Parallele divergenti
Le crisi
industriali italiana e tedesca, fortemente collegate, reclamano
"cure keynesiane” in contraddizione con i parametri di bilancio europei.
"cure keynesiane” in contraddizione con i parametri di bilancio europei.
Ancora
non è chiaro quale sarà lo sbocco della crisi della ex-ILVA, parte integrante della più generale crisi che coinvolge l'industria italiana.
Su scala locale e nazionale mostrano quali siano le conseguenze delle
privatizzazioni e dell'abbandono del Paese al liberismo. Al contempo, evidenziano la necessità di forti investimenti pubblici in una prospettiva di sviluppo verde e sostenibile.
Non
a caso pure la Germania, alle prese con una recessione industriale che
mette in discussione il suo modello esportativo mercantile, si ritrova
con la stessa esigenza di investimenti pubblici. È quanto sostiene
anche una recente presa di posizione della Confindustria e dei
sindacati tedeschi.
Sorge
un problema.
Tenendo
conto dei parametri dell'Unione europea, i finanziamenti in debito
necessari agli investimenti, come andrebbero conteggiati? “Fuori
sacco” in deroga al Patto di stabilità?
E
ciò varrebbe per tutti o solo per i Paesi “diligenti” come la
Germania?
Italia
Un
ricatto programmato
I
tavoli di crisi aziendali del Ministero dello Sviluppo Economico
(MISE), a detta del ministro pentastellato Stefano
Patuanelli, sono 149, attivi da parecchi anni. Alitalia compresa.
Per
impatto sull'occupazione e sull'ambiente spicca il tavolo sulla
ex-ILVA, affittata alla multinazionale AcelorMittal, a capitale
franco-indiano.
La
minacciata dismissione non è dettata dai rischi ai quali sono
esposti i suoi dirigenti, privati dal parlamento di uno “scudo
penale”, peraltro incostituzionale. Questo perché il piano
industriale della multinazionale, oggi dato per morto, è servito
essenzialmente ad aggiudicarsi la gara d'appalto, per chiudere ogni
spazio alla concorrenza, seguendo la tipica logica monopolistica.
Quando poi, si fosse verificato che era impossibile attuarlo, sarebbe
scattato il ricatto con minaccia d'abbandono, com'è puntualmente
avvenuto. Pertanto, lo scudo levato non è nemmeno un alibi, è solo
un pretesto.
La
furiosa ed ormai dimenticata discussione sullo scudo, se rimetterlo o
meno, ha assolto ad un'unica funzione: mostrare quanto lo Stato di
diritto possa venire piegato sia al diktat del più forte (la
multinazionale dell'acciaio), sia ad una concezione della sovranità
nazionale da Paese delle banane. Infatti, nell'occasione si sono
ritrovate ancora una volta insieme gli “opposti poli” della
politica nazionale, in spregio tanto della salute interna ed esterna
agli stabilimenti, quanto della sovranità nazionale, proclamata a
parole e piegata nei fatti alle logiche d'impresa, in un mercato che
è tutto fuorché “libero”.
Così
il “prima gli italiani” si conferma come un puro slogan xenofobo
fascistizzante, ad uso anti-immigrati, che nasconde la sudditanza
leghista al liberismo dell'impresa globalizzata. Liberismo al quale
soggiace pure chi si oppone al “sovranismo”, per coprire la
rinuncia alla sovranità costituzionale.
Ad
AcelorMittal che attua il proprio ricatto sul breve, il governo ha
risposto sul piano legale e giudiziario, con tempi però troppo
lunghi per far fronte all'emergenza. Non restava che sedersi al
tavolo della trattativa e rivedere il piano industriale col quale
l'impresa ha vinto la gara per l'ILVA, ovvero: discutere di migliaia
di esuberi;1
di uno sconto sull'affitto;2
dello scarico sullo Stato dei costi delle cosiddette “esternalità”,
ossia del parallelo improcrastinabile risanamento ambientale; di
finanziamenti pubblici alla riconversione produttiva interna –
decarbonizzazione - con annessa partecipazione al capitale aziendale
di un socio di “garanzia”.
