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Venti
recessivi sull'Eurozona. Lo sguardo disinibito di Jan Zielonka sullo
stallo della Brexit, sulla disgregazione dell'Europa e sul fallimento
della “Rivoluzione liberale”. I limiti della più avanzata
autocritica liberale. La spiegazione delle derive attuali nel modo in
cui è stata fatta l'Unione europea e nel ruolo giocato dalle
oligarchie economico-finanziarie.
Ragioni
anteriori
È
in corso la campagna elettorale per le europee di maggio. Lo scontro
si è fatto aspro attorno alla stagnazione economica continentale,
sulla quale spirano venti di recessione, investendo Germania,
Francia, Spagna ed Italia [vedi grafico
“Eurozone: Industrial Production”, qui a fianco].
Se
in Italia, conoscendo i fatti, imputare al governo Conte la
responsabilità della recessione è indice di perfetta malafede,
nondimeno è fuorviante considerare il fenomeno come esclusivo
prodotto delle politiche degli ultimi esecutivi. Per sostanziali
ragioni di più lunga durata,
nazionali ed internazionali:
- le spinte recessive coinvolgono Paesi che, come Germania ed Italia, hanno basato da molti anni le rispettive economie sull'export e perciò sono più esposte ai rallentamenti della Cina ed alla guerra dei dazi voluta da Trump;
- nella globalizzazione la corsa al surplus esportativo ha provocato reazioni a catena, giacché alla lunga i Paesi in deficit o si indebitano fino a diventare insolventi, o reagiscono (i più forti) in autodifesa, con misure politiche di riequilibrio a proprio favore;
- in entrambi i casi il gioco “a scaricabarile” dei Paesi votati all'export mostra tutta la sua strutturale gracilità: le interdipendenze, che hanno consentito temporanei vantaggi, ora restituiscono effetti negativi;
- la distribuzione dei contraccolpi recessivi sui diversi Paesi dell'Unione penalizza in misura maggiore l'Italia, sottoposta alla mannaia dello spread sugli interessi del debito pubblico, attivato da Bruxelles;
- a questo andamento, dagli effetti perversi e disgregativi sul piano sociale e territoriale – tra Paese e Paese e in seno a ciascun Paese -, concorrono in modo decisivo le perduranti politiche di austerità che hanno depresso la domanda e le produzioni nazionali interne in funzione dell'export.1
D'altro
canto, l'Europa dalla crisi finanziaria del 2007-2008 non è mai
riuscita veramente ad emergere, trasformandola in crisi sociale e
politica.
Pertanto,
benché la manovra economica del Governo Conte sia anticiclica,
potrebbe non bastare, se non vengono spese bene le ingenti
disponibilità lasciate inutilizzate dai precedenti governi.2
Qualcosa
di sbagliato
Anche
la gestione della Brexit può contribuire a rafforzare i venti
recessivi.
L'attuale
leadership europea3
continua a voler usare le difficoltà di uscita dalla Ue della Gran
Bretagna a mo' di spauracchio contro le forze “euroscettiche”. Ma
gli effetti di tanta rigidità, nel precludere ogni alternativa
all'accordo raggiunto con la premier May, potrebbero riservare
ulteriori effetti perversi.
Non ci andrebbe di mezzo solo l'Irlanda, sulla cui dogana con
l'Ulster si è addensata la contesa, ma l'insieme dell'Europa, Gran
Bretagna compresa.
Anche
in questo caso l'interdipendenza conferma la sua natura ambivalente.
Jan
Zielonka, con un articolo apparso sul quotidiano tedesco “Die Zeit”
e su “il Fatto Quotidiano” sostiene che il vero problema della
Brexit è l'Unione europea, non il Regno Unito.4
Secondo
Zielonka, liberale polacco che ama definirsi intellettuale
provocatore:
«C'è
chiaramente qualcosa di sbagliato nel modo in cui funziona l'Ue e
dobbiamo tutti affrontare la questione, invece che limitarci ad
insultare quegli ingrati dei britannici e i partiti populisti.»
