sabato 10 settembre 2016

Sabino e gli Stati falliti

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Gli “Stati falliti” esportano profughi, migranti e terrorismo. Perché sono falliti? Di chi la responsabilità? Soprattutto, qual è il rimedio? Sabino Cassese ci indica la via maestra.


  • Decenni di demolizione dello sviluppo autonomo dei Paesi ex-coloniali e di interventismo bellico da parte degli Stati euro-atlantici producono un effetto boomerang: le cattive esportazioni.
  • Tuttavia, all'autodeterminazione e alla non ingerenza, ad una politica di pace e di reale cooperazione, si continua a preferire l'interventismo.
  • Per legittimarlo servono nuove “motivazioni”, di tipo “umanitario” e basate su una nuova interpretazione del diritto internazionale, il cosiddetto “cosmopolitismo dei diritti”. Purché tutto cambi, ma nulla cambi.

Cattivi esportatori
Profughi, migranti “economici” e terrorismo di “matrice islamica fondamentalista” sono problemi che ci vengono esportati da Stati alla deriva, situati in Medio Oriente ed in Africa Centrale. I loro poteri centrali sono fatiscenti: inetti di fronte allo sfascio sociale ed economico, al dilagare della povertà; impotenti verso gruppi paramilitari che manipolano identità tribali ed etniche; delegittimati all'uso della forza e non in grado di garantire il governo dei loro territori, nel rispetto dei diritti umani e nello sviluppo.
Stante la situazione, la “comunità internazionale” ha l'obbligo morale di intervenire, dandosi carico della promozione di istituzioni statali capaci di ripristinare le funzioni di governo in questi Paesi, in tal modo concorrendo alla soluzione anche dei problemi di cui soffriamo l'esportazione.
Su questa linea è Sabino Cassese1, noto giurista e sostenitore di “un benefico cosmopolitismo dei diritti”, argomentato percorrendo “vie di analisi equilibrate” (secondo il giudizio pur critico del filosofo Biagio de Giovanni)2.
Analisi equilibrate” di cui, però, si cercherebbe invano traccia nel suo articolo, apparso sulla prima del Corriere della sera dello scorso 22 agosto [vedi riquadro in pagina], significativamente intitolato “Le minacce degli stati falliti”.
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Obblighi morali
«Siria, Iraq, Libia, Yemen diventano di giorno in giorno un problema per il mondo. Questi Paesi fanno parte della categoria degli “Stati falliti”. Se si aggiungono gli “Stati fragili”, il loro numero ammonta a parecchie decine. Si tratta di costruzioni statali precarie o inesistenti, di governi che non tengono sotto controllo tribù, clan, etnie, gruppi paramilitari; dove il potere pubblico è eroso, ha perduto legittimazione ed efficacia, non controlla il territorio (…) In questi Stati i poteri centrali sono fatiscenti, non assicurano l’uso legittimo della forza; i diritti umani sono violati; la popolazione vive in povertà.
Questi Stati falliti o fragili esportano gravi problemi in altre parti del mondo, specialmente in quelle vicine (…) Gli altri Stati, specialmente quelli confinanti, debbono, quindi, darsi carico delle tensioni prodotte dall’emigrazione e della minaccia che deriva dal terrorismo.
Non tutte le cause di questa situazione sono interne. Molte dipendono dalle costruzioni artificiali imposte dalle maggiori potenze mondiali prima di lasciare le loro colonie o al termine di conflitti bellici. Oppure da interventi di paesi occidentali, talora diretti allo scopo di abbattere governi autoritari o dittatoriali, che hanno, però, scoperchiato e reso più virulenti conflitti locali.
La comunità internazionale, sotto l’egida dell’Onu o di governi regionali come l’Unione europea, deve assicurare assistenza internazionale per favorire o imporre il ripristino delle funzioni di governo? In astratto, è il popolo stesso che deve costituirsi in Stato, agendo dal basso, perché, proprio secondo i dettati della Carta delle Nazioni Unite, ha diritto all’autodeterminazione. Più concretamente, c’è chi dice che gli Stati falliti o fragili vengono usati per interventi esterni, e che si ritorna all’imperialismo ottocentesco. Altri dice che sono meglio dittatori come Saddam, Gheddafi e Mubarak, garanti della stabilità. Dunque, il principio di sovranità popolare escluderebbe interventi esterni, come quello disegnato dalla risoluzione Onu del 14 marzo 2014 per assicurare la transizione alla democrazia in Libia, preparare una nuova costituzione e costruire un governo centrale efficace.
Queste posizioni neutraliste sono sbagliate sia storicamente, sia dal punto di vista politico, sia da quello etico. Ignorano che gli Stati moderni non si sono formati in virtù di una volontà costituente del popolo, ma grazie a un processo lento nel quale il centro motore è stato un esecutivo, spesso con l’aiuto di forze esterne, come l’Italia di Cavour grazie alla Francia di Napoleone III. Dimenticano che la condizione di un governo pacifico del mondo è che gli Stati possano cooperare e che, per cooperare, debbono innanzitutto esistere (...) Tralasciano l’obbligo morale di tutti gli Stati di considerare le condizioni nelle quali vivono i propri vicini.
L’Unione europea ha un problema aggiuntivo, che dipende dal fatto che gran parte di questi Stati deboli o inesistenti sta nell’Africa centrale e nel Vicino Oriente, cioè in zone non lontane. Quindi, ha una responsabilità maggiore (e un maggiore interesse) a darsi carico della promozione di costruzioni statali in questi Paesi. L’Unione europea, così come le Nazioni unite, incontra, però, difficoltà che rendono inefficaci i propri buoni propositi. (…) »

