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Elezioni
europee. Mentre in Italia proliferano le liste di centro-sinistra e
di sinistra “eurocredenti”, in Francia la gauche
“euroscettica” discute su come uscire dal cul-de-sac
dell'Unione, approfondendo temi e prefigurando strategie.
Nella
sinistra italiana fervono i preparativi.
A
gennaio Carlo Calenda aveva lanciato l'idea, con il suo manifesto
Siamo
Europei!, di
una lista unitaria europeista antisovranista.1
Gli
iniziali entusiasmi sono stati spenti dalla semplice considerazione
che il “listone” non conveniva, dato il sistema elettorale
europeo proporzionale. Molto più utile la presentazione di più
liste “eurocredenti”. Eccone l'elenco provvisorio:
- una prima lista, +Europa in Comune, sarebbe composta da: +Europa di Emma Bonino e Benedetto della Vedova, che avevano declinato da subito l'invito di Calenda; Italia in Comune di Federico Pizzarotti; i “prodiani” del deputato Serse Soverini;
- il neo-segretario Nicola Zingaretti presenta il simbolo PD-Siamo europei con Calenda e lavora ad una lista con gli ex fuoriusciti guidati da Roberto Speranza (Articolo 1 – LeU), volendo stare in Europa in un fronte ampio “da Macron a Tsipras”;
- una terza lista, Sinistra europea, potrebbe essere il risultato della convergenza tra Sinistra Italiana di Nicola Fratoianni e quel che rimane di Rifondazione Comunista, con l'eventuale adesione dei Verdi di Angelo Bonelli, “traditi” dal voltafaccia di Pizzarotti col quale avevano raggiunto una precedente intesa.
In
questo fronte non si riconoscono i promotori del Manifesto
per la sovranità costituzionale,2
presentato
il 9 di marzo al Teatro dei Servi a Roma, col quale si vuole dare
vita ad una nuova formazione politica non limitata alla questione
europea.
Tutto
ciò accade mentre oltralpe ferve una discussione nella sinistra
francese, riportata da Le
Monde diplomatique
(in versione italiana è uscito come supplemento mensile del
quotidiano il
Manifesto),
con un dossier sull'Unione europea “da rifare”.
Dalle
pagine di Le
MondeDiplo [vedi
nella finestra sopra] emerge
un dibattito
incentrato sulla impasse
in cui versa l'Unione, ben chiarita dalla ricostruzione di Antoine
Schwartz, ed oggetto di un'analisi di Frédéric Lordon, latore di
una proposta per superarla. Il Dossier non trascura di riportare la
posizione di Yanis Varoufakis, in un contesto caratterizzato dalla
presenza preponderante nella sinistra di France
insoumise,
della cui strategia verso l'Ue rende conto Thomas
Guénoble.
Partire
dal dibattito nella sinistra francese sui destini dell'Unione
europea, mi pare utile per comprendere le differenze con la
situazione italiana, di cui mi occuperò nel prossimo Post.
La
classe istruita
Può
far sorridere che, giustappunto da un proprio supplemento, provenga
una così pungente critica all'atteggiamento del quotidiano (il
Manifesto) che lo contiene in edizione italiana.
Dalla
prima scrive Frédéric Lordon:3
«In
effetti, c'è tutta una parte dell'opinione pubblica di sinistra che,
pur disapprovando, a volte con veemenza, il contenuto specifico delle
politiche europee e i conseguenti vincoli sulla condotta delle
politiche nazionali, non accetta l'idea generale, e coerente, di
rompere con l'euro. Questi individui non fanno che pontificare contro
“l'Europa dell'austerity”, ma non appena si propone loro di
uscirne rispondono “assolutamente no!”. Finché tale impasse
rimarrà irrisolta, la sinistra non riuscirà mai ad andare al
governo.»
Lordon
non è affatto tenero con la borghesia istruita di sinistra che «si
ritiene la punta avanzata della razionalità all'interno della
società, mentre di fatto costituisce il suo elemento più
incoerente: in preda più di ogni altra alla paura, sublima i suoi
timori in un umanesimo europeista e in posizioni internazionaliste
astratte che le consentono, o almeno così crede, di ergersi a
piedistallo morale – qualunque sia il prezzo economico e sociale
(pagato da altri). Questa compagine continua a cercare nell'”euro
democratico” e nel suo “parlamento” una soluzione irrealistica
alle proprie contraddizioni interne.»