Quel
“qualcosa” non si riferisce unicamente all'atteggiamento di
Bruxelles verso il leave d'oltremanica.
«La
verità è che l'Ue non è riuscita a offrire ai suoi cittadini
strumenti efficaci di partecipazione. Anziché
proteggere le persone dalle conseguenze della globalizzazione, l'Ue è
diventata uno degli strumenti della globalizzazione stessa.
Anche le economie europee più solide faticano a crescere abbastanza
e i sistemi di welfare stanno collassando.»
Qualora
le traballanti élites al potere, invece di riconoscere la
profondità della crisi europea, continuassero nell'arroccamento
sulle proprie posizioni, un ulteriore effetto perverso, secondo
Zielonka, potrebbe essere il prevalere dei cosiddetti “euroscettici”,
sia nel Parlamento che nella Commissione di Bruxelles.
Ravvedimenti
Nel
nostro Paese viviamo giorni in cui le convinzioni del trentennio
globalizzatore liberista vengono ridiscusse. Da Carlo De Benedetti ad
Enrico Letta, da Alessandro Baricco a Gad Lerner è tutto un
profluvio di revisioni, patimenti, pentimenti, autocritiche e
penitenze (spesso addossate ad altrui colpe).
Forse
ha ragione il professore Piero Ignazi, quando afferma: «Gli
intellettuali ne discutono, ma le élite di pentirsi non hanno alcuna
voglia, almeno in Italia.»5
Avremo
tanti “ravvedimenti operosi” che pagano dazio o, piuttosto, siamo
a cospetto del vecchio italico vizio del “mea culpa”, che inizia
con una contrita dichiarazione autocritica e finisce puntualmente per
addossare ad altri ogni effettiva responsabilità?
Per
appurarlo le provocazioni di Jan Zielonka possono tornare utili.
[Vedi “Un
provocatore intellettuale”, nella finestra in pagina.]
Un
provocatore intellettuale
Jan Zielonka |
Tra
i pochi intellettuali liberali che, con un certo senso autocritico,
guardano all'attuale Europa, c'è Jan Zielonka, docente di Politiche
europee alla University
of Oxford
e Ralf
Dahrendorf Fellow
al St
Antony's College.
Al
libro “Disintegrazione. Come salvare l'Europa dall'Unione
europea”, Laterza, 2015 (2014), ha dato seguito con il più
recente “Contro-rivoluzione. La disfatta dell'Europa liberale”,
Laterza, 2018.
In
questa ultima pubblicazione, nella forma di una lettera al suo
mentore Ralf Dahrendorf (come Dahrendorf scrisse le sue riflessioni
ricalcando le “Riflessioni sulla rivoluzione in Francia” di
Edmund Burke)*, esorta i liberali a dismettere la cieca ira
accusatrice contro i barbari populisti e sovranisti, per guardare
alle “loro ragioni” e, con spirito pragmatico, enucleare i propri
errori ed insufficienze.
Il
professore polacco si sente “europeo” e si nutre del dichiarato
intento di abbandonare un liberalismo giunto alla disfatta, dovuta ai
suoi visibili fallimenti, identificando al contempo un liberalismo da
salvare e riproporre, inevitabilmente in forma rinnovata.
*
Ralf Dahrendorf, “1989. Riflessioni sulla rivoluzione in Europa.
Lettera immaginaria a un amico di Varsavia (1990)”, Laterza, 1990.
Il
disinibito approccio allo stallo della Brexit, prima citato, si
riallaccia a quanto scrive Zielonka nei suoi due ultimi libri. Non
gli sfugge la più ampia portata dei fenomeni attuali: la “disfatta
dell'Europa liberale”, constatando la quale cerca di capire la
“Controrivoluzione” in atto, a partire dall'indagine sui
fallimenti della “Rivoluzione liberale”.
