martedì 12 febbraio 2019

Effetti perversi

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Venti recessivi sull'Eurozona. Lo sguardo disinibito di Jan Zielonka sullo stallo della Brexit, sulla disgregazione dell'Europa e sul fallimento della “Rivoluzione liberale”. I limiti della più avanzata autocritica liberale. La spiegazione delle derive attuali nel modo in cui è stata fatta l'Unione europea e nel ruolo giocato dalle oligarchie economico-finanziarie.
Ragioni anteriori
È in corso la campagna elettorale per le europee di maggio. Lo scontro si è fatto aspro attorno alla stagnazione economica continentale, sulla quale spirano venti di recessione, investendo Germania, Francia, Spagna ed Italia [vedi grafico “Eurozone: Industrial Production”, qui a fianco].

Se in Italia, conoscendo i fatti, imputare al governo Conte la responsabilità della recessione è indice di perfetta malafede, nondimeno è fuorviante considerare il fenomeno come esclusivo prodotto delle politiche degli ultimi esecutivi. Per sostanziali ragioni di più lunga durata, nazionali ed internazionali:
  • le spinte recessive coinvolgono Paesi che, come Germania ed Italia, hanno basato da molti anni le rispettive economie sull'export e perciò sono più esposte ai rallentamenti della Cina ed alla guerra dei dazi voluta da Trump;
  • nella globalizzazione la corsa al surplus esportativo ha provocato reazioni a catena, giacché alla lunga i Paesi in deficit o si indebitano fino a diventare insolventi, o reagiscono (i più forti) in autodifesa, con misure politiche di riequilibrio a proprio favore;
  • in entrambi i casi il gioco “a scaricabarile” dei Paesi votati all'export mostra tutta la sua strutturale gracilità: le interdipendenze, che hanno consentito temporanei vantaggi, ora restituiscono effetti negativi;
  • la distribuzione dei contraccolpi recessivi sui diversi Paesi dell'Unione penalizza in misura maggiore l'Italia, sottoposta alla mannaia dello spread sugli interessi del debito pubblico, attivato da Bruxelles;
  • a questo andamento, dagli effetti perversi e disgregativi sul piano sociale e territoriale – tra Paese e Paese e in seno a ciascun Paese -, concorrono in modo decisivo le perduranti politiche di austerità che hanno depresso la domanda e le produzioni nazionali interne in funzione dell'export.1
D'altro canto, l'Europa dalla crisi finanziaria del 2007-2008 non è mai riuscita veramente ad emergere, trasformandola in crisi sociale e politica.
Pertanto, benché la manovra economica del Governo Conte sia anticiclica, potrebbe non bastare, se non vengono spese bene le ingenti disponibilità lasciate inutilizzate dai precedenti governi.2
Qualcosa di sbagliato
Anche la gestione della Brexit può contribuire a rafforzare i venti recessivi.
L'attuale leadership europea3 continua a voler usare le difficoltà di uscita dalla Ue della Gran Bretagna a mo' di spauracchio contro le forze “euroscettiche”. Ma gli effetti di tanta rigidità, nel precludere ogni alternativa all'accordo raggiunto con la premier May, potrebbero riservare ulteriori effetti perversi. Non ci andrebbe di mezzo solo l'Irlanda, sulla cui dogana con l'Ulster si è addensata la contesa, ma l'insieme dell'Europa, Gran Bretagna compresa.
Anche in questo caso l'interdipendenza conferma la sua natura ambivalente.
Jan Zielonka, con un articolo apparso sul quotidiano tedesco “Die Zeit” e su “il Fatto Quotidiano” sostiene che il vero problema della Brexit è l'Unione europea, non il Regno Unito.4
Secondo Zielonka, liberale polacco che ama definirsi intellettuale provocatore:
«C'è chiaramente qualcosa di sbagliato nel modo in cui funziona l'Ue e dobbiamo tutti affrontare la questione, invece che limitarci ad insultare quegli ingrati dei britannici e i partiti populisti.»
Quel “qualcosa” non si riferisce unicamente all'atteggiamento di Bruxelles verso il leave d'oltremanica.
«La verità è che l'Ue non è riuscita a offrire ai suoi cittadini strumenti efficaci di partecipazione. Anziché proteggere le persone dalle conseguenze della globalizzazione, l'Ue è diventata uno degli strumenti della globalizzazione stessa. Anche le economie europee più solide faticano a crescere abbastanza e i sistemi di welfare stanno collassando.»
