del passaggio, ha due facce.»
Più del ponte Morandi
Al Sacco di Milano si è scoperta una affinità elettiva tra il ceppo Covid-19 tedesco, presente già a gennaio in Baviera, e quello di Codogno. La scienza smentisce lo scaricabarile nazionale. Quello sui cinesi “mangiatori di topi vivi” si smentisce da sé, visto che la loro disciplinata lotta al morbo ormai ci fa scuola.
Dopo il rassicurante isolamento della coppia di turisti cinesi e le quarantene allo Spallanzani di Roma, la vera emergenza è scattata solo quando si è palesata la falla di Codogno. Nonostante la “eccellente” sanità lombarda, vanto leghista, il “paziente numero uno” è stato rimandato a casa senza prova del tampone. Il protocollo adottato non lo prevedeva. Pertanto, il contagiato fu costretto a ripresentarsi febbricitante. Identificato positivo al test solo forzando il protocollo, aveva già infettato personale e presenti al pronto soccorso. Così il virus si insediava in un linfonodo della salute pubblica, trasformato in focolaio primario.
Casi simili si sono poi verificati in altre regioni, dal Veneto all'Emilia-Romagna, al Lazio. La sanità regionale è sembrata un colabrodo. Se l'epidemia attecchisse a Sud sarebbe disastro conclamato.
Il numero dei contagiati aumenta in modo esponenziale. Che fare?
Non sono mancati coloro per i quali era meglio far finta di niente.
Suvvia, il flagello non è poi tale: solo il 10/12% abbisogna di cure intensive e, tra questi, solo una sparuta minoranza muore. Una minoranza di vecchi o/e spesso affetti da serie patologie pregresse, derubricati dall'essere “persone”. Il sopravvenire di una forte insufficienza respiratoria, derivante dalla polmonite da virus, li sospinge a varcare più celermente l'ultima soglia. Il loro destino era già segnato. In definitiva il virus coronato porta a compimento la “naturale selezione della specie”, in virtù della quale i più inadatti soccombono.
Eppure, con l'espandersi del morbo e l'insufficienza di posti in terapia intensiva, alla “selezione naturale” se ne va aggiungendo una tutta sociale: verrà curato prima chi ha maggiori aspettative di vita (o qualche santo in paradiso o un cospicuo conto in banca) e per gli altri si vedrà.
Osservate lo strano fenomeno: il partito del Pil “brutto e subito” non vuole riconoscere il ripristino del limite, quindi è pronto a ripiegare sul tanto rumore per nulla. Il suo sottinteso motto è convivere con l'epidemia, lasciando che muti in endemia. Non tollera che qualsivoglia priorità pubblica sia anteposta al privato interesse, strappando il velo ideologico per cui quest'ultimo coincideva con l'interesse generale. Reagisce come per le concessioni autostradali, dopo il crollo del ponte Morandi. Sospetta che una volta usciti dall'emergenza potremmo essere tentati di aumentare stabilmente la spesa sanitaria, dopo averla ridotta di ben 37 miliardi negli ultimi 10 anni, diligenti esecutori dell'austerità di bilancio europea. Potremmo, addirittura, rivedere le privatizzazioni, altro vanto non solo leghista, che dovevano rendere migliore il sistema delle cure e lo hanno invece indebolito strutturalmente.
Passata la buriana, capovolgeremo le priorità acquisite?
Zona rossa
Crescendo il contagio, i posti in rianimazione non bastano. Ammettere la deriva endemica, senza che la curva al suo picco inverta la tendenza, conduce al disastro. Meglio evitare il peggio ed il governo corre ai ripari, ma esita, avendo scelto di somministrare la cura per gradi. Unicamente per tema che la popolazione non lo segua? O perché pressato non solo da Confindustria?
Tra l'altro mancano le mascherine ed i dispositivi di protezione individuali, riservati al mercato autarchico da Francia e Germania. Ah, i nemici giurati del nazionalismo! Si decide pure di potenziare la filiera italiana di produzione delle macchine per la terapia intensiva. Almeno disponiamo di una buona produzione bresciana di tamponi e dalla Cina si annunciano rifornimenti. Nell'occasione, aspettando Godot Europa, si batte la via della Seta. Continueremo a farlo anche in futuro, anche se Washington non vuole?
La minaccia del virus innervosisce i liberisti del farmaco. Si capisce che Big Pharma non ha alcuna convenienza a scoprire rimedi definitivi, cosiddetti one-shot, qual è un vaccino. Preferisce continuare a fare fatturato sulle malattie endemiche. Big Pharma e Partito del Pil “brutto e subito” uniti nella lotta.
Le multinazionali del farmaco non investono affatto sulla ricerca di lunga durata, ritenendo più redditizio campare, alla grande, sul percolato di quella finanziata dai soldi pubblici, in un meccanismo già descritto che oggi si ripete.2 Urge un cambio di paradigma che anteponga il pubblico al privato. Ne saremo capaci o dimenticheremo la lezione impartita dal coronavirus?
Nell'emergenza la verifica d'apprendimento è rimandata. Ci tocca fare come in Cina, a Wuhan e nell'Hebei, se ne siamo capaci, fino, eventualmente, all'ultimo gradino: il coprifuoco generale.