Qualora
il governo non cedesse alle pretese di AcelorMittal e, tuttavia,
volesse mantenere attiva la produzione italiana di acciaio, avrebbe
di fronte poche alternative alla nazionalizzazione, stante
l'indisponibilità di altre imprese private a subentrare.
Con
ogni probabilità, un finanziamento ad
hoc,
nell'ambito di una soluzione transitoria, verrebbe visto dagli
occhiuti rigoristi di Bruxelles come delittuoso “aiuto di Stato”,
lesiva della “libera” concorrenza del mercato unico sancito dai
Trattati europei.
Tanto
varrebbe mettere mano ad un più serio, fattivo ed organico ruolo
dello Stato.
Un
nuovo IRI
Data
l'importanza dell'acciaio [vedi
il riquadro dedicato a seguire] per
il sistema industriale nazionale e la concomitante necessità di
risolvere le altre crisi pendenti, valgano alcune osservazioni di
merito.
ACCIAO
La
produzione di acciaio fornisce i comparti della meccanica, così
importanti per il nostro export (con un avanzo commerciale di 60,97
miliardi di euro nel 2018), degli elettrodomestici, dei veicoli,
delle costruzioni e delle infrastrutture. Poiché la consegna
dell'acciaio alle imprese “a valle” comporta difficoltà
logistiche ed un alto costo di trasporto, non è localizzabile a
grandi distanze dalle fabbriche di cui costituisce un input
primario.
Di contro, privarsene avrebbe pesanti conseguenze su tutto il sistema
economico e chiudere Taranto aggraverebbe il disavanzo italiano nella
bilancia commerciale siderurgica già di 6,76 miliardi di euro nel
2018.
Per
i dati sull'avanzo ed il disavanzo commerciale vedi:
https://borsaefinanza.it/i-disavanzi-commerciali-costano-allitalia-il-3-del-pil/.
Giacché
di fatto lo Stato è chiamato a farsi carico del disastro ambientale
e dei costi di riconversione (dal carbone) della siderurgia, per
preservare la sicurezza del lavoro e l'occupazione, insieme alla
salute pubblica, non può disinteressarsi delle produzioni connesse e
dei relativi problemi di trasporto.
Al
contrario, ha l'occasione per mettere in atto la tanto invocata
economia circolare e verde, proprio a partire da una produzione che
ha mostrato un così forte impatto ambientale, della quale fare a
meno, parimenti, costituisce un grave vulnus
all'economia
locale e nazionale. In altri termini, si potrebbe dare vita ad un
Nuovo Istituto di Ricostruzione Industriale (Nuovo IRI),3
facendo tesoro di pregi e difetti di quello vecchio, azzerato dalle
privatizzazioni che così grave e tragico danno hanno arrecato a
tutto il Paese.4
Ovviamente
la scelta chiama in causa l'agibilità di una simile intrapresa in
rapporto all'Unione europea, ai dispositivi del mercato unico e della
moneta unica, ed ai connessi vincoli di bilancio sui finanziamenti in
debito.
In
buona sostanza: gli investimenti pubblici e un rinnovato ruolo dello
Stato in economia entrano il collisione col perdurante liberismo e
con le istituzioni dell'Eurozona e dell'Unione europea, sorte nella
sua logica ed a suo presidio.
In
simili circostanze, assume grande rilievo quel che accade nella ex
locomotiva d'Europa.