Qualora le traballanti élites al potere, invece di riconoscere la profondità della crisi europea, continuassero nell'arroccamento sulle proprie posizioni, un ulteriore effetto perverso, secondo Zielonka, potrebbe essere il prevalere dei cosiddetti “euroscettici”, sia nel Parlamento che nella Commissione di Bruxelles.
Ravvedimenti
Nel nostro Paese viviamo giorni in cui le convinzioni del trentennio globalizzatore liberista vengono ridiscusse. Da Carlo De Benedetti ad Enrico Letta, da Alessandro Baricco a Gad Lerner è tutto un profluvio di revisioni, patimenti, pentimenti, autocritiche e penitenze (spesso addossate ad altrui colpe).
Forse ha ragione il professore Piero Ignazi, quando afferma: «Gli intellettuali ne discutono, ma le élite di pentirsi non hanno alcuna voglia, almeno in Italia.»5
Avremo tanti “ravvedimenti operosi” che pagano dazio o, piuttosto, siamo a cospetto del vecchio italico vizio del “mea culpa”, che inizia con una contrita dichiarazione autocritica e finisce puntualmente per addossare ad altri ogni effettiva responsabilità?
Per appurarlo le provocazioni di Jan Zielonka possono tornare utili. [Vedi “Un provocatore intellettuale”, nella finestra in pagina.]
Un provocatore intellettuale
Jan Zielonka
Tra i pochi intellettuali liberali che, con un certo senso autocritico, guardano all'attuale Europa, c'è Jan Zielonka, docente di Politiche europee alla University of Oxford e Ralf Dahrendorf Fellow al St Antony's College.
Al libro “Disintegrazione. Come salvare l'Europa dall'Unione europea”, Laterza, 2015 (2014), ha dato seguito con il più recente “Contro-rivoluzione. La disfatta dell'Europa liberale”, Laterza, 2018.
In questa ultima pubblicazione, nella forma di una lettera al suo mentore Ralf Dahrendorf (come Dahrendorf scrisse le sue riflessioni ricalcando le “Riflessioni sulla rivoluzione in Francia” di Edmund Burke)*, esorta i liberali a dismettere la cieca ira accusatrice contro i barbari populisti e sovranisti, per guardare alle “loro ragioni” e, con spirito pragmatico, enucleare i propri errori ed insufficienze.
Il professore polacco si sente “europeo” e si nutre del dichiarato intento di abbandonare un liberalismo giunto alla disfatta, dovuta ai suoi visibili fallimenti, identificando al contempo un liberalismo da salvare e riproporre, inevitabilmente in forma rinnovata.
* Ralf Dahrendorf, “1989. Riflessioni sulla rivoluzione in Europa. Lettera immaginaria a un amico di Varsavia (1990)”, Laterza, 1990.
Il disinibito approccio allo stallo della Brexit, prima citato, si riallaccia a quanto scrive Zielonka nei suoi due ultimi libri. Non gli sfugge la più ampia portata dei fenomeni attuali: la “disfatta dell'Europa liberale”, constatando la quale cerca di capire la “Controrivoluzione” in atto, a partire dall'indagine sui fallimenti della “Rivoluzione liberale”.
Benché non mi ritrovi affatto nella bipartizione semantica Rivoluzione-Controrivoluzione e ritenga gran parte degli intellettuali, per dirla con il professor Ignazi, tra «coloro che sono in grado di influenzare le decisioni e le visioni di società», ossia corresponsabili delle derive in atto, reputo la critica di Zielonka la più radicale possibile per il liberalismo europeo.
Una critica radicale
Jan Zielonka è un liberale europeo di lungo corso.
In rapida successione, è passato dalla presa d'atto della “Disintegrazione” alla disfatta dell'Europa liberale, sottoposta alla “Controrivoluzione”.
Nel 2014, anno di pubblicazione del suo “Disintegrazione”, si poteva ancora chiedere come salvare l'Europa dall'Unione europea, giacché i suoi leaders «hanno ignorato ogni evidenza e avvisaglia e hanno provocato eventi che li hanno condotti ad un punto al quale non dovrebbero nemmeno avvicinarsi: un punto chiamato disintegrazione.»
Nel 2018 la “Rivoluzione europea” è posta dinnanzi al proprio conclamato fallimento.