Un forte aumento del deficit di bilancio, ben oltre l'interpretazione “elastica” dei vincoli fissati dai parametri, s'impone. Il vagante e mutageno virus dev'essere fermato subito e non si può lasciare senza reddito chi di lavoro vive ed è costretto a restare a casa. È necessario metter mano alla borsa in Italia e in Europa. Eppure, nell'emergenza continentale, non sentiamo risuonare un perentorio “Whatever it takes”,3 come quando Mario Draghi volle salvare l'euro. Che la salute pubblica valga meno della moneta unica?
Stress-test
A Bruxelles si vive in un'altra dimensione. Alla prossima riunione dell'Eurogruppo, la pandemia è solo al terzo punto della discussione, dopo il MES ed il backstop per mettere al sicuro le grandi banche, tra le quali Deutsche Bank. La riforma del MES, detto fondo salva-Stati, non va approvata ed ogni decisione in merito almeno rimandata.
Attenzione, qui lo snodo politico è dirimente.
I 25 miliardi del nuovo fondo, annunciati da Ursula von der Leyen, sono pochini, rapportati a tutti i Paesi dell'Unione. Se verranno stornati da altri impieghi previsti, non meno solidali, sarebbe una beffa. Ad ogni modo, non si potrà continuare a giocare con i tempi e con le poste di bilancio, come fece la principessa tedesca del bluff quando presentò lo european green deal.4
Dovendo sforare i parametri di bilancio, l'Italia rischia un aumento sostanziale degli interessi sul debito pubblico, dovuto al dilatare dello spread, inevitabile conseguenza di un sistema a moneta unica con debiti nazionali separati. Verranno finalmente emessi i tanto invocati euro-bond per finanziare la lotta solidale al coronavirus? Adesso o mai più.
A questo concreto stress-test, il secondo dopo l'ultima crisi del 2007-2008, le famigerate regole di bilancio europee mostrano di non reggere la realtà. Non sono servite a prevenire, anzi hanno imposto il disarmo delle nostre difese sanitarie; ora ci caricano di interessi sul debito; domani ostacoleranno la ripresa dalla recessione. Fino a che punto saremo disposti a sopportarle?
Lega e Fratelli d'Italia attendono al varco le forze di governo.
Dopo avere ondeggiato, per settimane, tra la richiesta di estreme misure e, al contrario, l'invocazione al ripristino “normali attività economiche”, in sintonia con il partito del Pil “brutto e subito”, la Lega ha optato per la linea lombarda di Attilio Fontana. Salvini, l'indeciso decisionista, ha deciso e, insieme alla Meloni, ha chiesto un supercommissario con pieni poteri, magari un militare.
Non sorprenda che l'idea, in sé fascistizzante, sia condivisa anche dai “giornaloni” e da chi, a suo tempo, ci impose il “podestà straniero” – ovvero Monti da Varese – e non vede l'ora di sbarazzarsi di un governo con il M5S in posizione di maggior forza parlamentare.
La scala con i pioli rotti
Incombe la recessione economica. In Europa era già in viaggio, annunciata dalla caduta della produzione industriale tedesca, mentre, all'opposto, si gonfiava la bolla finanziaria. Un po' ovunque i valori azionari salivano, mentre i dividendi scendevano.
Da New York Federico Rampini5 ci informa: «Nel primo mese di allarme sanitario gli investitori avevano mantenuto la calma: l'ultimo record degli indici azionari americani risale a soli dieci giorni fa, il 19 febbraio. Eppure l'impatto del coronavirus era già presente....»
Anche Stefano Feltri, sul Fatto Quotidiano dell'11 marzo, ci avverte da Chicago che il Covid-19 può far detonare la bomba finanziaria globale.
Aprendosi il vuoto nella sottostante “economia reale”, di cui l'invasivo virus è causa immediata e concausa generale, la soprastante corsa finanziaria si avvede del vuoto e precipita.

