Gli “Stati falliti” esportano profughi, migranti e terrorismo. Perché sono falliti? Di chi la responsabilità? Soprattutto, qual è il rimedio? Sabino Cassese ci indica la via maestra.
- Decenni di demolizione dello sviluppo autonomo dei Paesi ex-coloniali e di interventismo bellico da parte degli Stati euro-atlantici producono un effetto boomerang: le cattive esportazioni.
- Tuttavia, all'autodeterminazione e alla non ingerenza, ad una politica di pace e di reale cooperazione, si continua a preferire l'interventismo.
- Per legittimarlo servono nuove “motivazioni”, di tipo “umanitario” e basate su una nuova interpretazione del diritto internazionale, il cosiddetto “cosmopolitismo dei diritti”. Purché tutto cambi, ma nulla cambi.
Cattivi
esportatori
Profughi,
migranti “economici” e terrorismo di “matrice islamica
fondamentalista” sono problemi che ci vengono esportati da Stati
alla deriva, situati in Medio Oriente ed in Africa Centrale. I loro
poteri centrali sono fatiscenti: inetti di fronte allo sfascio
sociale ed economico, al dilagare della povertà; impotenti verso
gruppi paramilitari che manipolano identità tribali ed etniche;
delegittimati all'uso della forza e non in grado di garantire il
governo dei loro territori, nel rispetto dei diritti umani e nello
sviluppo.
Stante
la situazione, la “comunità internazionale” ha l'obbligo morale
di intervenire, dandosi carico della promozione di istituzioni
statali capaci di ripristinare le funzioni di governo in questi
Paesi, in tal modo concorrendo alla soluzione anche dei problemi di
cui soffriamo l'esportazione.
Su
questa linea è Sabino Cassese1,
noto giurista e sostenitore di “un benefico cosmopolitismo dei
diritti”, argomentato percorrendo “vie di analisi equilibrate”
(secondo il giudizio pur critico del filosofo Biagio de Giovanni)2.
“Analisi
equilibrate” di cui, però, si cercherebbe invano traccia nel suo
articolo, apparso sulla prima del Corriere della sera dello
scorso 22 agosto [vedi riquadro in pagina],
significativamente intitolato “Le minacce degli stati falliti”.
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Obblighi
morali
«Siria,
Iraq, Libia, Yemen diventano di giorno in giorno un problema per il
mondo. Questi Paesi fanno parte della categoria degli “Stati
falliti”. Se si aggiungono gli “Stati fragili”, il loro numero
ammonta a parecchie decine. Si tratta di costruzioni statali precarie
o inesistenti, di governi che non tengono sotto controllo tribù,
clan, etnie, gruppi paramilitari; dove il potere pubblico è eroso,
ha perduto legittimazione ed efficacia, non controlla il territorio
(…) In questi Stati i poteri centrali sono fatiscenti, non
assicurano l’uso legittimo della forza; i diritti umani sono
violati; la popolazione vive in povertà.
Questi
Stati falliti o fragili esportano gravi problemi in
altre parti del mondo, specialmente in quelle vicine (…) Gli altri
Stati, specialmente quelli confinanti, debbono, quindi, darsi carico
delle tensioni prodotte dall’emigrazione e della minaccia che
deriva dal terrorismo.
Non
tutte le cause di questa situazione sono interne.
Molte dipendono dalle costruzioni artificiali imposte dalle maggiori
potenze mondiali prima di lasciare le loro colonie o al termine di
conflitti bellici. Oppure da interventi di paesi occidentali, talora
diretti allo scopo di abbattere governi autoritari o dittatoriali,
che hanno, però, scoperchiato e reso più virulenti conflitti
locali.
La
comunità internazionale, sotto l’egida dell’Onu o
di governi regionali come l’Unione europea, deve assicurare
assistenza internazionale per favorire o imporre il ripristino delle
funzioni di governo? In astratto, è il popolo stesso che deve
costituirsi in Stato, agendo dal basso, perché, proprio secondo i
dettati della Carta delle Nazioni Unite, ha diritto
all’autodeterminazione. Più concretamente, c’è chi dice che gli
Stati falliti o fragili vengono usati per interventi esterni, e che
si ritorna all’imperialismo ottocentesco. Altri dice che sono
meglio dittatori come Saddam, Gheddafi e Mubarak, garanti della
stabilità. Dunque, il principio di sovranità popolare escluderebbe
interventi esterni, come quello disegnato dalla risoluzione Onu del
14 marzo 2014 per assicurare la transizione alla democrazia in Libia,
preparare una nuova costituzione e costruire un governo centrale
efficace.