Estratti da Sabino Cassese, “Le minacce degli stati falliti”, Corriere della sera, 22 agosto 2016. L'articolo per intero è leggibile a:
http://www.corriere.it/cultura/16_agosto_22/cassese-bff1f01c-67c4-11e6-b2ea-2981f37a7723.shtml
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Cassese va per le spicce. Classifica questi Stati in due categorie: degli “Stati falliti”, tra cui ricorda Siria Iraq Libia e Yemen, facendo sua la vulgata nord-americana; degli “Stati fragili”, tanto numerosi da non poter nemmeno essere elencati. Rimane sottinteso che la loro “fragilità” li espone al rischio di tramutarsi in “fallimento” manifesto.
Ma cosa accomuna gli “Stati falliti”, oltre alle cattive esportazioni?
Per non fare di ogni erba un fascio, nella diagnosi quanto nella terapia, sarebbe stato opportuno ed “equilibrato” esaminarli uno ad uno, prima di - o evitando di - bollarli con un'etichetta unica, da cui far derivare una cura altrettanto unica, direi universale.
Così il lettore avrebbe compreso per quali motivi tra i “falliti”, per esempio, non venga annoverato l'Afghanistan. Una dimenticanza? Sarebbe una dimenticanza assai opportuna, perché quel Paese è già da anni sottoposto, inutilmente, ai tentativi terapici di State building3, qui riproposti da Cassese con un occhio di riguardo alla vicina Libia.
Artifici coloniali
Non si possono proporre rimedi se non a seguito di una individuazione delle cause. E qui Sabino Cassese afferma perentorio: “Non tutte le cause di questa situazione sono interne.”
Chi potrebbe sostenere il contrario?
Tra le cause “esterne”, storiche, annovera il lascito di “costruzioni artificiali” da parte del colonialismo.
Anche solo osservando i confini geografici tracciati dalle potenze coloniali in Medio Oriente ed in Africa, appare però chiaro che il loro intento fu di “dividere per imperare”, seminando zizzania tra etnie, religioni, “razze”, nazioni e popoli. Dopo la loro “partenza”, quel “lascito” poteva venire sfruttato per destabilizzare i nuovi Stati indipendenti. Il che puntualmente avvenne, anche se non subito.
Sul piano economico, a seguito della decolonizzazione, vi fu un periodo, tra il 1960 ed il 1980, che fece registrare un certo incremento del reddito pro-capite (+1,6% l'anno) anche per l'Africa sub-sahariana4, tra le regioni più svantaggiate del Terzo Mondo.
L'Africa nera ereditava una pesantissima situazione, generata da una spoliazione plurisecolare da parte europea. Milioni di neri furono fatti schiavi5 ed in gran parte venduti nelle Americhe. Non hanno forse garantito la base dello sviluppo della ex-colonia inglese, in seguito Stati Uniti d'America, restandovi schiavi fino alla guerra civile del 1861-65? Quanto fruttarono quello ed altri “commerci” alla liberale Inghilterra? Quanta ricchezza, con la repressione più disumana, accumularono gli Stati colonialisti, dal piccolo Belgio alla grande Francia, dai loro vasti domini africani?
L'elenco che coinvolge la supponente ed impareggiabile “nostra civiltà” sarebbe infinito e comprende pure l'Italia, tra le tardive potenze alla ricerca di “un posto al sole” tra Abissinia e “quarta sponda” libica.
Anni '80
Se la fine dei “gloriosi trent'anni”6 portò i Paesi allora detti del Primo Mondo sulla via delle politiche liberiste propugnate da Thatcher e Reagan, per i Paesi in via di sviluppo quelle politiche ebbero effetti devastanti.
In occasione della crisi del debito dei Paesi del Terzo Mondo, negli anni '80, vennero loro imposti dal FMI, dalla Banca Mondiale e dal Gatt (poi WTO) programmi di “aggiustamento strutturale” che erano tutti protesi a smantellare ogni tentativo dei governi locali di gestire un proprio sviluppo autonomo. Dovettero soccombere al “libero scambio” ed al “libero mercato, alla concorrenza tra economie “aperte”. Come se ex-colonie ed ex-protettorati potessero competere alla pari con i Paesi ex-coloniali e gli Usa, dal secondo dopoguerra divenuti leader dei Paesi ricchi.
D'altro canto, i Paesi ricchi euro-atlantici hanno sempre badato bene a “dare un calcio alla scala”7 dello sviluppo dall'alto del vertice consolidato a cui erano arrivati.
In ogni caso non mancò, alla bisogna, il ricorso ad altri mezzi più “tradizionali”: colpi di Stato, corruzione dei gruppi dirigenti, signori della guerra prontamente armati...
Per essere chiari: le “loro” attuali cattive esportazioni traggono origine dalle “nostre” cattive esportazioni, non solo del passato ma pure del presente.
Sabino Cassese e Giorgio Napolitano