Vista
in controluce, piuttosto chiara è la critica rivolta alle posizioni
di Yanis Varoufakis.
Poiché,
constata Lordon, dall'impasse non si esce facendo a meno dei
voti influenzati dalla borghesia istruita di sinistra, bisognerà
arrivare ad un accordo.
In
cambio del riconoscimento alle classi popolari dell'uscita dal
sistema euro, essa dovrà ottenere:
«La
promessa di una sorta di “nuovo progetto europeo”, al quale
bisogna dare la consistenza di una prospettiva storica.» Una
prospettiva di ordine culturale e politico, in cui sia possibile
«avvicinare i popoli europei gli uni agli altri in tutt'altro
modo rispetto a quello dell'economia.»
Trascuro
il dettaglio, pur importante, della proposta e passo alla
conclusione:
«è
sicuramente possibile spiegare ai più preoccupati che, se persistere
sulla via dell'euro sarebbe la tomba di ogni speranza di sinistra,
l'idea di una comunità politica europea non dovrà necessariamente
uscire di scena, ma potrà anzi essere salvata. A condizione che le
si forniscano le sue condizioni di possibilità storica, a
coronamento di un lungo avvicinamento, ma questa volta davvero
“sempre più stretto”, tra i popoli del continente, avvicinamento
a cui il “nuovo progetto europeo”, disintossicato dal veleno
liberista dell'unione attuale, darà finalmente il suo tempo, i suoi
mezzi e la sua opportunità.»
-->
«La
vittoria del fascismo fu praticamente resa inevitabile
dall'ostruzione dei liberali ad ogni riforma che comportasse
pianificazione, regolazione, o controllo.»
In
Contromovimento
Giunti
a questo punto, osservo:
- in Italia come in Francia, ciò che tiene ancorata la borghesia istruita di sinistra all'euro non è meramente una “aspirazione ideale”, bensì la retrostante convinzione “materiale” che la perdita della moneta unica equivalga alla perdita di potere d'acquisto dei propri alti redditi, nonché di valore (espresso in euro) delle proprietà mobili ed immobili;
- in Italia la convinzione della borghesia di sinistra istruita è assai diffusa anche presso gli istruiti che definire “borghesi” sarebbe improprio, in particolare quando appartengono agli strati medio e medio-bassi della middle class di reddito-consumo (anche da lavoro dipendente qualificato) di cui tutte le statistiche, immancabilmente, rilevano il declino;
- nel nostro Paese, mercé la crisi e la forte disoccupazione, nonché una certa radicata cultura del risparmio, per le famiglie appena sopra la soglia della povertà “mettere qualcosa da parte” è diventato un obbligo morale; al momento, la paura della perdita di valore della moneta prevale sulla spinta a riguadagnare quanto è stato perso in vent'anni di euro;4
- non è altrimenti spiegabile la prevalente opinione in ambito nazionale, risultante da una indagine d'opinione della Commissione Ue,5 per cui, a fronte di un giudizio complessivamente “non entusiasta” sull'Eurozona, permanga un giudizio positivo sull'euro.
Se
ne desume che il rigetto dell'attuale Unione europea sia frutto di
un Contromovimento della società in sua autodifesa. Una autodifesa
che attiene alle conseguenze devastatrici delle politiche europee,
piuttosto che alla lucida individuazione delle strutture e dei
meccanismi originati da tali politiche.
Ciò
nonostante essa, ovunque in Europa, mostra una certa resistenza al
quotidiano martellamento fazioso dei maggiori media tradizionali
(quotidiani e televisioni), dai quali trasuda un malcelato disprezzo
delle élites intellettuali verso i popoli, soprattutto in
occasione di “inquietanti fenomeni” come la Brexit, il movimento
dei giubbotti gialli o il successo elettorale del M5S. Fenomeni di
cui non riescono a capacitarsi, perché in preda al proprio ”essere
sociale che fa la coscienza”.