Queste
posizioni neutraliste sono sbagliate sia storicamente, sia dal punto
di vista politico, sia da quello etico.
Ignorano che gli Stati moderni non si sono formati in virtù di una
volontà costituente del popolo, ma grazie a un processo lento nel
quale il centro motore è stato un esecutivo, spesso con l’aiuto di
forze esterne, come l’Italia di Cavour grazie alla Francia di
Napoleone III. Dimenticano che la condizione di un governo pacifico
del mondo è che gli Stati possano cooperare e che, per cooperare,
debbono innanzitutto esistere (...) Tralasciano l’obbligo morale di
tutti gli Stati di considerare le condizioni nelle quali vivono i
propri vicini.
L’Unione
europea ha un problema aggiuntivo,
che dipende dal fatto che gran parte di questi Stati deboli o
inesistenti sta nell’Africa centrale e nel Vicino Oriente, cioè in
zone non lontane. Quindi, ha una responsabilità maggiore (e un
maggiore interesse) a darsi carico della promozione di costruzioni
statali in questi Paesi. L’Unione europea, così come le Nazioni
unite, incontra, però, difficoltà che rendono inefficaci i propri
buoni propositi. (…) »
Estratti
da Sabino Cassese, “Le minacce degli stati falliti”, Corriere
della sera, 22 agosto 2016. L'articolo
per intero è leggibile a:
http://www.corriere.it/cultura/16_agosto_22/cassese-bff1f01c-67c4-11e6-b2ea-2981f37a7723.shtml
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Cassese
va per le spicce. Classifica questi Stati in due categorie: degli
“Stati falliti”, tra cui ricorda Siria Iraq Libia e Yemen,
facendo sua la vulgata nord-americana; degli “Stati fragili”,
tanto numerosi da non poter nemmeno essere elencati. Rimane
sottinteso che la loro “fragilità” li espone al rischio di
tramutarsi in “fallimento” manifesto.
Ma
cosa accomuna gli “Stati falliti”, oltre alle cattive
esportazioni?
Per
non fare di ogni erba un fascio, nella diagnosi quanto nella terapia,
sarebbe stato opportuno ed “equilibrato” esaminarli uno ad uno,
prima di - o evitando di - bollarli con un'etichetta unica, da cui
far derivare una cura altrettanto unica, direi universale.
Così
il lettore avrebbe compreso per quali motivi tra i “falliti”, per
esempio, non venga annoverato l'Afghanistan. Una dimenticanza?
Sarebbe una dimenticanza assai opportuna, perché quel Paese è già
da anni sottoposto, inutilmente, ai tentativi terapici di State
building3,
qui riproposti da Cassese con un occhio di riguardo alla vicina
Libia.
Artifici
coloniali
Non
si possono proporre rimedi se non a seguito di una individuazione
delle cause. E qui Sabino Cassese afferma perentorio: “Non tutte le
cause di questa situazione sono interne.”
Chi
potrebbe sostenere il contrario?
Tra
le cause “esterne”, storiche, annovera il lascito di “costruzioni
artificiali” da parte del colonialismo.
Anche
solo osservando i confini geografici tracciati dalle potenze
coloniali in Medio Oriente ed in Africa, appare però chiaro che il
loro intento fu di “dividere per imperare”, seminando zizzania
tra etnie, religioni, “razze”, nazioni e popoli. Dopo la loro
“partenza”, quel “lascito” poteva venire sfruttato per
destabilizzare i nuovi Stati indipendenti. Il che puntualmente
avvenne, anche se non subito.
Sul
piano economico, a seguito della decolonizzazione, vi fu un periodo,
tra il 1960 ed il 1980, che fece registrare un certo incremento del
reddito pro-capite (+1,6% l'anno) anche per l'Africa sub-sahariana4,
tra le regioni più svantaggiate del Terzo Mondo.
L'Africa
nera ereditava una pesantissima situazione, generata da una
spoliazione plurisecolare da parte europea. Milioni di neri furono
fatti schiavi5
ed in gran parte venduti nelle Americhe. Non hanno forse garantito la
base dello sviluppo della ex-colonia inglese, in seguito Stati Uniti
d'America, restandovi schiavi fino alla guerra civile del 1861-65?