Pur in presenza di variazioni locali del movimento “contro-rivoluzionario”: «il denominatore comune è il rifiuto nei confronti delle persone e delle istituzioni che hanno governato l'Europa negli ultimi tre decenni.» A questi ultimi furono affidati poteri non elettivi ed è prevalsa l'idea che i «cittadini dovevano essere educati, piuttosto che ascoltati.» «Si affermava che gli interessi siano individuati meglio dagli esperti: generali, banchieri, mercanti, giuristi e, naturalmente, leader dei partiti di governo.» Mentre «raggruppamenti precedentemente distinti del centro-sinistra e del centro-destra si unirono sotto la bandiera liberale.»
Su tutto è venuta a sovrapporsi una sorta di “oligarchia liberale”, avulsa da una democrazia della rappresentanza mal funzionante. Ne è derivato un “disagio democratico”, che si è coniugato al “socialismo per ricchi”. Pongo l'accento su questa coniugazione.
Spiegare la sostanziale avversione della oligarchia alla democrazia, senza indagare sui reali motivi per i quali, di crisi in crisi, si è affermato il socialismo per (soli) ricchi, è piuttosto superficiale, un vol d'oiseau, invece che un andare veramente in profondità.
In questo si può rintracciare un limite che porta Zielonka ad un'analisi critica non tanto dissimile da quella di Massimo D'Alema.6
Il Sogno
Nel suo ultimo libro Zielonka parte dall'assunto, e dal suo punto di vista non potrebbe essere altrimenti, che alla disfatta dell'Europa liberale ed alla sua “Rivoluzione” sia venuta a contrapporsi una oramai prevalente “Contro-rivoluzione”.
Da liberale che ha confidato con Ralf Dahrendorf nella rivoluzione iniziata con la caduta del muro di Berlino, ne vuole trarre un bilancio a trent'anni dalla pubblicazione di “Riflessioni sulla rivoluzione europea”,7 opera del suo destinatario immaginario.
Al quarto capitolo, “Socialismo per ricchi”, inizia con la citazione di un passo tratto dal libro di Jeremy Rifkin, “Il sogno europeo”,8 uscito nel 2004, ossia prima del crollo finanziario del 2007-2008. [Vedi “Il sogno di Jeremy”, nella finestra in pagina.]
Il sogno di Jeremy
Jeremy Rifkin con Angela Merkel
«L'Europa ha conseguito la sua recente posizione di preminenza non già rincorrendo le quotazioni azionarie, aumentando le ore lavorative e spingendo le famiglie nel vicolo cieco del doppio salario. La Nuova Europa poggia invece su reti di mercato che badano più alla cooperazione che alla competizione; promuove un nuovo senso della cittadinanza che esalta il benessere della persona tutt'intera e della comunità piuttosto che dell'individuo dominante, e riconosce la necessità del “gioco profondo” e dello svago per creare una forza lavoro migliore, più produttiva e più sana.»
Da Jeremy Rifkin, “Il sogno europeo: come l'Europa ha creato una nuova visione del futuro che sta lentamente eclissando il sogno americano”, Mondadori, 2004.
Il passo è citato da Jan Zielonka al quarto capitolo, 'Socialismo per ricchi', del suo libro “Controrivoluzione”.

Certo, correva il 2004, ma d'acchito balza agli occhi non tanto la distanza tra quel sogno ed il risveglio successivo, quanto l'esaltazione di un inesistente presente. Rimane un mistero dove Rifkin abbia potuto scorgere il concreto realizzarsi di quel sogno. Muovendo da tali premesse, il “futurologo” Rifkin si accingeva ad una mission impossible.
Fino al crollo finanziario nord-americano del 2007-2008, dove si poteva scorgere un'Europa nuova che, poggiando su reti di mercato, badava più alla cooperazione che alla competizione? Alla comunità piuttosto che all'individuo dominante? Non si era reso conto, Jeremy, di come veniva concretamente costruita l'Europa nell'Unione?
Eppure solo un anno dopo, i referendum popolari in Francia e Olanda ne rigettavano la pretesa Costituzione, calata dall'alto di un trattato internazionale tra governi. Eppure già a Maastricht (1992) si annunciava che il sogno si sarebbe ben presto trasformato in un incubo per la grande maggioranza. Bastava guardare ai risvolti sociali di quel Trattato.