Benché
non mi ritrovi affatto nella bipartizione semantica
Rivoluzione-Controrivoluzione e ritenga gran parte degli
intellettuali, per dirla con il professor Ignazi, tra «coloro che
sono in grado di influenzare le decisioni e le visioni di società»,
ossia corresponsabili delle derive in atto, reputo la critica di
Zielonka la più radicale possibile per il liberalismo europeo.
Una
critica radicale
Jan
Zielonka è un liberale europeo di lungo corso.
In
rapida successione, è passato dalla presa d'atto della
“Disintegrazione” alla disfatta dell'Europa liberale, sottoposta
alla “Controrivoluzione”.
Nel
2014, anno di pubblicazione del suo “Disintegrazione”, si poteva
ancora chiedere come salvare l'Europa dall'Unione europea, giacché i
suoi leaders «hanno ignorato ogni evidenza e avvisaglia e
hanno provocato eventi che li hanno condotti ad un punto al quale non
dovrebbero nemmeno avvicinarsi: un punto chiamato disintegrazione.»
Nel
2018 la “Rivoluzione europea” è posta dinnanzi al proprio
conclamato fallimento.
Pur
in presenza di variazioni locali del movimento
“contro-rivoluzionario”: «il denominatore comune è il rifiuto
nei confronti delle persone e delle istituzioni che hanno governato
l'Europa negli ultimi tre decenni.» A questi ultimi furono affidati
poteri non elettivi ed è prevalsa l'idea che i «cittadini dovevano
essere educati, piuttosto che ascoltati.» «Si affermava che gli
interessi siano individuati meglio dagli esperti: generali,
banchieri, mercanti, giuristi e, naturalmente, leader dei partiti di
governo.» Mentre «raggruppamenti
precedentemente distinti del centro-sinistra e del centro-destra si
unirono sotto la bandiera liberale.»
Su
tutto è venuta a sovrapporsi una sorta di “oligarchia liberale”,
avulsa da una democrazia della rappresentanza mal funzionante. Ne è
derivato un “disagio democratico”, che si è coniugato al
“socialismo per ricchi”. Pongo l'accento su questa coniugazione.
Spiegare
la sostanziale avversione della oligarchia alla democrazia, senza
indagare sui reali motivi per i quali, di crisi in crisi, si è
affermato il socialismo per (soli) ricchi, è piuttosto superficiale,
un vol d'oiseau, invece che un andare veramente in profondità.
In
questo si può rintracciare un limite che porta Zielonka ad
un'analisi critica non tanto dissimile da quella di Massimo D'Alema.6
Il
Sogno
Nel
suo ultimo libro Zielonka parte dall'assunto, e dal suo punto di
vista non potrebbe essere altrimenti, che alla disfatta dell'Europa
liberale ed alla sua “Rivoluzione” sia venuta a contrapporsi una
oramai prevalente “Contro-rivoluzione”.
Da
liberale che ha confidato con Ralf Dahrendorf nella rivoluzione
iniziata con la caduta del muro di Berlino, ne vuole trarre un
bilancio a trent'anni dalla pubblicazione di “Riflessioni sulla
rivoluzione europea”,7
opera del suo destinatario immaginario.
Al
quarto capitolo, “Socialismo per ricchi”, inizia con la citazione
di un passo tratto dal libro di Jeremy Rifkin, “Il sogno europeo”,8
uscito nel 2004, ossia prima del crollo finanziario del 2007-2008.
[Vedi
“Il sogno di Jeremy”, nella finestra in pagina.]