Quanto fruttarono quello ed altri “commerci” alla liberale
Inghilterra? Quanta ricchezza, con la repressione più disumana,
accumularono gli Stati colonialisti, dal piccolo Belgio alla grande
Francia, dai loro vasti domini africani?
L'elenco
che coinvolge la supponente ed impareggiabile “nostra civiltà”
sarebbe infinito e comprende pure l'Italia, tra le tardive potenze
alla ricerca di “un posto al sole” tra Abissinia e “quarta
sponda” libica.
Anni
'80
Se
la fine dei “gloriosi trent'anni”6
portò i Paesi allora detti del Primo Mondo sulla via delle politiche
liberiste propugnate da Thatcher e Reagan, per i Paesi in via di
sviluppo quelle politiche ebbero effetti devastanti.
In
occasione della crisi del debito dei Paesi del Terzo Mondo, negli
anni '80, vennero loro imposti dal FMI, dalla Banca Mondiale e dal
Gatt (poi WTO) programmi di “aggiustamento strutturale” che erano
tutti protesi a smantellare ogni tentativo dei governi locali di
gestire un proprio sviluppo autonomo. Dovettero soccombere al “libero
scambio” ed al “libero mercato, alla concorrenza tra economie
“aperte”. Come se ex-colonie ed ex-protettorati potessero
competere alla pari con i Paesi ex-coloniali e gli Usa, dal secondo
dopoguerra divenuti leader dei Paesi ricchi.
D'altro
canto, i Paesi ricchi euro-atlantici hanno sempre badato bene a “dare
un calcio alla scala”7
dello sviluppo dall'alto del vertice consolidato a cui erano
arrivati.
In
ogni caso non mancò, alla bisogna, il ricorso ad altri mezzi più
“tradizionali”: colpi di Stato, corruzione dei gruppi dirigenti,
signori della guerra prontamente armati...
Per
essere chiari: le “loro” attuali cattive esportazioni traggono
origine dalle “nostre” cattive esportazioni, non solo del passato
ma pure del presente.
Sabino Cassese e Giorgio Napolitano |
Dagli
anni '90
Cassese
riconosce ai governi occidentali la buona intenzione di essere
intervenuti in questi Paesi per abbattervi alcuni odiati dittatori,
inevitabilmente scoperchiando
e rendendo più virulenti i conflitti locali.
Avrebbe
dovuto aggiungere ulteriori tratti esplicativi, relativi proprio agli
“Stati falliti” nel suo catalogo.
Saddam
Hussein fu eliminato grazie ad una guerra d'aggressione degli Stati
Uniti8,
dopo che l'avevano armato per un sanguinosissimo conflitto
(1980-1988) di trincea contro l'Iran khomeinista, e facendo ampio
affidamento sugli aspri contrasti presenti sul territorio iracheno,
tra curdi ed arabi, a loro volta divisi tra musulmani sunniti e
sciiti.
Gheddafi
fu defenestrato e giustiziato approfittando di una ribellione interna
dai contorni tribali e passatisti (inalberava da Bengasi la bandiera
che fu di re Idris), dagli esiti incerti senza i tempestivi
bombardamenti di Francia, Gran Bretagna e Usa, ai quali, di
malavoglia, si accodò l'Italia per non vedersi sottratti i propri
contratti di sfruttamento del petrolio e del gas libici. Ragione
essenziale per cui, tuttora, armeggia in rivalità con gli “amici”
di Parigi.
Nello
Yemen tutto l'occidente euro-atlantico appoggia l'Arabia Saudita
(principale acquirente mondiale di armi) che, sempre bombardando,
puntella il governo sunnita contro la ribellione sciita interna,
sostenuta dall'Iran. Ed è risaputo che il Regno saudita è stato
prima culla di al-Queda e poi della sua costola Isis, quando nelle
capitali euro-atlantiche si decise che, stante la crisi interna
siriana, era giunto il momento di far fuori al-Assad ed il suo regime
a base sciita, alleato dell'Iran e della Russia. Allo scopo, contro
quel nemico principale, vennero radunati e foraggiati anche tutti i
gruppi jihadisti di parte sunnita e d'ispirazione salafita radicale.
Il
fatto che queste potenze, protese da sempre a debellare qualsiasi
governo nazionalista locale, seppure debolmente e
contraddittoriamente autonomo, abbiano lanciato un boomerang
che ora ci ritorna addosso, non le ripulisce certo delle loro pesanti
“responsabilità morali”.