A tale riguardo Zielonka scrive, a pagina 40-41 del suo “Controrivoluzione”:
«Nell'Europa degli anni Sessanta e Settanta del secolo scorso molta parte del discorso liberale riguardava il welfare state e l'idea che la mutua responsabilità, il riconoscimento dell'interdipendenza e il senso di comunità fossero gli strumenti per sostenere lo sviluppo individuale. Questo discorso è a poco a poco svaporato dopo il 1989. I neoliberisti (sotto l'influenza della reaganomics) hanno introdotto una falsa dicotomia tra liberalismo e comunitarismo. Il primo doveva avere come suo centro d'interesse solo l'individuo: “la società non esiste”, dichiarò Margaret Thatcher in una sua famosa intervista. Così, il progetto liberale ha lasciato gli individui sperduti nel labirinto di potenti mercati internazionali e istituzioni transnazionali inadeguate. Sempre più i cittadini si trovano isolati e privi di protezione pubblica tanto nel campo dell'economia quanto in quello del diritto e dell'amministrazione. Abbiamo minato i confini nazionali senza creare efficaci autorità pubbliche transnazionali.»
Il Risveglio
Il brusco risveglio sarebbe dovuto: al prevalere del neoliberismo; alla introduzione della falsa dicotomia tra liberalismo e comunitarismo; a considerare solo l'individuo, negando l'insieme sociale; ad inadeguate istituzioni ed autorità transnazionali a fronte di confini nazionali resi labili (dalla globalizzazione).
Appare indubbio che il neoliberismo sia imputabile dei disastri attuali. Il suo prevalere, tuttavia, richiede delle spiegazioni che anche la versione più democratica e sociale del liberalismo non riesce a darci. Sul piano storico, economico-sociale e politico.
Ricorre nella visione di Zielonka la constatazione che, da Maastricht in poi, l'Europa abbia attraversato tre rivoluzioni: geopolitica, geoeconomica e digitale.
Nella ricostruzione delle prime due manca una adeguata comprensione di come l'Europa occidentale, nel dopo-muro, si sia allargata ad Est e di come si siano strutturate le dicotomie tra Centro e Periferie. Assente è un minimo esame del sistema euro.
Così come «intimare ai britannici di cambiare atteggiamento verso l'Ue senza cambiare l'Ue serve a poco», invocare «solidarietà, non soltanto crescita, competizione e potere», senza indicare contro chi e con quali forze, è altrettanto inutile.
Vanno visti i comportamenti delle élites politico-intellettuali, senza trascurare le retrostanti oligarchie economico-finanziarie alle quali queste élites hanno aderito, annegando ogni differenza tra destra e sinistra. Il conseguente intreccio di potere oligarchico ha una sua storia, alla quale non ci si può sottrarre. E questa ha un punto di snodo.
Senza la minaccia costituita dal comunismo e dalle liberazioni nazionali, venuta a mancare nei lustri precedenti la caduta del muro, il liberalismo occidentale, e non di meno quello europeo, si è sentito libero di poter realizzare se stesso nella forma più integrale. Non è altrimenti spiegabile, politicamente, il prevalere del neoliberismo, dell'ottica individualistica su quella sociale, del governo degli “esperti” a danno della stessa democrazia rappresentativa, e, non ultima, della globalizzazione delle multinazionali e della finanza sulla sovranità popolare che svanisce quando non può esercitarsi nello Stato-nazione.
Pertanto, adeguate autorità transnazionali mancano per il semplice motivo che lo scopo essenziale della globalizzazione è stato di depotenziare le sovranità nazionali democratiche, non di corroborarle ad un livello più alto. Subentra la crisi politica, solo allorché all'interno dei Paesi ricchi d'Occidente si manifesta la ribellione di ampi strati di popolazione impoverita e, sulla scena internazionale, la leadership di quei Paesi ricchi viene messa in discussione dai Paesi emergenti. Da quel momento in poi, il liberalismo delle menti più democratiche comincia a chiedere di recuperare i “valori” in auge del periodo post-bellico, senza però produrre effetti pratici sul “liberalismo reale”.
Affinità elettive
Nel variegato movimento “contro-rivoluzionario” europeo, Zielonka distingue e riconosce sostanziali differenze. Tuttavia, pur rifiutandosi di metterle tutte nello stesso sacco e pur definendo fuorviante e stigmatizzante l'appellativo “populista” che vorrebbe accomunarle, non perviene ad alcuna logica conclusione politica. Se lo facesse dovrebbe ammettere che tanto il Movimento 5 Stelle, quanto Syriza e Podemos, per non parlare di France Insoumise (stranamente assente nella sua analisi), non possono in alcun modo venire rubricate come contro-rivoluzionarie.9 Dovrebbe, di converso, ammettere che in sé la “Rivoluzione liberale” propriamente rivoluzionaria non era...