Dagli anni '90
Cassese riconosce ai governi occidentali la buona intenzione di essere intervenuti in questi Paesi per abbattervi alcuni odiati dittatori, inevitabilmente scoperchiando e rendendo più virulenti i conflitti locali.
Avrebbe dovuto aggiungere ulteriori tratti esplicativi, relativi proprio agli “Stati falliti” nel suo catalogo.
Saddam Hussein fu eliminato grazie ad una guerra d'aggressione degli Stati Uniti8, dopo che l'avevano armato per un sanguinosissimo conflitto (1980-1988) di trincea contro l'Iran khomeinista, e facendo ampio affidamento sugli aspri contrasti presenti sul territorio iracheno, tra curdi ed arabi, a loro volta divisi tra musulmani sunniti e sciiti.
Gheddafi fu defenestrato e giustiziato approfittando di una ribellione interna dai contorni tribali e passatisti (inalberava da Bengasi la bandiera che fu di re Idris), dagli esiti incerti senza i tempestivi bombardamenti di Francia, Gran Bretagna e Usa, ai quali, di malavoglia, si accodò l'Italia per non vedersi sottratti i propri contratti di sfruttamento del petrolio e del gas libici. Ragione essenziale per cui, tuttora, armeggia in rivalità con gli “amici” di Parigi.
Nello Yemen tutto l'occidente euro-atlantico appoggia l'Arabia Saudita (principale acquirente mondiale di armi) che, sempre bombardando, puntella il governo sunnita contro la ribellione sciita interna, sostenuta dall'Iran. Ed è risaputo che il Regno saudita è stato prima culla di al-Queda e poi della sua costola Isis, quando nelle capitali euro-atlantiche si decise che, stante la crisi interna siriana, era giunto il momento di far fuori al-Assad ed il suo regime a base sciita, alleato dell'Iran e della Russia. Allo scopo, contro quel nemico principale, vennero radunati e foraggiati anche tutti i gruppi jihadisti di parte sunnita e d'ispirazione salafita radicale.
Il fatto che queste potenze, protese da sempre a debellare qualsiasi governo nazionalista locale, seppure debolmente e contraddittoriamente autonomo, abbiano lanciato un boomerang che ora ci ritorna addosso, non le ripulisce certo delle loro pesanti “responsabilità morali”.
Soprattutto, permanendo operanti gli interessi da cui furono e sono mosse, non è per niente attendibile fare appello alla loro “responsabilità” per promuoverle ora, con qualche credenziale politica e umanitaria, quali forze costruttrici delle istituzioni e della sovranità statale su quei territori, in nome e per conto di quei popoli.
In sostanza, finito in malo modo il periodo in cui si voleva “esportare la democrazia” nei già catalogati “Stati canaglia”, ora, sotto le bandiere del “cosmopolitismo dei diritti” (che esclude quello prioritario all'autodeterminazione) e della “comunità internazionale”, con presunzione culturale sorretta da paternalismo giuridico-istituzionale bombardante, si nutre la pretesa di ricostruire dall'esterno Stati fatti fallire e, poi, messi sotto procedura fallimentare internazionale.
La “perla” di Cassese
Al rivestimento ideologico della lotta contro le “posizioni neutraliste”- le quali non sono affatto neutrali, bensì contrarie all'interventismo e alla guerra - non poteva mancare il suggello di una revisione della nostra storia risorgimentale. Sempre a convalida dei “buoni propositi” degli attuali state builders globali.
Sicché Napoleone III diventa disinteressato protagonista della nostra unità nazionale, omettendo che gli vennero date, in cambio del suo intervento militare, Nizza e la Savoia, da parte dello Stato piemontese (1860), il quale si pose a capo di un complesso movimento patriottico culminato nella “conquista regia”, ma grazie al concorso decisivo e remissivo delle imprese garibaldine.
Si può, anche solo lontanamente, assimilare l'unificazione politica italiana, certo guidata da un blocco storico che escludeva le masse contadine, alla situazione libica odierna?
Si può, senza il minimo senso di vergogna intellettuale, paragonare Napoleone III ed il nostro ottocento nazionale alla natura dell'intervento esterno euro-occidentale attuale in Libia?
Si può, perché Cassese scorge il “centro motore” di tutto nel ruolo salvifico dell'esecutivo, come se Fayez al-Sarraj fosse Camillo Benso di Cavour! Come se i governi euro-atlantici, e tra loro quello italiano di Matteo Renzi, fossero novelli Napoleone III! (In tal caso, invece di Nizza e della Savoia, cosa pretenderebbero in cambio?)
Potenza degli esecutivi che decidono e fanno la storia, anche degli altri.