Nel
magma convulso di questo Contromovimento dipende da come e da quali
forze verrà gestito il “momento Polanyi”,6
non a caso evocato da Stefano Fassina nel presentare alla stampa il
“Manifesto per la sovranità costituzionale”, se si potrà o meno
aprire la prospettiva di un effettivo e stabile avvicinamento tra i
popoli europei.
In
Francia, grazie alla forte presenza di France
insoumise,
la discussione può ancora vertere sui destini della sinistra, mentre
in Italia la situazione è diversa, perché la sinistra si è
infilata al completo nel cul-de-sac
dell'Unione, a tal punto da aver perso i propri connotati
novecenteschi, di rappresentare le “classi subalterne” ed i loro
interessi.
Prima
di avanzare la proposta di scambio alla classe borghese istruita,
Lordon riassume lucidamente in tre punti l'impasse europea.
Poiché
(punto 1) i trattati hanno sottratto alle deliberazioni delle
assemblee elettive alcune essenziali politiche pubbliche, rendendo
straordinaria la procedura democratica per riappropriarsene:
«2.
Un progetto che volesse rendere l'Europa davvero democratica dovrebbe
proporre una revisione dei trattati che istituisca un vero
parlamento, a cui sia restituita l'integrità dei campi decisionali
attualmente fuori dalla portata di qualsiasi nuova deliberazione
sovrana.»
«3.
Purtroppo, allo stato delle cose, a una simile revisione si
opporrebbe quantomeno il rifiuto categorico della Germania. La
Germania, infatti, ha posto come condizione della sua partecipazione
all'euro la difesa della propria ortodossia all'interno dei trattati.
Se fosse messa in minoranza proprio su questo, preferirebbe
l'integrità dei suoi principi alla permanenza nell'Unione.»
Pertanto,
qualsiasi fantasia sull'euro democratico e sulla democratizzazione
dell'Unione che riveda i trattati, si scontra inevitabilmente con la
dura realtà della posizione tedesca.
Una
presa d'atto a cui Yanis Varoufakis mostra di non voler aderire. Nel
suo intervento, “Verso una primavera elettorale”, sostiene che la
vita della maggioranza dei cittadini può venire migliorata nel
quadro delle regole esistenti e «poco importa che l'Unione sia
riformabile o meno. Ciò che conta è presentare proposte concrete su
quello che intendiamo fare delle istituzioni europee.» Proposte
contenute nel “New Deal per l'Europa” di cui il suo Movimento per
la democrazia in Europa 2025 (DiEm25) si è fatto portatore in vista
delle prossime europee.
Varoufakis
lancia «un
messaggio all'establishment autoritario europeo: vi resisteremo
attraverso un programma radicale più sofisticato del vostro sul
piano tecnico.»
Ma
contrapporsi all'establishment
attraverso la radicalità tecnicamente sofisticata di un programma
riformatore, rivela la stessa attitudine del farmacista che presume,
dosando abilmente gli ingredienti di una pozione, di superare la
diagnosi del medico sulla reale natura della malattia.
Ciò
non bastasse, per smarcarsi da coloro che gli chiedono perché DiEm25
non si allei con France
insoumise
di Jean-Luc Mélenchon e, in Germania, con il movimento Aufstehen
di Sahra Wagenknecht ed Oskar Lafontaine, l'ex ministro delle Finanze
greco ricorre ad un argomento, a suo dire, dirimente.
Per
l'ex ministro delle Finanze greco, con le suddette forze l'unità
della sinistra non è possibile, poiché non aderiscono ad un
“umanesimo radicale, razionale ed internazionalista”.
La
prova della “non adesione” era stata premessa sin dalle righe
iniziali:
«Negli
ultimi anni è successa una cosa singolare: molti cittadini di
sinistra sono stati spinti a pensare che le frontiere aperte siano
nocive per la classe operaia. “Non
sono mai stato a favore della libertà di stabilimento”,
ha dichiarato più volte Jean-Luc Mélenchon (La France insoumise).
Intervenendo al parlamento europeo nel luglio del 2016 sulla
questione dei lavoratori distaccati, ha dichiarato che ogni volta che
uno di questi arriva “ruba
il pane ai lavoratori che si trovano sul posto”.