Prescindendo da questi appunti critici, non vanno sottaciuti due effetti assai rilevanti della “rivoluzione geopolitica”: ad Est e nella Mitteleuropa prevalgono partiti anti-establishment nazionalistici a tinte fascistizzanti; nel Mediterraneo la presenza di simili forze è contraddetta da movimenti di sovranità popolare e democratico-costituzionali. Il che ci riporta direttamente a quanto viene ripetutamente ignorato da Zielonka: al modo in cui l'Unione si è fatta largo ad Oriente e si è strutturata in un Centro a trazione tedesca e differenziate Periferie. Tra queste ultime figurano Paesi del Sud che, avendo ancora vive le ferite del fascismo, si mostrano piuttosto resistenti. Ad Est, invece, il nazionalismo a base etnico-confessionale si è installato grazie ai riconoscimenti ed agli appoggi ricevuti dai Paesi dell'Europa occidentale che aspiravano all'espansione dei propri capitali nazionali. Fu così gettato “il bambino con l'acqua sporca”, ovvero le conquiste sociali con i regimi del “socialismo reale”.
Il limite che incontra il professore polacco, al quale va riconosciuto il coraggio di remare contro-corrente nel fiume liberale, gli preclude la comprensione di quanto emerge oggi in superficie. Vale a dire la propensione delle retrostanti oligarchie economico-finanziarie a cambiare cavallo, anche mettendo in subordine le élites politico-intellettuali delle quali si sono avvalse fino ad ora. Una propensione evidente in Italia, Paese in cui le spinte al cambiamento si sono fatte provvisorio contratto di governo.
Dopo l'addensarsi degli schieramenti sul TAV, scelta dirimente per le sue implicazioni sistemiche, ora registriamo le affinità elettive tra il vecchio regime e la Lega di Salvini sulla crisi del Venezuela.
Anche in questo caso di mezzo non c'è solo la “scelta” tra un presidente eletto (Nicolás Maduro) nel 2018 con un suffragio boicottato dalle opposizioni, ed uno nominato (Juan Guaidó), in base ad una lettura capziosa della Costituzione, da un parlamento eletto nel 2015. E non è nemmeno solo una questione di petrolio [vedi la tabella “I primi undici Paesi detentori di riserve petrolifere”, in pagina].
In questione c'è la pratica politica egemonica di stampo imperialistico, basata sull'attacco all'autodeterminazione, sull'intromissione negli affari interni di un Paese, reiterando - anche questo non può essere un caso - le sanzioni economiche ad hoc e gli sciagurati riconoscimenti esteri.
Abbiamo ancora fresca memoria degli effetti perversi di questa strategia: dalla ex-Jugoslavia, all'Iraq, alla Libia, all'Ucraina.
Sotto la minaccia di un intervento militare “umanitario e democratico” degli Stati Uniti, il golpe bianco di Guaidó si può trasformare in golpe nero ed in un sanguinoso scontro in terra venezuelana, con pesanti ripercussioni sulle relazioni internazionali.
L'elenco dei partiti politici italiani che si sono espressi per il riconoscimento di Guaidó, la dice lunga su quanto valgono le loro professioni di pace.
I primi undici Paesi detentori di riserve petrolifere
Note:
1 In un regime di cambi fissi (qual è l'euro), non potendo ricorrere alla svalutazione esterna, ciascun Paese in difficoltà ricorre alla “svalutazione interna” con abbassamenti salariali, precarietà del lavoro e riduzione del welfare.
2 Accordo con la Banca europea degli investimenti per un totale di 140 miliardi, spendibili in 15 anni.
3 L'atteggiamento europeo è ben sintetizzato dal presidente del Consiglio europeo, Donald Tusk, che ha riservato (6 febbraio 2019): «Un posto all'inferno per i promotori della Brexit.»
4 Jan Zielonka, “Il vero problema della Brexit è l'Ue, non il Regno Unito”, il Fatto Quotidiano, 31 gennaio 2019.
5 Intervista di Luca De Carolis a Piero Ignazi, il Fatto Quotidiano, 20 gennaio 2019.
6 Vedi in questo Blog, il Post “L'autocritica di un liberale tardivo”, gennaio 2019.
7 Ralf Dahrendorf, “1989. Riflessioni sulla rivoluzione in Europa. Lettera immaginaria a un amico di Varsavia (1990)”, Laterza, 1990.
8 Jeremy Rifkin, “Il sogno europeo: come l'Europa ha creato una nuova visione del futuro che sta lentamente eclissando il sogno americano”, Mondadori, 2004.
9 Al Labour di Jeremy Corbyn, Zielonka dedica considerazioni a parte.

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