Il
sogno di Jeremy
Jeremy Rifkin con Angela Merkel |
«L'Europa
ha conseguito la sua recente posizione di preminenza non già
rincorrendo le quotazioni azionarie, aumentando le ore lavorative e
spingendo le famiglie nel vicolo cieco del doppio salario. La Nuova
Europa poggia invece su reti di mercato che badano più alla
cooperazione che alla competizione; promuove un nuovo senso della
cittadinanza che esalta il benessere della persona tutt'intera e
della comunità piuttosto che dell'individuo dominante, e riconosce
la necessità del “gioco profondo” e dello svago per creare una
forza lavoro migliore, più produttiva e più sana.»
Da
Jeremy Rifkin, “Il sogno europeo: come l'Europa ha creato una nuova
visione del futuro che sta lentamente eclissando il sogno americano”,
Mondadori, 2004.
Il
passo è citato da Jan Zielonka al quarto capitolo, 'Socialismo per
ricchi', del suo libro “Controrivoluzione”.
Certo,
correva il 2004, ma d'acchito balza agli occhi non tanto la distanza
tra quel sogno ed il risveglio successivo, quanto l'esaltazione di un
inesistente presente. Rimane un mistero dove Rifkin abbia potuto
scorgere il concreto realizzarsi di quel sogno. Muovendo da tali
premesse, il “futurologo” Rifkin si accingeva ad una mission
impossible.
Fino
al crollo finanziario nord-americano del 2007-2008, dove si poteva
scorgere un'Europa nuova che, poggiando su reti di mercato, badava
più alla cooperazione che alla competizione? Alla comunità
piuttosto che all'individuo dominante? Non si era reso conto, Jeremy,
di come veniva concretamente costruita l'Europa nell'Unione?
Eppure
solo un anno dopo, i referendum popolari in Francia e Olanda ne
rigettavano la pretesa Costituzione, calata dall'alto di un trattato
internazionale tra governi. Eppure già a Maastricht (1992) si
annunciava che il sogno si sarebbe ben presto trasformato in un
incubo per la grande maggioranza. Bastava guardare ai risvolti
sociali di quel Trattato.
A
tale riguardo Zielonka scrive, a pagina 40-41 del suo
“Controrivoluzione”:
«Nell'Europa
degli anni Sessanta e Settanta del secolo scorso molta parte del
discorso liberale riguardava il welfare state e l'idea che la mutua
responsabilità, il riconoscimento dell'interdipendenza e il senso di
comunità fossero gli strumenti per sostenere lo sviluppo
individuale. Questo discorso è a poco a poco svaporato dopo il 1989.
I neoliberisti (sotto l'influenza della reaganomics) hanno introdotto
una falsa dicotomia tra liberalismo e comunitarismo. Il primo doveva
avere come suo centro d'interesse solo l'individuo: “la società
non esiste”, dichiarò Margaret Thatcher in una sua famosa
intervista. Così, il progetto liberale ha lasciato gli individui
sperduti nel labirinto di potenti mercati internazionali e
istituzioni transnazionali inadeguate. Sempre più i cittadini si
trovano isolati e privi di protezione pubblica tanto nel campo
dell'economia quanto in quello del diritto e dell'amministrazione.
Abbiamo minato i confini nazionali senza creare efficaci autorità
pubbliche transnazionali.»
Il
Risveglio
Il
brusco risveglio sarebbe dovuto: al prevalere del neoliberismo; alla
introduzione della falsa dicotomia tra liberalismo e comunitarismo; a
considerare solo l'individuo, negando l'insieme sociale; ad
inadeguate istituzioni ed autorità transnazionali a fronte di
confini nazionali resi labili (dalla globalizzazione).
Appare
indubbio che il neoliberismo sia imputabile dei disastri attuali. Il
suo prevalere, tuttavia, richiede delle spiegazioni che anche la
versione più democratica e sociale del liberalismo non riesce a
darci. Sul piano storico, economico-sociale e politico.
Ricorre
nella visione di Zielonka la constatazione che, da Maastricht in poi,
l'Europa abbia attraversato tre rivoluzioni: geopolitica,
geoeconomica e digitale.