1 Sabino Cassese è stato giudice costituzionale. Attualmente è professore emerito della Scuola Normale Superiore di Pisa dove insegna Storia delle Istituzioni Politiche. Insegna anche al Master of Public Affairs di Sciences-Po a Parigi e al Master in International Public Affairs della School of Government della LUISS.
2 Biagio de Giovanni, "Elogio della sovranità politica", Ed. Scientifica, 2015, pagg. 8-9.
3 Traducibile in “costruzione dello Stato”, impresa in cui sono coinvolti da tempo i governi della Nato. A tale proposito vedasi anche:http://www.limesonline.com/lafghanistan-ha-due-alternative-lo-state-building-o-il-caos/66820.
4 Ha-Joon Chang, “Economia”, il Saggiatore, 2015 (2014), pag.88.
5 La tratta riguardò circa 12 milioni di persone. Posto in relazione al totale della popolazione di quel periodo, quel dissanguamento costituì uno dei motivi storici del mancato sviluppo africano.
6 Come viene definito dalla storia economica il periodo intercorrente tra il 1945 ed il 1973.
7 L'immagine è ripresa da Ha-Joon Chang in “Cattivi samaritani”, UBE Paperbook, 2014 (2007), dall'economista tedesco Friedrich List che la usò per criticare la Gran Bretagna liberoscambista, la quale aveva raggiunto la supremazia economica grazie a dazi elevati ed ampio ricorso a sussidi alla imprese. List nel 1841 scrisse: “É un abile stratagemma, molto diffuso: quando uno ha raggiunto l'apice, dà un calcio alla scala che ha usato per arrivare in cima, così che altri non abbiano modo di salire dopo di lui.”
8 Seconda guerra del Golfo (2003), seguita alla prima guerra del Golfo (1990-91).

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