lunedì 9 dicembre 2019

Parallele divergenti

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Parallele divergenti

Le crisi industriali italiana e tedesca, fortemente collegate, reclamano 
"cure  keynesiane” in contraddizione con i parametri di bilancio europei.

Ancora non è chiaro quale sarà lo sbocco della crisi della ex-ILVA, parte integrante della più generale crisi che coinvolge l'industria italiana.
Su scala locale e nazionale mostrano quali siano le conseguenze delle privatizzazioni e dell'abbandono del Paese al liberismo. Al contempo, evidenziano la necessità di forti investimenti pubblici in una prospettiva di sviluppo verde e sostenibile.
Non a caso pure la Germania, alle prese con una recessione industriale che mette in discussione il suo modello esportativo mercantile, si ritrova con la stessa esigenza di investimenti pubblici. È quanto sostiene anche una recente presa di posizione della Confindustria e dei sindacati tedeschi.
Sorge un problema.
Tenendo conto dei parametri dell'Unione europea, i finanziamenti in debito necessari agli investimenti, come andrebbero conteggiati? “Fuori sacco” in deroga al Patto di stabilità?
E ciò varrebbe per tutti o solo per i Paesi “diligenti” come la Germania?
Italia
Un ricatto programmato
I tavoli di crisi aziendali del Ministero dello Sviluppo Economico (MISE), a detta del ministro pentastellato Stefano Patuanelli, sono 149, attivi da parecchi anni. Alitalia compresa.
Per impatto sull'occupazione e sull'ambiente spicca il tavolo sulla ex-ILVA, affittata alla multinazionale AcelorMittal, a capitale franco-indiano.
La minacciata dismissione non è dettata dai rischi ai quali sono esposti i suoi dirigenti, privati dal parlamento di uno “scudo penale”, peraltro incostituzionale. Questo perché il piano industriale della multinazionale, oggi dato per morto, è servito essenzialmente ad aggiudicarsi la gara d'appalto, per chiudere ogni spazio alla concorrenza, seguendo la tipica logica monopolistica. Quando poi, si fosse verificato che era impossibile attuarlo, sarebbe scattato il ricatto con minaccia d'abbandono, com'è puntualmente avvenuto. Pertanto, lo scudo levato non è nemmeno un alibi, è solo un pretesto.
La furiosa ed ormai dimenticata discussione sullo scudo, se rimetterlo o meno, ha assolto ad un'unica funzione: mostrare quanto lo Stato di diritto possa venire piegato sia al diktat del più forte (la multinazionale dell'acciaio), sia ad una concezione della sovranità nazionale da Paese delle banane. Infatti, nell'occasione si sono ritrovate ancora una volta insieme gli “opposti poli” della politica nazionale, in spregio tanto della salute interna ed esterna agli stabilimenti, quanto della sovranità nazionale, proclamata a parole e piegata nei fatti alle logiche d'impresa, in un mercato che è tutto fuorché “libero”.
Così il “prima gli italiani” si conferma come un puro slogan xenofobo fascistizzante, ad uso anti-immigrati, che nasconde la sudditanza leghista al liberismo dell'impresa globalizzata. Liberismo al quale soggiace pure chi si oppone al “sovranismo”, per coprire la rinuncia alla sovranità costituzionale.

Ad AcelorMittal che attua il proprio ricatto sul breve, il governo ha risposto sul piano legale e giudiziario, con tempi però troppo lunghi per far fronte all'emergenza. Non restava che sedersi al tavolo della trattativa e rivedere il piano industriale col quale l'impresa ha vinto la gara per l'ILVA, ovvero: discutere di migliaia di esuberi;1 di uno sconto sull'affitto;2 dello scarico sullo Stato dei costi delle cosiddette “esternalità”, ossia del parallelo improcrastinabile risanamento ambientale; di finanziamenti pubblici alla riconversione produttiva interna – decarbonizzazione - con annessa partecipazione al capitale aziendale di un socio di “garanzia”.
Qualora il governo non cedesse alle pretese di AcelorMittal e, tuttavia, volesse mantenere attiva la produzione italiana di acciaio, avrebbe di fronte poche alternative alla nazionalizzazione, stante l'indisponibilità di altre imprese private a subentrare.
Con ogni probabilità, un finanziamento ad hoc, nell'ambito di una soluzione transitoria, verrebbe visto dagli occhiuti rigoristi di Bruxelles come delittuoso “aiuto di Stato”, lesiva della “libera” concorrenza del mercato unico sancito dai Trattati europei.
Tanto varrebbe mettere mano ad un più serio, fattivo ed organico ruolo dello Stato.
Un nuovo IRI
Data l'importanza dell'acciaio [vedi il riquadro dedicato a seguire] per il sistema industriale nazionale e la concomitante necessità di risolvere le altre crisi pendenti, valgano alcune osservazioni di merito.