Germania
Zero
nero
Sulla
scorta di uno studio dell'Istituto tedesco di economia di Colonia e
dell'Istituto di ricerca macro-economica della Fondazione Boeckler,
la Confindustria (BDI) ed i sindacati (DGB) germanici hanno avanzato
una richiesta di investimenti pubblici per 450 miliardi di euro in 10
anni, dal 2020 al 2030. La richiesta comprende una riforma sul
vincolo di pareggio di bilancio, al quale devono attenersi per legge
sia il governo federale, sia i Länder ed i Comuni.5
Il cosiddetto “Die
schwartze Null”,
lo “Zero nero”.
Si
tratta di una preoccupata reazione ad una stagnazione che va
tramutandosi in recessione. Nel secondo trimestre dell'anno in corso
il Pil della Germania è diminuito dello 0,1%, salendo appena dello
0,1% nel terzo trimestre.
«La
produzione industriale tedesca è calata ad ottobre dell'1,7% contro
una previsione di una crescita dello 0,1%. E' quanto risulta dai dati
dell'ufficio di statistica tedesco. Il calo della produzione
sull'anno precedente è del 5,3% contro una previsione del 3,6%.»6
[Vedi
grafico qui sotto.]
A
cosa è dovuta la crisi della Germania?
Dando
uno sguardo all'andamento della bilancia commerciale si direbbe che
il modello esportativo, su cui si basa il primato tedesco, incontri
crescenti difficoltà. Nelle previsioni (ormai obsolete?) per il
biennio 2019-2020 le esportazioni crescono meno delle importazioni.
Inoltre incombono le conseguenze dei dazi voluti da Donald Trump,
l'instabilità generata dallo scontro commerciale Usa-Cina e dalla
Brexit.
Pertanto,
va rilanciata la spesa pubblica ed il mercato interno.
Secondo
i confindustriali tedeschi, là dove le imprese private non trovano
remunerazione per i propri investimenti, dovrebbe intervenire lo
Stato. In particolare con piani a lungo termine per le strutture
digitali a banda larga, strade e ferrovie, la transazione energetica
dal carbone, educazione e formazione.
Una
richiesta di tipo “keynesiano”, avvalorata dai dati ultimi di
ottobre.
Correlazioni
La
locomotiva ed il vagone
Se
la locomotiva Germania si ferma, o addirittura arretra, cosa può
fare il vagone Italia al traino?
Dopo
anni in cui ci siamo messi al seguito del modello esportativo
tedesco, divenendo sempre più su-fornitori della sua macchina
industriale, alla preoccupazione iniziale subentra un certo panico.
Ci
si poteva vantare dei nostri semilavorati, assemblati in Germania. Ma
che ce ne faremo del loro “alto valore aggiunto”, se “i
cannoni” di BMW, Volkswagen, Bosch e Siemens hanno le polveri
bagnate, ?
Appare
a rischio il livello d'interscambio che nel 2018 aveva superato i 128
miliardi di euro. Sono coinvolti i settori dell'export italiano in
Germania, quali: meccanica strumentale, metalli, mezzi di trasporto,
componentistica auto, chimica farmaceutica.
Eppure
l'esaltazione del nostro export “dimentica” troppo spesso un dato
ulteriore. La Germania si è avvantaggiata di un tasso di cambio
debole e favorevole, mentre l'Italia è stata sfavorita da un tasso
di cambio forte. Nei
15 anni successivi all'introduzione dell'euro, la differenza tra
export ed import nei confronti di Berlino ha raggiunto -227 miliardi
dollari, quando nei precedenti 15 anni si era attestata a -69
miliardi.
Una
minima riflessione su quanto ora sta accadendo a livello
internazionale, dovrebbe indurre l'Italia ad adottare finalmente una
politica industriale ed economica che manca da decenni. Essa dovrebbe
puntare a sviluppare maggiormente il mercato interno in direzione
green
e delle produzioni finite, senza delegarle alla “potenza di fuoco”
altrui.
Nel
contempo deve evitare l'ampliarsi delle dicotomie economico-sociali
in seno all'Unione europea...