In seguito si è pentito di queste affermazioni, ma la sua analisi
degli effetti delle migrazioni sui salari domestici non è cambiata.»
Benché
la frase sul “pane rubato” di Mélenchon sia oltremodo
inaccettabile, l'analisi degli effetti delle delocalizzazioni e delle
migrazioni sui salari domestici è ineccepibile e spiega uno dei
motivi reali (non il solo) per cui l'establishment
europeo vi sia così tenacemente affezionato: contrapponendo i
lavoratori residenti ai lavoratori impiegati negli stabilimenti
traslocati ed agli immigrati, si massimizza il monte profitti del
capitalismo finanziario che lo sorregge.
Un
dato di fatto ineludibile, anche ricorrendo a Lenin (!), il quale nel
1913 giustamente accusava di sciovinismo7
quei socialisti nord-americani che volevano imporre delle
“restrizioni” all'immigrazione negli Stati Uniti. I quali - per
inciso, siamo agli inizi del Novecento - non possono venire
paragonati ai Paesi europei, dell'Unione o desiderosi di entrarvi,
dei primi due decenni del Duemila.
La
priorità di Varoufakis rivela un approccio generale che pretende di
estrapolare la questione migratoria odierna dal contesto della
globalizzazione contemporanea, per anteporla ad ogni altra
considerazione, in quanto “questione umana” posta a fondamento di
un ”umanesimo radicale, razionale ed internazionalista”. Sicché
le altre “questioni umane” derivanti da guerra, sfruttamento,
povertà e disuguaglianze globali, passerebbero in subordine, a
prescindere dall'insieme sistemico che continuamente le genera.
Sarebbero meno umane, meno radicali, meno razionali e, va da sé,
contrarie all'internazionalismo.
In
virtù della assoluta priorità data alla questione migratoria, in
quanto “più umana”, di conseguenza, le frontiere aperte sono
cosa buona e giusta.
Poco
importa che esse permettano un esercito di riserva sempre rinfoltito
e disponibile alla bisogna, mercifichino ai più bassi livelli il
lavoro salariato ed ogni bene comune, in quanto strutturalmente
connesse alla circolazione transnazionale di capitali e merci,
segnando il tempo del predominio della finanza e delle sue logiche a
detrimento dei diritti sociali, della sovranità democratica e
dell'indipendenza delle nazioni. Si dà il caso che, imponendo le
migrazioni, il capitalismo finanziarizzato ottenga due concorrenti
risultati a proprio tornaconto: espellere dai Paesi depredati delle
loro risorse i poveri “in sovrappiù” e reimpiegarli nei Paesi
ricchi in condizioni di super-sfruttamento.
L'accoglienza
è pura retorica moralistica, quando non è accompagnata da effettive
politiche di integrazione, le quali richiedono innanzitutto un
ripristino del welfare dello Stato, continuamente rimaneggiato
ed osteggiato, per “superiori necessità di bilancio”, proprio da
coloro che vogliono le frontiere aperte.
Meno
ancora può importare che l'Unione europea sia la realizzazione su
scala continentale, secondo i dettami dell'ordo-liberismo, della
globalizzazione finanziaria. Forse Lenin meriterebbe di essere letto
per intero, così l'internazionalismo socialista non verrebbe, alla
spicciolata, confuso con quello imperialista...
Forse
la questione migratoria andrebbe vista non all'esterno, bensì
all'interno di una complessiva “analisi concreta della situazione
concreta” (Lenin).
Concretezza
analitica sull'Unione europea alla quale Yanis Varoufakis crede di
sfuggire, estrapolando e distorcendo un problema per giustificare le
proprie fantasie di sofisticato riformatore tecnico.
-->
Trasformazioni ecologiche e sociali ritenute indispensabili per un trattato di rifondazione dell'Unione europea
«La
transizione del nostro sistema economico ed energetico deve essere
pianificata e resa obbligatoria. La politica agricola comune deve
passare da un'agricoltura produttivistica a un'agricoltura
ecologicamente responsabile, basata su un sistema di quote. È
necessario istituire un protezionismo solidale europeo, vale a dire
proporre alle altre potenze economiche nuovi trattati di commercio
equo e tassare le importazioni in funzione di specifiche condizioni
economiche, sociali ed ecologiche di produzione e trasporto.