ACCIAO

La produzione di acciaio fornisce i comparti della meccanica, così importanti per il nostro export (con un avanzo commerciale di 60,97 miliardi di euro nel 2018), degli elettrodomestici, dei veicoli, delle costruzioni e delle infrastrutture. Poiché la consegna dell'acciaio alle imprese “a valle” comporta difficoltà logistiche ed un alto costo di trasporto, non è localizzabile a grandi distanze dalle fabbriche di cui costituisce un input primario. Di contro, privarsene avrebbe pesanti conseguenze su tutto il sistema economico e chiudere Taranto aggraverebbe il disavanzo italiano nella bilancia commerciale siderurgica già di 6,76 miliardi di euro nel 2018.
Per i dati sull'avanzo ed il disavanzo commerciale vedi: https://borsaefinanza.it/i-disavanzi-commerciali-costano-allitalia-il-3-del-pil/.

Giacché di fatto lo Stato è chiamato a farsi carico del disastro ambientale e dei costi di riconversione (dal carbone) della siderurgia, per preservare la sicurezza del lavoro e l'occupazione, insieme alla salute pubblica, non può disinteressarsi delle produzioni connesse e dei relativi problemi di trasporto.
Al contrario, ha l'occasione per mettere in atto la tanto invocata economia circolare e verde, proprio a partire da una produzione che ha mostrato un così forte impatto ambientale, della quale fare a meno, parimenti, costituisce un grave vulnus all'economia locale e nazionale. In altri termini, si potrebbe dare vita ad un Nuovo Istituto di Ricostruzione Industriale (Nuovo IRI),3 facendo tesoro di pregi e difetti di quello vecchio, azzerato dalle privatizzazioni che così grave e tragico danno hanno arrecato a tutto il Paese.4

Ovviamente la scelta chiama in causa l'agibilità di una simile intrapresa in rapporto all'Unione europea, ai dispositivi del mercato unico e della moneta unica, ed ai connessi vincoli di bilancio sui finanziamenti in debito.
In buona sostanza: gli investimenti pubblici e un rinnovato ruolo dello Stato in economia entrano il collisione col perdurante liberismo e con le istituzioni dell'Eurozona e dell'Unione europea, sorte nella sua logica ed a suo presidio.
In simili circostanze, assume grande rilievo quel che accade nella ex locomotiva d'Europa.
Germania
Zero nero
Sulla scorta di uno studio dell'Istituto tedesco di economia di Colonia e dell'Istituto di ricerca macro-economica della Fondazione Boeckler, la Confindustria (BDI) ed i sindacati (DGB) germanici hanno avanzato una richiesta di investimenti pubblici per 450 miliardi di euro in 10 anni, dal 2020 al 2030. La richiesta comprende una riforma sul vincolo di pareggio di bilancio, al quale devono attenersi per legge sia il governo federale, sia i Länder ed i Comuni.5 Il cosiddetto “Die schwartze Null”, lo “Zero nero”.
Si tratta di una preoccupata reazione ad una stagnazione che va tramutandosi in recessione. Nel secondo trimestre dell'anno in corso il Pil della Germania è diminuito dello 0,1%, salendo appena dello 0,1% nel terzo trimestre.
«La produzione industriale tedesca è calata ad ottobre dell'1,7% contro una previsione di una crescita dello 0,1%. E' quanto risulta dai dati dell'ufficio di statistica tedesco. Il calo della produzione sull'anno precedente è del 5,3% contro una previsione del 3,6%.»6 [Vedi grafico qui sotto.]