Soprattutto,
permanendo operanti gli interessi da cui furono e sono mosse, non è
per niente attendibile fare appello alla loro “responsabilità”
per promuoverle ora, con qualche credenziale politica e umanitaria,
quali forze costruttrici delle istituzioni e della sovranità statale
su quei territori, in nome e per conto di quei popoli.
In
sostanza, finito in malo modo il periodo in cui si voleva “esportare
la democrazia” nei già catalogati “Stati canaglia”, ora, sotto
le bandiere del “cosmopolitismo dei diritti” (che esclude quello
prioritario all'autodeterminazione) e della “comunità
internazionale”, con presunzione culturale sorretta da paternalismo
giuridico-istituzionale bombardante, si nutre la pretesa di
ricostruire dall'esterno Stati fatti fallire e, poi, messi sotto
procedura fallimentare internazionale.
La
“perla” di Cassese
Al
rivestimento ideologico della lotta contro le “posizioni
neutraliste”- le quali non sono affatto neutrali, bensì contrarie
all'interventismo e alla guerra - non poteva mancare il suggello di
una revisione della nostra storia risorgimentale. Sempre a convalida
dei “buoni propositi” degli attuali state builders globali.
Sicché
Napoleone III diventa disinteressato protagonista della nostra
unità nazionale, omettendo che gli vennero date, in cambio del suo
intervento militare, Nizza e la Savoia, da parte dello Stato
piemontese (1860), il quale si pose a capo di un complesso movimento
patriottico culminato nella “conquista regia”, ma grazie al
concorso decisivo e remissivo delle imprese garibaldine.
Si
può, anche solo lontanamente, assimilare l'unificazione politica
italiana, certo guidata da un blocco storico che escludeva le masse
contadine, alla situazione libica odierna?
Si
può, senza il minimo senso di vergogna intellettuale, paragonare
Napoleone III ed il nostro ottocento nazionale alla natura
dell'intervento esterno euro-occidentale attuale in Libia?
Si
può, perché Cassese scorge il “centro motore” di tutto nel
ruolo salvifico dell'esecutivo, come se Fayez al-Sarraj
fosse Camillo Benso di Cavour! Come se i governi
euro-atlantici, e tra loro quello italiano di Matteo Renzi, fossero
novelli Napoleone III! (In tal caso, invece di Nizza e della Savoia,
cosa pretenderebbero in cambio?)
Potenza
degli esecutivi che decidono e fanno la storia, anche degli altri.
1
Sabino
Cassese è stato giudice costituzionale. Attualmente
è professore emerito della Scuola Normale Superiore di Pisa
dove
insegna Storia delle Istituzioni Politiche.
Insegna anche al Master
of Public Affairs di
Sciences-Po
a Parigi e
al Master in International
Public Affairs della
School
of Government della
LUISS.
2
Biagio de Giovanni, "Elogio della sovranità politica", Ed.
Scientifica, 2015, pagg. 8-9.
3
Traducibile in “costruzione dello Stato”,
impresa in cui sono coinvolti da tempo i governi della Nato. A tale
proposito vedasi
anche:http://www.limesonline.com/lafghanistan-ha-due-alternative-lo-state-building-o-il-caos/66820.
4
Ha-Joon Chang, “Economia”, il Saggiatore, 2015 (2014), pag.88.
5
La tratta riguardò circa 12 milioni di persone. Posto in relazione
al totale della popolazione di quel periodo, quel dissanguamento
costituì uno dei motivi storici del mancato sviluppo africano.
6
Come viene definito dalla storia economica il periodo intercorrente
tra il 1945 ed il 1973.
7
L'immagine è ripresa da Ha-Joon Chang in “Cattivi samaritani”,
UBE Paperbook, 2014 (2007), dall'economista tedesco Friedrich List
che la usò per criticare la Gran Bretagna liberoscambista, la quale
aveva raggiunto la supremazia economica grazie a dazi elevati ed
ampio ricorso a sussidi alla imprese. List nel 1841 scrisse: “É
un abile stratagemma, molto diffuso: quando uno ha raggiunto
l'apice, dà un calcio alla scala che ha usato per arrivare in cima,
così che altri non abbiano modo di salire dopo di lui.”
8
Seconda guerra del Golfo (2003), seguita alla prima guerra del Golfo
(1990-91).
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