Bisogna
abolire il vincolo dell'austerity in tema di bilancio e mettere in
primo piano l'armonizzazione fiscale e sociale verso l'alto di tutta
l'Unione. La politica di privatizzazione forzata dei servizi pubblici
finalizzata alla loro trasformazione in mercati oligopolistici deve
cessare e gli Stati membri devono poter rinazionalizzare i settori su
cui è già intervenuta. Serve una moratoria sul pagamento dei debiti
pubblici, al fine di valutare la quota di “debito odioso”
attraverso degli audit civici. L'indipendenza della Banca centrale
europea (Bce) dai governi deve essere abolita e le sue priorità in
materia di politica monetaria devono diventare la piena occupazione,
la transizione ecologica e l'acquisto dei debiti degli Stati membri.
Infine, per disciplinare il sistema finanziario, devono essere
introdotte la tassazione delle transazioni finanziarie (Tobin tax) e
una rigorosa separazione tra banche d'affari e banche di risparmio.»
Indomiti
disobbedienti
Questa
polemica nella sinistra europea è tutt'uno con la necessità di “non
sottomettersi” a Bruxelles, di cui si fa carico France
insoumise.
Per
il suo principale candidato, Thomas Guénolé, poiché la «Unione
europea non è un super-Stato la cui volontà s'imporrebbe
inesorabilmente sugli Stati membri», disobbedire è legale.
«Questa possibilità è chiamata opting-out.(...) Questa clausola
può essere attivata da uno Stato membro anche senza negoziazione.»
Come nel caso della Svezia, la quale, nel 2003 a seguito di un
referendum che ha detto no all'euro, ha deciso un opting-out
senza negoziazione.
Si
tratta, per Guénolé, di un modo diverso di disobbedire da quello,
più brutale, della Germania la quale, avvalendosi del «proprio
status di grande potenza», si sottrae alle sanzioni previste dal
regolamento europeo per il Paese che registri un avanzo sulle partite
correnti superiore al 6%.
«La
nostra strategia di non sottomissione è una strategia diplomatica
che considera come interlocutori principali e i governi degli altri
Stati membri. (…) Questa strategia, per tener conto di tutti i casi
possibili, deve dunque prendere la forma di un canovaccio a episodi.»
Quando
le urne permetteranno in Francia un nuovo governo, esso «proporrà
allora agli altri Stati membri di adottare, in sostituzione dei
trattati vigenti, un trattato di rifondazione dell'Unione europea.
Questa proposta includerà le trasformazioni ecologiche e sociali che
riteniamo indispensabili.» [Su queste
trasformazioni, proposte da France
insoumise, vedi estratto nella
finestra sopra.]
«Nell'attesa
dell'esito della negoziazione, la Francia disobbedirà a tutte le
regole che impediscono l'applicazione del nostro programma, “Il
Futuro in comune”.8
Si tratterà quindi di un opting out unilaterale e temporaneo.»
Giunti
a quel punto si prospetterebbero 3 soluzioni:
- l'adozione di un trattato di rifondazione;
- un accordo per un opting out collettivo di tutti i Paesi favorevoli alla proposta francese;
- la porta chiusa della Germania che si assumerebbe «la responsabilità di innescare un meccanismo che porterebbe la Francia e i suoi alleati a uscire dai trattati per fondare una nuova costruzione europea che possa applicare il progetto politico che abbiamo descritto – allargata, se necessario, a paesi europei che attualmente non fanno parte dell'Unione e ad alcuni Stati della sponda meridionale del Mediterraneo.»
Come
si evince da questa sintesi, per ottenere un accordo soddisfacente,
bisogna disporre di una soluzione di forza “alternativa”. Data la
posizione della Germania, Guénoble ritiene, delle 3 possibili, molto
probabile la seconda soluzione.
A
proposito di Germania
A
dar retta ai sondaggi pre-elettorali i
Verdi
tedeschi
riscuoteranno un notevole successo alle prossime elezioni europee.