Vengo
anch'io... No, tu no
L'appello
di Confindustria e sindacati tedeschi fa seguito ad altri inviti ad
una ripresa degli investimenti pubblici e del ruolo dello Stato in
economia, manifestatisi in Germania nel periodo estivo, in seguito ai
primi sintomi della recessione. È sorto il problema se derogare o
meno dai patti di bilancio e debito, come nella già descritta
situazione italiana. A tale proposito assumono un particolare
interesse le interviste di “Open.online” ad alcuni economisti,
risalenti allo scorso agosto.7
Per
Sergio Cesaratto: «Forse sono troppo ottimista ma questa iniziativa
potrebbe rappresentare un piccolo cambiamento di mentalità in una
direzione più keynesiana»; aggiungendo: «Un piccolo segno nella
direzione giusta perché in Germania debito e peccato sono la stessa
parola, e questo precetto dovrebbe cambiare».
Vladimiro
Giacché osservava: «Questo tipo di svolta avrà delle conseguenze
forti in Europa, è un cambiamento di paradigma, a questo punto chi
intendesse produrre una politica di disavanzo finalizzato a
investimenti pubblici avrebbe un argomento in più».
Secondo
l’economista Luigi Guiso, invece, quella di intraprendere un’azione
espansiva è una mossa che la Germania compie perché, a differenza
di molti altri, «se lo può permettere». «Hanno le finanze
pubbliche ordinate, un livello di debito contenuto e in genere loro
espandono quando ne hanno bisogno, quando lo devono fare, non
espandono a casaccio».
A
distanza di qualche mese da queste dichiarazioni, quando ancora oggi
il tema in Germania rimane aperto, tanto da indurre Confindustria e
sindacati ad avanzare le specifiche richieste poc'anzi citate, il
“realismo” di Giuso sembra prevalere sull'eccessivo ottimismo di
Cesaratto, fermo restando la validità del giudizio espresso da
Giacché.
Ursula von der Leyen |
A
confermare che gli investimenti statali per l'economia
green non
andranno computati “fuori sacco”,
cioè scorporati dal debito pubblico secondo i parametri europei, è
intervenuta Ursula von der Leyen, appena insediata a capo della
Commissione europea: «Non
sono favorevole a scomputare dal deficit gli investimenti verdi.»
«Bisogna essere coerenti nel ridurre la CO2, ma credo che sia un
obiettivo raggiungibile all'interno del Patto di Stabilità.»8
Se
ne deduce che
pure per l'ambiente, ai fleißig,
i Paesi diligenti del nucleo tedesco,
verranno
consentite iniziative, inibite, viceversa, ai faul,
i pigri e spendaccioni Paesi mediterranei.
(Le
riforme del MES e dell'Unione economica e monetaria vanno valutate
anche da questa angolatura.)
Note
1
Alle prime migliaia ne seguirebbero altre.
2
La proposta di affidamento della ex-ILVA alla AcelorMittal fu
ufficialmente preferita alla concorrente perché, tra l'altro,
offriva un maggior canone d'affitto.
3
Il 26 novembre, il ministro Patuanelli non ha escluso un nuovo IRI.
A tale proposito vedi:
https://www.lantidiplomatico.it/dettnews-autostrade_alitalia_e_ilva_la_necessit_di_un_nuovo_iri/11_31529/.
4
Affidare i cosiddetti “monopoli naturali” ai privati ha avuto
come effetto il degrado di tutta la rete autostradale, con tragedie
non solo a Genova, e la accumulazione di enormi profitti, senza
rischio d'impresa, in capo alle imprese concessionarie (Gruppi
Benetton, Gavio e Toto, ecc.), garantite dalle tariffe ai caselli.
5
Uski Audino, “Ossessione del debito, sindacati e aziende contro
Merkel”, il Fatto Economico, 20 novembre 2019.
8
Intervista
a von der Leyen: «Perché dico no allo scorporo degli
investimenti verdi dal deficit», il
Sole24Ore, 29 novembre 2019.
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