Un altro “cigno nero”? Per definizione il “cigno nero” è unico. Non ammette repliche. La globalizzazione liberista appare sempre più un sistema in preda a ricorrenti “cigni neri”. Che sia giunta al capolinea?
Riflettiamo un attimo sulle decantate virtù della catena delle forniture, alias supply chain. Il fermo delle fabbriche cinesi nell'Hebei ha bloccato i montaggi di prodotti finiti anche in Italia. Ma nel momento in cui nell'impero celeste si ricomincia a lavorare, il morbo cosmopolita ferma il lavoro a casa nostra...
La globalizzazione garantiva economie di scala su scala mondiale: il miglior prezzo di ogni pezzo per la ottimizzazione dei costi del prodotto finale. Cosa meglio per i consumatori?
Sennonché, la promessa di godimento universale per gli acquirenti veniva smentita dall'impossibilità di comprare per molti di loro, in quanto disoccupati a casa propria, proprio per via delle delocalizzazioni, o con salari immiseriti dal dumping della competizione senza frontiere.
Dal coronavirus ci giunge ora una seconda smentita, poiché i pioli dell'economia di scala si sono rotti.
Aggiungiamo una ulteriore considerazione. Sulla efficienza di un tale sistema i più avveduti avevano avanzato argomentate critiche, giacché i prezzi non contenevano i costi reali, umani ed ambientali, connessi alla dislocazione delle produzioni in luoghi di intensivo sfruttamento del lavoro ed a grande distanza, con il conseguente moltiplicarsi dei trasporti di collegamento inquinanti (aerei, navi portacontainers, ecc.).
Quali nuovi calcoli di efficienza dovremmo fare?

La terra promessa dalla globalizzazione si rivela una chimera, mentre l'idea di un mondo senza limiti, privo di membrane osmotiche, protettive e dialoganti, è solo un potente valium somministrato a società in opulente (e cieca) decadenza.
Non tutto il male vien per nuocere: la recessione fa bene all'ambiente, il CO2 cala, l'aria è più respirabile.
Tra i limiti, quello alla continua crescita sembra cominciare a prendere inaspettata consistenza anche agli occhi che non volevano vedere. Il pianeta non sopporta più il suo depredamento, dovuto all'assunto che infinita sia la ricchezza naturale – dalla quale ogni ricchezza discende - di cui disporre per espandere vieppiù le produzioni, alla base, e generare infiniti profitti, assorbiti da un ristrettissimo vertice. Nemmeno sopporta di essere attraversato da una miriade di cose, delle quali potremmo disporre a chilometro zero.
Tanto più se, come avviene, non si produce per consumare secondo bisogno, ma si deve consumare il superfluo per produrre oltre ogni limite, pur continuando a mancare l'essenziale. Per esempio la pubblica sanità.


Post scriptum
Chiudo l'articolo il 13 marzo 2020, ore 17,30.

Note
1 Régis Debray, “Elogio delle frontiere”, add editore, 2012 (Gallimard, 2010).
2 Mariana Mazzuccato, “Il valore di tutto – Chi lo produce e chi lo sottrae nell'economia globale”, Laterza, 2018. Vedasi anche in questo Blog, “Non hanno paura di Greta. Perché? [2]”, 10/2019.
3 Traducibile “Ad ogni costo”.
4 Anche Greta Thunberg l'ha definito largamente insufficiente. Vedi in questo Blog, “Il nostro uomo sulla luna”, febbraio 2020.
5 Federico Rampini, “Virus, il 'cigno nero' che ci fa ripensare la globalizzazione”, la Repubblica, 29 febbraio 2020.

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