Nella
ricostruzione delle prime due manca una adeguata comprensione di come
l'Europa occidentale, nel dopo-muro, si sia allargata ad Est e di
come si siano strutturate le dicotomie tra Centro e Periferie.
Assente è un minimo esame del sistema euro.
Così
come «intimare ai britannici di
cambiare atteggiamento verso l'Ue senza cambiare l'Ue serve a poco»,
invocare «solidarietà, non soltanto crescita, competizione e
potere», senza indicare contro chi e con quali forze, è altrettanto
inutile.
Vanno
visti i comportamenti delle élites
politico-intellettuali, senza trascurare le retrostanti oligarchie
economico-finanziarie alle quali queste élites
hanno aderito, annegando ogni differenza tra destra e sinistra. Il
conseguente intreccio di potere oligarchico ha una sua storia, alla
quale non ci si può sottrarre. E questa ha un punto
di snodo.
Senza
la minaccia costituita dal comunismo e dalle liberazioni nazionali,
venuta a mancare nei lustri precedenti la caduta del muro, il
liberalismo occidentale, e non di meno quello europeo, si è sentito
libero di poter realizzare se stesso nella forma più integrale. Non
è altrimenti spiegabile, politicamente, il prevalere del
neoliberismo, dell'ottica individualistica su quella sociale, del
governo degli “esperti” a danno della stessa democrazia
rappresentativa, e, non ultima, della globalizzazione delle
multinazionali e della finanza sulla sovranità popolare che svanisce
quando non può esercitarsi nello Stato-nazione.
Pertanto,
adeguate autorità transnazionali mancano per il semplice motivo che
lo scopo essenziale della globalizzazione è stato di depotenziare le
sovranità nazionali democratiche, non di corroborarle ad un livello
più alto. Subentra la crisi politica, solo allorché all'interno dei
Paesi ricchi d'Occidente si manifesta la ribellione di ampi strati di
popolazione impoverita e, sulla scena internazionale, la leadership
di quei Paesi ricchi viene messa in discussione dai Paesi emergenti.
Da quel momento in poi, il liberalismo delle menti più democratiche
comincia a chiedere di recuperare i “valori” in auge del
periodo post-bellico, senza però produrre effetti pratici sul
“liberalismo reale”.
Affinità
elettive
Nel
variegato movimento “contro-rivoluzionario” europeo, Zielonka
distingue e riconosce sostanziali differenze. Tuttavia, pur
rifiutandosi di metterle tutte nello stesso sacco e pur definendo
fuorviante e stigmatizzante l'appellativo “populista” che
vorrebbe accomunarle, non perviene ad alcuna logica conclusione
politica. Se lo facesse dovrebbe ammettere che tanto il Movimento 5
Stelle, quanto Syriza e Podemos, per non parlare di
France Insoumise (stranamente assente nella sua analisi), non
possono in alcun modo venire rubricate come contro-rivoluzionarie.9
Dovrebbe, di converso, ammettere che in sé la “Rivoluzione
liberale” propriamente rivoluzionaria non era...
Prescindendo
da questi appunti critici, non vanno sottaciuti due
effetti assai rilevanti della “rivoluzione geopolitica”:
ad Est e nella Mitteleuropa prevalgono partiti anti-establishment
nazionalistici a tinte fascistizzanti; nel Mediterraneo la presenza
di simili forze è contraddetta da movimenti di sovranità popolare e
democratico-costituzionali. Il che ci riporta direttamente a quanto
viene ripetutamente ignorato da Zielonka: al modo in cui l'Unione si
è fatta largo ad Oriente e si è strutturata in un Centro a trazione
tedesca e differenziate Periferie. Tra queste ultime figurano Paesi
del Sud che, avendo ancora vive le ferite del fascismo, si mostrano
piuttosto resistenti. Ad Est, invece, il nazionalismo a base
etnico-confessionale si è installato grazie ai riconoscimenti ed
agli appoggi ricevuti dai Paesi dell'Europa occidentale che
aspiravano all'espansione dei propri capitali nazionali. Fu così
gettato “il bambino con l'acqua sporca”, ovvero le conquiste
sociali con i regimi del “socialismo reale”.