A cosa è dovuta la crisi della Germania?
Dando uno sguardo all'andamento della bilancia commerciale si direbbe che il modello esportativo, su cui si basa il primato tedesco, incontri crescenti difficoltà. Nelle previsioni (ormai obsolete?) per il biennio 2019-2020 le esportazioni crescono meno delle importazioni. Inoltre incombono le conseguenze dei dazi voluti da Donald Trump, l'instabilità generata dallo scontro commerciale Usa-Cina e dalla Brexit.
Pertanto, va rilanciata la spesa pubblica ed il mercato interno.
Secondo i confindustriali tedeschi, là dove le imprese private non trovano remunerazione per i propri investimenti, dovrebbe intervenire lo Stato. In particolare con piani a lungo termine per le strutture digitali a banda larga, strade e ferrovie, la transazione energetica dal carbone, educazione e formazione.
Una richiesta di tipo “keynesiano”, avvalorata dai dati ultimi di ottobre.
Correlazioni
La locomotiva ed il vagone
Se la locomotiva Germania si ferma, o addirittura arretra, cosa può fare il vagone Italia al traino?
Dopo anni in cui ci siamo messi al seguito del modello esportativo tedesco, divenendo sempre più su-fornitori della sua macchina industriale, alla preoccupazione iniziale subentra un certo panico.
Ci si poteva vantare dei nostri semilavorati, assemblati in Germania. Ma che ce ne faremo del loro “alto valore aggiunto”, se “i cannoni” di BMW, Volkswagen, Bosch e Siemens hanno le polveri bagnate, ?
Appare a rischio il livello d'interscambio che nel 2018 aveva superato i 128 miliardi di euro. Sono coinvolti i settori dell'export italiano in Germania, quali: meccanica strumentale, metalli, mezzi di trasporto, componentistica auto, chimica farmaceutica.
Eppure l'esaltazione del nostro export “dimentica” troppo spesso un dato ulteriore. La Germania si è avvantaggiata di un tasso di cambio debole e favorevole, mentre l'Italia è stata sfavorita da un tasso di cambio forte. Nei 15 anni successivi all'introduzione dell'euro, la differenza tra export ed import nei confronti di Berlino ha raggiunto -227 miliardi dollari, quando nei precedenti 15 anni si era attestata a -69 miliardi.
Una minima riflessione su quanto ora sta accadendo a livello internazionale, dovrebbe indurre l'Italia ad adottare finalmente una politica industriale ed economica che manca da decenni. Essa dovrebbe puntare a sviluppare maggiormente il mercato interno in direzione green e delle produzioni finite, senza delegarle alla “potenza di fuoco” altrui.
Nel contempo deve evitare l'ampliarsi delle dicotomie economico-sociali in seno all'Unione europea...
Vengo anch'io... No, tu no
L'appello di Confindustria e sindacati tedeschi fa seguito ad altri inviti ad una ripresa degli investimenti pubblici e del ruolo dello Stato in economia, manifestatisi in Germania nel periodo estivo, in seguito ai primi sintomi della recessione. È sorto il problema se derogare o meno dai patti di bilancio e debito, come nella già descritta situazione italiana. A tale proposito assumono un particolare interesse le interviste di “Open.online” ad alcuni economisti, risalenti allo scorso agosto.7
Per Sergio Cesaratto: «Forse sono troppo ottimista ma questa iniziativa potrebbe rappresentare un piccolo cambiamento di mentalità in una direzione più keynesiana»; aggiungendo: «Un piccolo segno nella direzione giusta perché in Germania debito e peccato sono la stessa parola, e questo precetto dovrebbe cambiare».
Vladimiro Giacché osservava: «Questo tipo di svolta avrà delle conseguenze forti in Europa, è un cambiamento di paradigma, a questo punto chi intendesse produrre una politica di disavanzo finalizzato a investimenti pubblici avrebbe un argomento in più».
Secondo l’economista Luigi Guiso, invece, quella di intraprendere un’azione espansiva è una mossa che la Germania compie perché, a differenza di molti altri, «se lo può permettere». «Hanno le finanze pubbliche ordinate, un livello di debito contenuto e in genere loro espandono quando ne hanno bisogno, quando lo devono fare, non espandono a casaccio».
A distanza di qualche mese da queste dichiarazioni, quando ancora oggi il tema in Germania rimane aperto, tanto da indurre Confindustria e sindacati ad avanzare le specifiche richieste poc'anzi citate, il “realismo” di Giuso sembra prevalere sull'eccessivo ottimismo di Cesaratto, fermo restando la validità del giudizio espresso da Giacché.
Ursula von der Leyen
A confermare che gli investimenti statali per l'economia green non andranno computati “fuori sacco”, cioè scorporati dal debito pubblico secondo i parametri europei, è intervenuta Ursula von der Leyen, appena insediata a capo della Commissione europea: «Non sono favorevole a scomputare dal deficit gli investimenti verdi.» «Bisogna essere coerenti nel ridurre la CO2, ma credo che sia un obiettivo raggiungibile all'interno del Patto di Stabilità.»8
Se ne deduce che pure per l'ambiente, ai fleißig, i Paesi diligenti del nucleo tedesco, verranno consentite iniziative, inibite, viceversa, ai faul, i pigri e spendaccioni Paesi mediterranei.
(Le riforme del MES e dell'Unione economica e monetaria vanno valutate anche da questa angolatura.)
Note
1 Alle prime migliaia ne seguirebbero altre.
2 La proposta di affidamento della ex-ILVA alla AcelorMittal fu ufficialmente preferita alla concorrente perché, tra l'altro, offriva un maggior canone d'affitto.
3 Il 26 novembre, il ministro Patuanelli non ha escluso un nuovo IRI. A tale proposito vedi: https://www.lantidiplomatico.it/dettnews-autostrade_alitalia_e_ilva_la_necessit_di_un_nuovo_iri/11_31529/.
4 Affidare i cosiddetti “monopoli naturali” ai privati ha avuto come effetto il degrado di tutta la rete autostradale, con tragedie non solo a Genova, e la accumulazione di enormi profitti, senza rischio d'impresa, in capo alle imprese concessionarie (Gruppi Benetton, Gavio e Toto, ecc.), garantite dalle tariffe ai caselli.
5 Uski Audino, “Ossessione del debito, sindacati e aziende contro Merkel”, il Fatto Economico, 20 novembre 2019.
8 Intervista a von der Leyen: «Perché dico no allo scorporo degli investimenti verdi dal deficit», il Sole24Ore, 29 novembre 2019.

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