Essi sono visti in alternativa ai due maggiori partiti che hanno
governato e governano dall'ultimo dopoguerra la Repubblica Federale,
la CDU-CSU di Angela Merkel e la SPD di Martin Schulz, verso i quali
è cresciuto il malcontento.
In
attesa del responso delle urne di maggio, da cui potrebbero venire
premiati, va sottolineata l'ambiguità della loro posizione.
Nel
2012, intervistato da Paolo Valentino,9
Joschka Fischer, ministro verde degli affari esteri e
vice-cancelliere nel governo di Gerhard Schröder dal 1998 al 2005,
si disse piuttosto preoccupato dal prevalere della strategia della
«austerità
in una fase di crisi finanziaria [che] porta solo alla depressione».
Una strategia europea dimentica degli insegnamenti della crisi del
1929, approfondita dalle politiche deflattive di Herbert Hoover negli
Stati Uniti e del cancelliere Heinrich Brüning in Germania.
Aggiungeva:
«
Sfortunatamente, sembra che i primi a dimenticarlo siamo proprio noi
tedeschi.»
Da
questa convinzione derivava:
«Per
due volte, nel XX secolo, la Germania con mezzi militari ha distrutto
se stessa e l'ordine europeo. Poi ha convinto l'Occidente di averne
tratto le giuste lezioni: solo abbracciando pienamente l'integrazione
d'Europa, abbiamo conquistato il consenso alla nostra riunificazione.
Sarebbe una tragica ironia se la Germania unita, con mezzi pacifici e
le migliori intenzioni, causasse la distruzione dell'ordine europeo
per la terza volta. Eppure il rischio è proprio questo.»
Dal
2012 ad oggi la strategia della Germania non è mutata, al contrario
ha contribuito “con mezzi pacifici” al processo di
disintegrazione dell'Europa, usando il sistema euro a proprio
spropositato vantaggio, sempre “con le migliori intenzioni”,
natürlich.
Sistema a moneta unica al quale aveva aderito di malavoglia, dovendo
rinunciare al marco, pur di ottenere dal presidente francese François
Mitterand il nulla osta alla propria riunificazione lampo.
Sapranno
i Grünen
tener
conto di questo monito?
E
se anche ciò avvenisse, c'è ancora qualcuno disposto a credere che
i Verdi tedeschi possano prevalere sulle altre forze politiche
nazionali nel determinare le scelte del loro Paese?
Note:
1
https://www.democratica.com/focus/manifesto-siamo-europei-calenda/.
2
https://www.huffingtonpost.it/stefano-fassina/perche-il-manifesto-per-la-sovranita-costituzionale_a_23664881/.
3
Il sociologo filosofo ed economista
francese Frédéric Lordon insegna alla
“école
des Hautes Etudes en Sciences
Sociales” a Parigi. Membro degli “Economiste atterrés”, è
autore del libro “La Malfaçon
– Monnai européenne et soveraineté démocratique”, Les liens
qui libérent, 2014.
4
In “Con i soldi degli altri. Il capitalismo per procura contro
l'economia”, Einaudi 2009, Luciano Gallino calcola che, in 20 anni
di euro, il trasferimento dal monte retribuzioni dei lavoratori
dipendenti ai profitti ed alle rendite è stato di circa 8 punti di
Pil.
5
Il 57% degli italiani, pur restando i meno entusiasti in Europa di
appartenere alla Zona euro, ritiene l'euro una “buona cosa”. È
il risultato di un sondaggio, dello scorso ottobre, realizzato da
“Eurobarometro” per la Commissione Ue.
6
Per “momento Polanyi” s'intende quel passaggio, analizzato agli
inizi degli anni quaranta del '900 dallo studioso Karl Polanyi, per
cui al movimento della finanziarizzazione segue il rigetto (il
Contromovimento) dell'insieme sociale che non ne accetta le
devastanti conseguenze.
7
Nazionalismo
esclusivo ed esaltato, che si esprime in un’aprioristica negazione
dei valori e dei diritti degli altri popoli e nazioni. Dal francese
chauvinisme.
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