Il
limite che incontra il professore polacco, al quale va riconosciuto
il coraggio di remare contro-corrente nel fiume liberale, gli
preclude la comprensione di quanto emerge oggi in superficie. Vale a
dire la propensione delle
retrostanti oligarchie economico-finanziarie a cambiare cavallo,
anche mettendo in subordine le élites politico-intellettuali
delle quali si sono avvalse fino ad ora. Una propensione evidente in
Italia, Paese in cui le spinte al cambiamento si sono fatte
provvisorio contratto di governo.
Dopo
l'addensarsi degli schieramenti sul TAV, scelta dirimente per le sue
implicazioni sistemiche, ora registriamo le affinità elettive tra il
vecchio regime e la Lega di Salvini sulla crisi del Venezuela.
Anche
in questo caso di mezzo non c'è solo la “scelta”
tra un presidente eletto (Nicolás
Maduro)
nel 2018 con un suffragio boicottato dalle opposizioni, ed uno
nominato (Juan Guaidó), in
base ad una lettura capziosa della Costituzione, da
un parlamento eletto nel 2015.
E non è nemmeno solo una questione di petrolio
[vedi la tabella “I primi undici Paesi detentori di riserve
petrolifere”, in pagina].
In
questione c'è la pratica politica egemonica di stampo
imperialistico, basata sull'attacco all'autodeterminazione,
sull'intromissione negli affari interni di un Paese, reiterando -
anche questo non può essere un caso - le sanzioni economiche ad
hoc e gli sciagurati
riconoscimenti esteri.
Abbiamo
ancora fresca memoria degli effetti perversi di questa strategia:
dalla ex-Jugoslavia, all'Iraq, alla Libia, all'Ucraina.
Sotto
la minaccia di un intervento militare “umanitario e democratico”
degli Stati Uniti, il golpe bianco di Guaidó
si può trasformare in golpe nero ed in un sanguinoso scontro in
terra venezuelana, con pesanti ripercussioni sulle relazioni
internazionali.
L'elenco
dei partiti politici italiani che si sono espressi per il
riconoscimento di Guaidó, la dice lunga su quanto valgono le loro
professioni di pace.
Note:
1
In un regime di cambi fissi (qual è l'euro), non potendo ricorrere
alla svalutazione esterna, ciascun Paese in difficoltà ricorre alla
“svalutazione interna” con abbassamenti salariali, precarietà
del lavoro e riduzione del welfare.
2
Accordo con la Banca europea degli investimenti per un totale di 140
miliardi, spendibili in 15 anni.
3
L'atteggiamento europeo è
ben sintetizzato dal presidente del Consiglio europeo, Donald Tusk,
che ha riservato (6 febbraio 2019): «Un
posto all'inferno per i promotori della Brexit.»
4
Jan Zielonka, “Il vero problema della Brexit è l'Ue, non il Regno
Unito”, il Fatto Quotidiano, 31 gennaio 2019.
5
Intervista di Luca De Carolis a Piero Ignazi, il Fatto Quotidiano,
20 gennaio 2019.
6
Vedi in questo Blog, il Post “L'autocritica di un liberale
tardivo”, gennaio 2019.
7
Ralf Dahrendorf, “1989. Riflessioni sulla rivoluzione in Europa.
Lettera immaginaria a un amico di Varsavia (1990)”, Laterza, 1990.
8
Jeremy Rifkin, “Il sogno europeo: come l'Europa ha creato una
nuova visione del futuro che sta lentamente eclissando il sogno
americano”, Mondadori, 2004.
9
Al Labour
di Jeremy
Corbyn, Zielonka dedica considerazioni a parte.
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